I primi dati dei questionari arrivati in Vaticano da tutto il mondo, in vista dell’Assemblea dei vescovi dell’autunno 2018, prospettano un ritratto variegato dei giovani credenti.
Esprimono, inoltre, la percezione che nella Chiesa ci sia chiusura alla differenza, per questo alcuni non si avvicinano neanche. Un’istituzione che impone divieti non interessa i giovani; essi rivendicano un maggior protagonismo e chiedono di essere più responsabilizzati.
Alcuni giovani francesi, ad esempio, reclamano dalle parrocchie maggior apertura nei loro confronti, più spazi per le loro organizzazioni e un adeguato progetto intergenerazionale.
I giovani italiani, secondo il teologo A. Matteo, vivono «in un senso di notte e in una notte di senso» (cf. La prima generazione incredula, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2017), anche perché la generazione degli adulti, maschi e femmine dai 40 ai 55 anni, mostra che si può fare a meno della preghiera, del Vangelo e della vita sacramentale.
È diffusa, infatti, in tutti, una visione dell’esistenza nella quale la relazione con il trascendente è una scelta privata che non coinvolge la questione del senso e non si armonizza con l’identità dell’uomo post-moderno.
Inoltre – diversamente da ciò che normalmente si pensa – i giovani non si sentono il futuro della Chiesa e della società ma, chiedono alla Chiesa e alla società di essere considerati, invece, un presente che sia aperto al futuro.
In che modo la Chiesa può annunciare l’evangelo a questi giovani oggi? È sufficiente una pastorale giovanile che – nonostante il considerevole impegno che produce, rimanga legata a pochi – bravissimi giovani, senza dubbio – disposti a dare una mano in oratorio o nell’animazione dei gruppi? Non è forse necessario andare anche oltre, uscire per collocarsi dentro la loro quotidianità, esserci come comunità cristiana negli ambienti nei quali essi passano la maggior parte del loro tempo?
Com’è possibile, in una parola, rischiarare quel senso di notte e quella notte di senso che la ricerca denuncia e diminuire, almeno un po’, la distanza fra loro e l’istituzione ecclesiale che essi reputano piuttosto insignificante?
La grande sfida-opportunità della Chiesa oggi, sta proprio nel cercare di superare la difficoltà che hanno tutte le grandi istituzioni religiose a sintonizzarsi con il mondo giovanile.
Percorrere altre strade
Accogliere tale sfida comporta darsi strumenti attraverso i quali, tutte le componenti della comunità attivino processi d’incontro, globali, inclusivi soprattutto con e per i giovani che fanno più fatica. Si dice che “fa più rumore un albero che cade, di un’intera foresta che cresce”. Intanto, però, giovani alberi continuano a cadere, spesso nel disinteresse.
Come attrezzarsi per fare in modo che i giovani alberi, soprattutto i più fragili, possano essere curati e crescere? Qualcuno afferma che basta rimboccarsi le maniche; meno parole e più fatti. Si tratta, dunque, di fare di più, sempre di più. Avviene spesso che la quantità delle cose non ne favorisca la qualità.
Penso proprio che non si possa dire che nelle parrocchie, ad esempio, non ci sono attività con e per i giovani spesso portate avanti con generosità e sacrificio. Rimane nei giovani il ricordo e la stima per donne e uomini di Chiesa che li hanno ascoltati e di cui hanno ammirato la testimonianza di vita.
Oggi non basta più. Occorre aprire altre strade che abbiano come comun denominatore il ritorno all’inizio e cioè alla relazione vicendevole di amore di comunione fra Dio e le sue creature che faccia maturare atteggiamenti di servizio, radicati nel profondo del cuore.
Il che significa promuovere l’ascolto, soprattutto, delle fragilità nella normalità dell’esistenza di ognuno. Far crescere la consapevolezza del senso della vita, il coraggio e la forza di viverla, ma anche riscoprire ogni giorno la sacralità dell’incontro con l’altro.
Martin Buber, filosofo, teologo e pedagogista austriaco, naturalizzato israeliano, così scriveva: «Se guardo ad un essere umano come al mio “tu”, se lo introduco nella relazione fondamentale “io-tu”, egli cesserà di essere una cosa fra le cose», nella normalità della vita e nelle vie delle nostre città. Quando questo non accade, scoppiano gli individualismi, gli egoismi; prevalgono le parzialità, le contrapposizioni; si cerca di fare proseliti più che stabilire legami (con Dio e tra le persone) veri e duraturi.
