Tra i vari titoli che la Bibbia attribuisce a Dio, c’è anche: colui che chiama. Con la sua destra egli distende i cieli, li chiama e, “tutti insieme, essi si presentano” (Is 48,13), ascoltano i suoi ordini e adempiono la loro vocazione, volteggiando nell’universo e cantando le sue lodi: “I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annuncia il firmamento” (Sl 19,2). Nulla e nessuno è anonimo davanti al Signore che “conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome” (Sl 147,4).
Al nome che Dio attribuisce ad ogni uomo corrisponde un’identità, una vocazione, una missione.
Nulla di intimistico, nulla di esterno alla persona, nulla che assomigli a un’elezione‑premio per una precedente fedeltà; la vocazione non è altro che la scoperta di ciò per cui si è fatti, del posto che si è chiamati a occupare nel creato e nel progetto di Dio. Non è rivelata attraverso sogni e visioni, ma la si scopre guardando dentro se stessi, ascoltando la parola del Signore che si fa udire, non vedere, che si manifesta negli avvenimenti e parla attraverso gli angeli che ci pone a fianco: i fratelli incaricati di interpretarci i suoi pensieri e la sua volontà.
Corrispondere alla vocazione non significa lasciarsi coinvolgere in un’impresa gravosa, imposta dall’esterno, ma realizzare se stessi, essere fedeli alla propria identità e, dunque, raggiungere l’equilibrio interiore e la gioia.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Rivelami, Signore, il nome con cui mi hai chiamato, prima che fossi concepito in grembo a mia madre”.
Prima Lettura (1 Sam 3,3-10.19)
3 Samuele era coricato nel tempio del Signore, dove si trovava l’arca di Dio.
4 Allora il Signore chiamò: “Samuele!” e quegli rispose: “Eccomi”, 5 poi corse da Eli e gli disse: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. Tornò e si mise a dormire.
6 Ma il Signore chiamò di nuovo: “Samuele!” e Samuele, alzatosi, corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Ma quegli rispose di nuovo: “Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!”. 7 In realtà Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. 8 Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!” per la terza volta; questi si alzò ancora e corse da Eli dicendo: “Mi hai chiamato, eccomi!”. Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto. 9 Eli disse a Samuele: “Vattene a dormire e, se ti si chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. Samuele andò a coricarsi al suo posto.
10 Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: “Samuele, Samuele!”. Samuele rispose subito: “Parla, perché il tuo servo ti ascolta”.
19 Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole.
Samuele, una delle figure eminenti dell’Antico Testamento, visse in un tempo di grandi sconvolgimenti politici, sociali e religiosi. Da più di un secolo i filistei, giunti dalle isole dell’Egeo, si erano installati lungo la costa, avevano occupato le fertili pianure della terra di Canaan e costretto Israele a vivere sulle montagne dove la terra è arida e sassosa. Come fronteggiare questi vicini sempre più aggressivi e invadenti? L’impresa sembrava disperata perché le tribù ebraiche erano divise e “ognuno faceva quel che gli pareva meglio” (Gdc 21,25)
Fu in questo tempo di transizione, dalla confusione sociale e politica all’avvento della monarchia, che Samuele fu chiamato dal Signore a guidare il popolo.
“La parola di Dio – ricorda il versetto che precede la nostra lettura – era rara in quei giorni e le visioni non erano frequenti” (1 Sam 3,1). Fu Samuele l’incaricato di cogliere i progetti del Signore e di comunicarli a Israele.
Il brano di oggi lo presenta mentre, ancora adolescente, cresce tranquillo a Silo, nel tempio del Signore. Una notte fu chiamato. Udiva una voce di cui ignorava la provenienza, ma non stava sognando e non era una visione; aveva bisogno dell’aiuto e dei suggerimenti di qualcuno capace di interpretargli il senso di ciò che stava accadendo.
Ebbe l’accortezza di rivolgersi alla persona giusta, al sacerdote Eli che, da uomo sensibile alla parola di Dio, intuì subito la provenienza della chiamata e indicò a Samuele la disposizione da assumere. Se udrai ancora la voce – gli suggerì – rispondi: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta” (v. 9).
