Il teologo Sesboüé: Non abbiate paura! 20 anni dopo

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Negli anni ’80, due erano – secondo l’opinione del grande Yves Congar – i teologi di cui aveva una grande stima e che teneva in forte considerazione: il domenicano Hervé Legrand e il gesuita Bernard Sesboüé. Autore di una quarantina di libri, che spaziano dalla patristica alla dogmatica, dall’ecumenismo all’attualità, quest’ultimo è stato membro della Commissione teologica internazionale, uno dei teologi più attenti alle questioni riguardanti i ministeri nella Chiesa. Ha giusto vent’anni il famoso libro N’ayez pas peur!, da cui partiamo per una conversazione amichevole all’indomani della Pasqua.

Padre Bernard, lei terminava il suo libro scrivendo che si era prefisso lo scopo di contribuire con un’analisi teologica rigorosa e chiarificatrice a maturare una nuova figura della Chiesa e dei suoi ministeri. Pare, però, che la strada sia ancora lunga.

Dopo la pubblicazione di questo libro, certamente sono avvenute cose assai positive nella vita della Chiesa. La partecipazione dei laici al ministero pastorale ha continuato a prendere corpo. Che sia divenuta un fatto di Chiesa è incontestabile. Ma la questione propriamente detta dei ministeri ha continuato a subire un grave ritardo.

Marko Rupnik, Betania

Marko Rupnik, Betania. Mosaico nella cappella della Casa incontri cristiani, Capiago (CO)

Occorre riconoscere che la Chiesa e la sua gerarchia vi si sono impegnate come a ritroso. Il mio libro ha provocato reazioni, non tanto per il suo contenuto, ma per i rimproveri che ad esso sono stati rivolti: il fatto di parlare pubblicamente del problema contribuiva a svuotare i seminari… Si aveva paura allora delle numerose iniziative dei laici che rischiavano di andare oltre la Chiesa. In Francia un documento dell’Ufficio di studi dottrinali dell’episcopato – I ministri ordinati in una Chiesa di comunione (1993) – si presentava come una risposta al mio articolo su Etudes del settembre 1992: “Gli animatori pastorali laici. Una prospettiva teologica”. Dal canto suo, Roma dava un segnale negativo nella famosa Istruzione su alcune questioni riguardanti la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei preti, sottoscritta il 15 agosto 1997 dai prefetti di sette dicasteri della curia romana, nel momento in cui papa Giovanni Paolo II faceva il suo viaggio in Francia.

Questo testo, d’una severità eccezionale, riconosciuta come tale anche a Roma, si poneva totalmente all’opposto dell’articolo del 1992 e del mio libro N’ayez pas peur!, apparso l’anno prima. Le sue «disposizioni pratiche» erano molto restrittive.

Il documento era dominato dall’ossessione di una confusione tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale. Rifiutava i nomi generalmente dati ai titolari di una missione propriamente pastorale e si asteneva persino dal proporre di dare un nome: si parlava di “supplenza eccezionale”. Le ADAP (celebrazioni domenicali in assenza del presbitero), considerate con sospetto, non permettevano di soddisfare l’obbligo domenicale. Il documento non vedeva altra soluzione al problema che nella «necessità di una pastorale delle vocazioni piena di zelo», come se i vescovi fossero negligenti al riguardo. Una tale Istruzione era veramente scoraggiante per i laici impegnati su questa strada.

Da parte mia, ho reagito all’Istruzione dei sette dicasteri con un piccolo libro dal titolo Roma e i laici. Un nuovo contributo al dibattito: l’Istruzione romana del 15 agosto 1997, completata dalla risposta a sette domande postemi dalla rivista Il Regno (5 gennaio 1998). Dopo avere riportato l’Istruzione, proponevo un «libero commento», molto incisivo – lo riconoscevo – sulla scia dell’emozione creata negli ambienti del laicato impegnati nei ministeri al servizio della Chiesa. Sottolineavo il tono di severità molto sconfortante, volto a scoraggiare la loro generosità, che cercava sinceramente di rendere un servizio alla Chiesa, e l’illusione di un documento che domandava di agire come se la partecipazione dei laici al ministero ordinato fosse una parentesi che bisognava chiudere il più presto possibile.