Penso dunque, una pastorale giovanile che, nel segno dell’incarnazione, favorisca la realizzazione di un’accogliente umanità, permetta di costruire una comunità più coesa, di allargare gli orizzonti, di aprire i confini, di guardare in maniera nuova la realtà, che incoraggi l’incontro fra giovane, parrocchia e Chiesa, impastati insiemi nel pane eucaristico di ogni domenica.
Se non diamo ai giovani l’opportunità del coinvolgimento nella vita della comunità, se non diamo loro responsabilità, essi cercheranno il coinvolgimento altrove. Non servono relazioni esclusive – giocate solo fra giovani, con il piccolo gruppo di appartenenza ecclesiale o d’interesse ecc. – ma relazioni aperte, inclusive, cioè che aprano i giovani a tutti gli uomini, a Dio e al creato.
Occorrono progetti pastorali intergenerazionali (cioè relazionali), che operino sulla pastorale d’ambiente e sulla spiritualità, che conducano i giovani a sperimentare la relazione con tutti dentro alla vitalità trinitaria misteriosa, ma all’opera anche oggi; in tutti, nessuno escluso.
Una Chiesa più bella che brava
Pavel Florenskij, teologo e filosofo russo, sosteneva che la vita è un tessuto relazionale, che scorre attraverso le relazioni e che, nella vita relazionale, l’uomo rivela il suo contenuto. L’individuo rivela se stesso ma, come sappiamo teologicamente, rivela l’Altro.
La storia è il luogo della conoscenza delle persone e dell’incontro; è mistero delle relazioni; e tutto ciò vale per Dio e per l’uomo. Dio lo conosciamo nella relazione dentro la storia; così l’uomo. Da questa prospettiva dichiaratamente religiosa (non confessionale) credo sia oggi necessario ripartire per cercare di individuare le cause profonde di fragilità e di caduta, non solo dei giovani alberi.
Non è sufficiente moltiplicare le opportunità di aggregazione. Non bastano né la legge né la morale fatta di divieti, di prescrizioni e di regole. Non serve neppure una religione intesa come sforzo umano per accreditarsi presso Dio e ricevere il premio delle buone opere. Non servono al bisogno il web, i social, i sistemi di comunicazione relazionale che portano con sé un numero crescente di insidie da cui guardarsi e che rappresentano una modalità di comunicazione ad alto rischio, per i navigatori poco consapevoli e non ben attrezzati. Non servono, perché sono opportunità illusorie di relazione.
Occorre fare esperienza di relazioni intergenerazionale, favorirle costantemente sia nella Chiesa sia nella società. Ai giovani si chiede la volontà di concedere un po’ di fiducia al mondo adulto. Al mondo adulto – complesso e non senza fragilità, specialmente per quanto riguarda le famiglie – la capacità di ricomporre i frammenti e di trasformarli in un disegno inclusivo che permetta di camminare insieme, che sia sempre rispettoso dei giovani, della loro libertà e identità e li stimoli al protagonismo.
Credo che, pur qualche volta sbagliando, una Chiesa che si presenti come brava in tutto, abbia meno seguaci di una che si offre come bella, capace di cogliere le differenze, di accoglierle senza giudicarle; una casa umana ma non solo, in cui tutti si sentano capiti e aiutati a scoprire la propria strada.
Sono rimasto sorpreso felicemente dalla Carta del Coraggio di Agesci, 2014: non la conoscevo, nonostante l’attenzione ai documenti e ai fatti che costellano il percorso della Chiesa; certamente si coglie la distanza fra i giovani e l’impostazione magisteriale; ci sono sicuramente ingenuità, affermazioni che richiedono ulteriore approfondimento, aperture al sociale acritiche, ma la Carta ha tanti aspetti propositivi e una garbata richiesta di rivedere da parte del clero i modo di porsi nei confronti dei giovani. Ho accennato solo ad alcuni elementi per chiedere, se a me non è sfuggito, perché non può essere pubblicata nella rivista il Regno, e così essere maggiormente letta. E’ inutile chiedere ai giovani di parlare se poi non li si ascolta. E’ molto facile, in chi ha avuto una certa formazione, dire che cosa di deve fare perché i giovani possano crescere umanamente e spiritualmente; è meno facile capire perché queste cose non entrano nella loro vita.