Il racconto è redatto secondo lo schema e il linguaggio caratteristici delle vocazioni bibliche. I dettagli sembrano molto realistici e concreti, eppure sarebbe un errore prenderli alla lettera. L’espressione Dio parlò a… ricorre spesso nella Bibbia e non va intesa in senso materiale; non è così che il Signore si manifesta. La sua chiamata si fa udire nell’intimo, nel cuore dell’uomo e la vocazione di Samuele non fu diversa da quella che oggi è rivolta ad ognuno, per questo il brano ci aiuta a capire la nostra vocazione.
Cominciamo dalla strana osservazione: “Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la sua parola” (v. 7). È sorprendente che questo ragazzo, che aveva trascorso parecchi anni nel tempio di Silo, non conoscesse ancora il Signore. Tuttavia, se teniamo presente che, nella Bibbia, conoscere indica un’esperienza intima, un abbandono convinto e incondizionato fra le braccia della persona amata, non stupisce che Samuele, pur essendo vissuto nel tempio del Signore, non l’avesse ancora conosciuto, cioè non gli avesse ancora dato la sua piena adesione, la sua completa disponibilità a collaborare alla sua opera di salvezza.
Questa difficoltà a conoscere Dio non desta meraviglia, perché non è facile capire i pensieri e lasciarsi coinvolgere nei disegni del Signore. Anche gli abitanti di Nazareth – riferiscono i vangeli – e gli stessi familiari di Gesù che per più di trent’anni erano vissuti accanto a lui, non l’avevano conosciuto (Mc 6,1-6). Si può essere persone devote, partecipare a tutte le manifestazioni religiose senza conoscere realmente il Signore. Ci sono pagine del vangelo che abbiamo imparato a memoria, eppure, in certi momenti, abbiamo l’impressione di leggerle per la prima volta; è vero, è la prima volta che l’abbiamo lasciata penetrare nell’intimo, dopo essere rimasti, forse per anni, insensibili alla voce del Signore.
Questa voce si fa udire di notte, quando tutto tace, quando non ci sono rumori che la confondono o la rendono impercettibile.
Solo la solitudine e il silenzio permettono di rientrare in se stessi, di riflettere sui misteri di Dio e del creato, sul senso della vita. Dove regnano il frastuono e la confusione è impossibile udire e interiorizzare la parola del Signore.
Non è facile riconoscere la voce di Dio. Furono necessarie ben quattro chiamate prima che Samuele si rendesse conto che il Signore aveva un messaggio da comunicargli.
In mezzo a tante voci che risuonano, è difficile discernere quale di esse viene dall’alto. Dio non si scoraggia di fronte alla sordità dell’uomo, è paziente e insiste fino a quando ci si decide a prestare attenzione alla sua parola.
E chiama sempre per nome.
La vocazione, per i semiti, era contenuta nel nome, perché il nome definiva la persona e ne indicava la missione. A Giuseppe l’angelo disse: “Maria partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù (= Salvezza) perché egli salverà il suo popolo” (Mt 1,21).
Solo Dio conosce il vero nome di ognuno e chiama fin dal seno materno.
Il profeta che dichiarava: “Fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome” (Is 49,1) e Mosè che ricordava a Dio: “Tu hai detto: Ti ho conosciuto per nome” (Es 33,12) avevano capito che, se Dio chiama per nome, intende affidare un compito.
“Facciamoci un nome!” esclamarono tracotanti gli uomini di Babele (Gn 11,1). Rifiutavano il nome con cui li aveva chiamati il Signore e volevano costruirsene uno più adeguato ai loro progetti deliranti. Gesto emblematico il loro, immagine di chi rifiuta la vocazione di Dio e organizza la vita e pianifica il creato secondo criteri diversi da quelli del Signore. Una simile opera è destinata a crollare, come accade a tutte le torri costruite contro la volontà di Dio.
Ogni vocazione comincia dalla scoperta del proprio nome, quello autentico, conosciuto da Dio, non quello dettato dalle ambizioni, proclamato dagli adulatori, suggerito dalla vanità. Solo nel silenzio e nella preghiera è possibile sentirlo pronunciare dal Signore con tenerezza.