Nel nuovo libro, molto più recente – Alcuni aspetti della Chiesa, Pagani e Giudei – Scrittura – Autorità – Struttura ministeriale (2011) –, riprendevo la mia analisi dell’insegnamento del Vaticano II sui ministeri: «Le vicissitudini di una ricezione: lo spostamento delle categorie del ministero a partire dal Vaticano II e la messa in atto fino al 2010». Vi mostravo che il passaggio operato dal Vaticano II della categoria-madre di sacerdozio a quella dell’invio in missione dei discepoli da parte di Cristo, era sempre più dimenticata, persino nei testi ufficiali, a tutto vantaggio della concezione medievale del sacerdozio.

Il vocabolario scelto per celebrare “l’anno sacerdotale”, trattandosi di un anno consacrato al ministero dei preti, ne era un simbolo vistoso.

Ho riletto N’ayez pas peur! Regards sur l’Eglise et les ministères aujourd’hui e mi trovo completamente d’accordo oggi con quello che scrivevo vent’anni fa. Ciò che è cambiato è che la situazione della Chiesa è ora sensibilmente più degradata di allora. Non avevamo ancora raggiunto il fondo dell’onda discendente e non siamo sicuri di esserci arrivati oggi.

Da allora, si sono visti anche i seminari regionali, cioè quelli di diverse diocesi insieme, obbligati a chiudere per mancanza di seminaristi, come Bayonne e Caen. Vent’anni fa i vescovi potevano ancora contare su un gran numero di preti anziani, che si prestavano a diversi servizi. Oggi in maggioranza sono scomparsi. Questa scarsità di preti nella Chiesa è drammatica e non permette più ai vescovi di assicurare un minimum di pastorale se non ricorrendo a formule accattivanti e generose. Persino le grandi città vedono il loro numero di parrocchie diminuire o raggrupparsi per mancanza di persone.

Riguardo alla partecipazione dei laici al ministero pastorale, constato una certa usura dovuta al tempo e al fatto che le generazioni attuali sono globalmente meno generose in rapporto alla generazione contemporanea o immediatamente posteriore al concilio.

Che ne è dell’ordinazione di uomini sposati? Vent’anni fa lei si poneva la questione in riferimento soprattutto all’eucaristia da assicurare ai fedeli.

Non è avvenuto niente di niente. Siamo andati a cozzare contro il disastro di una mancanza di decisione in un senso come nell’altro. La Chiesa non ha per niente dichiarato che rifiutava espressamente ogni iniziativa in materia in nome del rispetto della legge del celibato imposto in Occidente ai preti. Ha rifiutato di prendere la decisione, anche discreta e parziale nell’altro senso. Ora è mia convinzione che, per favorire questo cambiamento di disciplina e per mantenere l’esistenza di un corpo presbiterale sempre celibatario, bisognava aprire con prudenza, in alcune parti favorevoli e con una certa lentezza e non in una maniera universale e astratta. Bisognava verificare che le relazioni tra preti celibi e preti sposati potessero instaurarsi in maniera favorevole. Intravedevo una prima tappa di transizione. Era possibile vent’anni fa, lo diventa sempre meno oggi. Eppure la necessità è la stessa.

Per essere positivo, occorre lodare l’atteggiamento della Chiesa riguardo a certi pastori luterani e, più recentemente, ai pastori anglicani, che hanno manifestato il desiderio di continuare il loro ministero in seno alla Chiesa cattolica. Sono stati ordinati o riordinati, ma, essendo sposati, la Chiesa permette loro di continuare la loro vita coniugale. Vi sono anche alcuni casi di preti sposati provenienti dalle Chiese orientali unite a Roma, che esercitano il loro ministero in Occidente in una comunità della loro cultura. Nel tempo che resta loro, niente impedisce che possano prendere servizio in parrocchie occidentali. Disponiamo quindi di basi di partenza che possono facilitare esperienze nuove.