Samuele non giunge da solo a scoprire la voce di Dio, c’è un uomo, il sacerdote Eli, che lo aiuta. Ci sono persone più sensibili di altre alla parola di Dio, sono loro che possono aiutare a scoprire ciò che il Signore vuole che si faccia.
La lettura conclude dicendo che, dopo aver accolto il messaggio di Dio, “Samuele acquistò autorità perché il Signore era con lui” e ogni parola da lui pronunciata si compiva infallibilmente (v. 19).
Samuele rispose con fedeltà alla sua vocazione. Ebbe il coraggio di condannare la famiglia di Eli che si era allontanata dal Signore; seppe rinunciare alle proprie convinzioni politiche (2 Sam 8,6) e, adeguandosi alla volontà di Dio, consacrò re d’Israele prima Saul e poi Davide.
Seconda Lettura (1 Cor 6,13c-15a.17-20)
Fratelli, 13 il corpo non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. 14 Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza.
15 Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? 17 Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. 18 Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dá alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo.
19 O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? 20 Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!
“Tutto è permesso!”. “Perché astenersi da ciò che dà piacere?”. “Il bisogno sessuale, come quello del cibo, va soddisfatto, non importa come!”.
Abbiamo certamente udito frasi simili da chi cerca di giustificare, in qualche modo, comportamenti “disinvolti” in campo morale. Dai due versetti che precedono il nostro brano si desume che anche a Corinto circolavano simili opinioni: “Tutto mi è lecito! – sosteneva qualcuno – I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!” – ribadivano altri (vv. 12-13).
In tutto il bacino del Mediterraneo, Corinto era nota per la dissolutezza dei costumi. Città con due porti, offriva a turisti, commercianti e marinai ogni tipo di distrazione. La sua reputazione di città del peccato è legata all’affermazione dello storico Strabone il quale assicurava che, sull’acropoli, si trovavano più di mille ierodule, cioè prostitute sacre. Esagerava, certo, tuttavia le espressioni comportarsi alla maniera dei corinti per indicare una vita libertina e ragazza di Corinto quale sinonimo di meretrice derivavano da motivazioni concrete.
In questa metropoli, non era facile comportarsi in modo coerente con il vangelo e, difatti, alcuni membri della comunità cristiana cedevano alle lusinghe delle ierodule e si abbandonavano a comportamenti immorali.
Venuto a conoscenza di ciò che accadeva, Paolo decise di affrontare con chiarezza il tema degli abusi sessuali.
Le ragioni che adduce nella sua lettera non sono forse quelle che ci saremmo aspettati: nessuna minaccia di castighi divini, nessun accenno a conseguenze nefaste (pur reali e spesso drammatiche) per i singoli e per le loro famiglie. La condanna della fornicazione – intesa come esercizio della sessualità al di fuori del matrimonio – è dedotta da considerazioni teologiche e dalla tradizione biblica che considera l’atto sessuale come un coinvolgimento totale di due partners in una sola carne (Gn 2,24).
L’impudicizia – sostiene Paolo – è incompatibile con la vita del battezzato, anzitutto perché il corpo del cristiano appartiene al Signore, dunque può essere donato solo a chi egli ha deciso sia definitivamente offerto, cioè allo sposo e alla sposa, nell’istituzione coniugale. Un uso diverso del proprio corpo costituisce un’ingiustizia, un furto nei confronti di Dio (vv. 13-14).
È anche un sacrilegio, perché chi, attraverso il battesimo, è stato unito a Cristo, forma con lui un unico corpo e l’impudico prostituisce un membro di questo corpo sacro (v. 15-18).
È anche una profanazione. Il corpo del cristiano è sacro come un tempio perché in lui abita lo Spirito Santo (vv. 19-20). Abita, non in senso materiale, ma è presente con la sua forza, con la sua azione costante che anima la vita, suscita nuovi pensieri, guida i sentimenti e porta a gesti di amore.
Posti questi principi, si comprende come la sessualità non possa essere ridotta alla soddisfazione di un bisogno fisiologico. Non è fatta per soddisfare capricci egoistici, ma per manifestare amore e tradursi nel dono di sé. Solo questi sentimenti e queste azioni sono in armonia con la vita nuova del cristiano.
Vangelo (Gv 1,35-42)
35 Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36 e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. 37 E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
38 Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate?”. Gli risposero: “Rabbì (che significa maestro), dove abiti?”. 39 Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
40 Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41 Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: “Abbiamo trovato il messia (che significa il Cristo)” 42 e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)”.
La vocazione dei primi apostoli è narrata da Giovanni in modo diverso dai sinottici. Il quarto evangelista, infatti, non colloca la scena della chiamata presso il mare di Galilea, ma lungo le rive del fiume Giordano.
Un giorno il Battista, che si trovava là con due dei suoi discepoli, fissando lo sguardo su Gesù che passava, esclamò: “Ecco l’agnello di Dio!” (v. 36). Non era la prima volta che lo chiamava con questo nome, anche il giorno precedente lo aveva indicato allo stesso modo e aveva aggiunto una solenne testimonianza: “Io ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio” (Gv 1,29-34).
Il brano di oggi va letto prestando attenzione a ogni dettaglio e a ogni sfumatura linguistica, Giovanni, infatti, sceglie in modo accurato i termini e le immagini.
Un primo particolare va rilevato: il Battista stava ancora là (v. 35), nello stesso luogo dove si trovava il giorno prima, a Betània, al di là del Giordano (Gv 1,28). Gesù si era messo in movimento, aveva iniziato il suo cammino, passava. Giovanni invece si era fermato, aveva concluso la sua missione, quella di indicare il messia. Consegnava a Gesù i suoi discepoli e accettava di scomparire: “Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv 3,29-30).
Anche il verbo greco impiegato dall’evangelista per descrivere la percezione che il Battista ha avuto di Gesù è significativo, emblépein, che non significa solo fissare lo sguardo, ma guardare dentro, contemplare l’intimo di una persona.
Il Battista ha colto la vera identità di Gesù, leggendogli nel cuore, e l’ha espressa con un’immagine piuttosto strana, lo ha chiamato agnello di Dio. Aveva a disposizione altre immagini, quelle di pastore, re, giudice severo; quest’ultima – stando ai sinottici – l’ha anche impiegata: “Viene uno più forte di me… Ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio, ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile” (Lc 3,16-17). Nella sua mente però, nessuna riassumeva la sua scoperta dell’identità di Gesù meglio di quella dell’agnello di Dio.
Educato probabilmente fra i monaci esseni di Qumran, aveva assimilato la spiritualità del suo popolo, ne conosceva la storia e aveva dimestichezza con le Scritture. Pio israelita, sapeva che i suoi ascoltatori, sentendolo accennare all’agnello, avrebbero immediatamente intuito l’allusione all’agnello pasquale il cui sangue, posto sugli stipiti delle case, in Egitto aveva risparmiato i loro padri dall’eccidio dell’angelo sterminatore.
Il Battista ha intravisto il destino di Gesù: un giorno sarebbe stato immolato come agnello e il suo sangue avrebbe tolto alle forze del male la capacità di nuocere; il suo sacrificio avrebbe liberato l’uomo dal peccato e dalla morte. Notando che Gesù è stato condannato a mezzogiorno della vigilia di pasqua (Gv 19,14), l’evangelista Giovanni ha certamente voluto richiamare questo stesso simbolismo. Era infatti quella l’ora in cui, nel tempio, i sacerdoti cominciavano a immolare gli agnelli.
C’è una seconda allusione nell’immagine dell’agnello.
Chi ha presente le profezie contenute nel libro di Isaia – e ogni israelita le conosceva molto bene – non può non percepire il richiamo alla fine ignominiosa del Servo del Signore. Ecco come il profeta descrive il suo incamminarsi verso la morte: “Era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori… è stato annoverato fra gli empi, mentre invece portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,7.12).
In questo testo, l’immagine dell’agnello è collegata alla distruzione del peccato.