La questione è stata oggetto di molte riflessioni, non solamente in Francia, ma anche in Africa, dove si pone in un contesto differente. Ho conosciuto un prete tedesco fidei donum nel Sudafrica, che è diventato vescovo in quel paese. Si è posto la questione nei termini analoghi ai nostri: bisognerà uscirne fuori un giorno, ma la situazione culturale chiede di procedere per piccoli gruppi e non per individui, per evitare difficoltà nella vita sociale.

La Francia lo interessava particolarmente perché, data la sua origine, conosceva soprattutto una situazione o un concordato in funzione. Ho tentato, senza successo, di farlo incontrare con alcuni vescovi francesi. È chiaro che incontri internazionali al riguardo sarebbero estremamente utili. Questo vescovo, senza dubbio oggi in pensione, ha pubblicato un libro su come affrontare la questione delle comunità in mancanza di preti.

Come vede oggi la situazione dei laici nella pastorale?

Semplicemente l’abbozzo. Giunto alla mia età, sono molto meno in contatto con le situazioni concrete. Parlo quindi con riserva. Questa situazione esiste sempre, malgrado l’usura già segnalata. È entrata nella vita della Chiesa, ma non riceve nessun segno di incoraggiamento. Si è rimpiazzata l’espressione «laici inviati in compiti pastorali» con «laici inviati in compiti ecclesiali», in un senso restrittivo. Constato che se ne parla molto meno. So che le ADAP (celebrazioni domenicali in assenza del presbitero) non sono più incoraggiate; ad esse si rimprovera di imitare troppo da vicino la celebrazione eucaristica con il rischio di una grave confusione e stanno diminuendo. Temo che le reticenze e le esitazioni del passato abbiano lasciato passare un tempo favorevole – il kairòs evangelico –, che non si ritroverà più.

Tuttavia, il volto nuovo della Chiesa continua ad evolversi dietro la spinta degli eventi e in ragione della rarefazione drammatica dei pastori. Dubito che gli aspetti negativi di questa evoluzione s’impongano più delle positività, senza dubbio fragili, che si abbozzavano. Come rendere oggi la Chiesa visibile, reale e accogliente? Quale volto dare alle comunità cristiane? Come annunciare il Vangelo? Il compito è sempre questo. Difficile, ma anche esaltante.

Lei concludeva il suo libro accennando al dilemma della pazienza e dell’urgenza. Troppa prudenza rischia di essere la peggiore delle imprudenze. Un’assenza prolungata di decisioni rischia di essere la peggiore delle decisioni. Come la pensa adesso?

Questi vent’anni sono stati – troppo spesso per questioni come queste – vent’anni di non decisione. Non sono il solo a pensarlo e a dirlo. Parecchi vescovi francesi, tedeschi e italiani hanno preso posizione in questi anni. Penso, in particolare agli interventi del card. Martini, oggi scomparso, che non ha esitato a parlare di «duecento anni di ritardo» della Chiesa cattolica. In occasione del sinodo dei vescovi europei aveva tracciato una serie di problemi da trattare con urgenza e di decisioni coraggiose da prendere, al di là del rinvio continuo che si produceva di sinodo in sinodo. Aveva persino auspicato che, nei primi anni del 21° secolo, un’assemblea importante di vescovi potesse riunirsi per prendere decisioni.

I due ultimi sinodi sulla famiglia, voluti e convocati da papa Francesco, hanno affrontato con coraggio, in un dibattito reale, i gravi problemi riguardanti la famiglia. Non avremmo forse bisogno oggi di un lavoro collegiale sulla questione dei ministeri e sul posto che spetta ai laici nella Chiesa di domani? I dossier preparatori sono già in fase molto avanzata. La pazienza è sempre necessaria e l’improvvisazione non porta a niente. Ma riconosciamo che l’urgenza non è mai stata così grande e inquietante come ora.

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2 Commenti

  1. carmen hernandez 25 maggio 2017
  2. Luciano Bordignon 1 aprile 2016

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