Gesù – intendeva dire il Battista – si farà carico di tutte le debolezze, di tutte le miserie, di tutte le iniquità degli uomini e, con la sua mitezza, con il dono della sua vita, le annienterà. Non eliminerà il male concedendo una specie di amnistia, una sanatoria; lo vincerà introducendo nel mondo un dinamismo nuovo, una forza irresistibile, il suo Spirito, che porterà gli uomini al bene e alla vita.
Il Battista ha in mente un terzo richiamo biblico: l’agnello associato al sacrificio di Abramo.
Mentre era in cammino verso il monte di Moria, Isacco chiese al padre: “Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”. Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l’agnello” (Gn 22,7-8).
“Eccolo l’agnello di Dio!” – attesta ora il Battista – è Gesù, donato da Dio al mondo perché sia sacrificato in sostituzione dell’uomo peccatore meritevole di castigo.
Anche i dettagli del racconto della Genesi (Gn 22,1-18) erano ben noti e il Battista intese applicarli a Gesù.
Come Isacco, egli è il figlio unico, il benamato, colui che porta la legna dirigendosi al luogo del sacrificio. A lui si adattano anche i particolari aggiunti dai rabbini. Isacco – dicevano questi – si era offerto spontaneamente; invece di fuggire, si era consegnato al padre per essere legato sull’altare. Anche Gesù ha donato liberamente la sua vita per amore.
A questo punto viene da chiedersi se davvero il Battista avesse presenti tutti questi richiami biblici quando, per due volte, rivolto a Gesù, ha dichiarato: “Ecco l’agnello di Dio” (Gv 1,29.36).
Lui forse no, ma certamente li aveva presenti l’evangelista Giovanni che intendeva offrire una catechesi ai cristiani delle sue comunità e a noi.
Oltre a quello di agnello, nel brano di oggi troviamo altri titoli significativi diretti a Gesù. I primi due discepoli lo chiamano prima rabbi, maestro (v. 38), un titolo non particolarmente significativo; ma, dopo aver passato un’intera giornata con lui, Andrea intuisce che egli non è solo un grande personaggio; a suo fratello Simone rivela: “Abbiamo trovato il messia!”.
In seguito Filippo parla di Gesù come di colui del quale hanno scritto Mosè e i profeti (Gv 1,45) e per Natanaele sarà addirittura il figlio di Dio, il re d’Israele (Gv 1,49).
Non basta un incontro furtivo con Gesù per scoprire la sua identità; è necessario rimanere con lui, passare l’intera giornata, cioè ogni istante della vita, nella sua casa.
Le parole che egli rivolge ai due che lo seguono: “Che cercate?” (v. 38) sono le prime che pronuncia nel vangelo di Giovanni. Sono dirette a ogni discepolo che inizia il suo cammino spirituale, dopo che qualcuno gli ha indicato Gesù come maestro. Deve chiedersi cosa si attende da Cristo, perché potrebbe inseguire illusioni e alimentare vane speranze.
Nella seconda parte del brano (vv. 40-42) il gruppo dei discepoli comincia ad ampliarsi. I due che sono andati da Gesù, che hanno visto e sono rimasti con lui e sono giunti a una comprensione più profonda della sua identità, ora non possono più tenere per sé la scoperta che hanno fatto, sentono il bisogno impellente di comunicarla ad altri.
Andrea, il primo che, nel vangelo di Giovanni, riconosce Gesù come messia, ne parla al fratello Simone e lo conduce dal Maestro che, fissando lo sguardo su di lui, esclama: “Tu sei Simone, ti chiamerai Cefa, che vuol dire Pietro” (v. 42).
Qui viene ripreso, per la seconda volta, emblépein. Sono le uniche due volte che, nel vangelo di Giovanni, ricorre questo verbo. Prima il Battista ha guardato dentro Gesù, ora è Gesù che, con lo sguardo di Dio, penetra nel cuore di Pietro, ne coglie l’identità e gli dà il nome che definisce la sua missione. Per i pescatori del lago, Simone era il figlio di Giovanni, per Gesù e per Dio, egli si chiama Pietro, perché la sua vocazione è essere pietra viva che mantiene salda la chiesa nell’unità della fede.