È un gravissimo errore dare corda alla sfiducia nell’Europa e ripristinare i confini statali. Ed è un errore non meno grave dare corda a quei governi dell’Est Europa che proclamano apertamente ideologie xenofobe e razziste. L’Austria, socialdemocratica e cristiano-popolare, con la decisione di chiudere i propri confini e con la scelta di concordare con Ungheria, Polonia e altri paesi dell’Est Europa una politica di chiusura verso i profughi ha commesso due gravissimi errori. Errori che, fra l’altro, non risolleveranno le sorti dei due partiti di governo (socialdemocratici e cristiano popolari) che si apprestano ad affrontare in condizioni di grande debolezza le elezioni presidenziali del 24 aprile prossimo. Una debolezza che non è originata solo dalla politica di accoglienza, che scatena le reazioni della destra, ma dalla stanchezza verso i due partiti maggiori che, divisi o insieme, guidano dal dopoguerra il sistema politico austriaco; stanchezza che sta premiando – almeno nei sondaggi – il candidato dei Verdi.
Due gravissimi errori: questo mi viene da dire, reagendo alla densa e anche appassionata intervista che il prof. Kurt Appel, ordinario di teologia fondamentale alla facoltà cattolica dell’Università di Vienna, ha rilasciato a Lorenzo Prezzi e Marcello Matté per SerttimanaNews del 23 marzo e nella quale ha difeso le decisioni del governo austriaco. E l’ha fatto con una motivazione fondamentale: bisogna ripristinare la sovranità statale sui propri confini se si vogliono evitare i rischi di una guerra civile e il trionfo delle destre.
Il cuore della questione è proprio questo: è con più confini statali o con una Europa più forte e coesa che si può affrontare un dramma così imponente, complesso e drammatico come quello dei profughi? Ci si può illudere che ogni paese si chiuda nella presunta sicurezza dei propri confini per “salvarsi”? Può la piccola Austria pensare di “salvarsi” da sola? E quando dico “salvarsi” intendo salvare le ragioni cristiane, morali, civili dell’accoglienza, sulle quali pure insiste il prof. Appel nella sua intervista, insieme alle ragioni della sicurezza, della sopportabilità sociale, economica e culturale dell’afflusso di tanti profughi, spesso di religione musulmana.
Il Rapporto 2015 dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr Global Trendes. Forced Displacement in 2014) ci ricorda che nel 2014 le persone costrette ad abbandonare la propria casa e la propria regione per sfuggire alle guerre, alle persecuzioni politiche, etniche e religiose erano 59,5 milioni, di cui 21.300.000 profughi (usciti dai propri confini statali) e 38.200.000 sfollati interni. Un oceano di sofferenza. Stiamo attendendo il nuovo rapporto con i dati dello scorso anno, ma già si preannuncia un aumento di queste gigantesche ondate di persone in fuga. Il Rapporto Unhcr ci ricorda un’altra verità: l’86% dei profughi è accolto nei paesi più poveri, non nei paesi ricchi. Il 42% è accolto in paesi dove il reddito pro capite è inferiore ai 5 dollari al giorno. Noi abbiamo invece la percezione di essere come Europa la meta principale dei profughi in fuga dal Vicino Oriente e dall’Africa, ma i primi dieci paesi che accolgono i profughi sono: Turchia, Pakistan, Libano, Iran, Etiopia, Giordania, Kenya, Ciad, Uganda e infine Cina. L’intera Europa ha accolto lo scorso anno tanti profughi quanti da solo ne sta accogliendo il Libano (1,3 milioni) che è un paesino di 4,5 milioni di abitanti (non un continente di 550 milioni come l’Europa), che ha visto salire la sua popolazione a quasi 6 milioni di abitanti, che avrebbe bisogno di 4 miliardi di dollari per affrontare l’emergenza ma ne ha ricevuto solo 75 milioni, un piccolo paese che si regge su un delicatissimo equilibrio istituzionale tra sunniti, sciiti e cristiani; che non fa un censimento etnico dagli anni ’30 per evitare tensioni (Giordano Stabile, «Profughi ovunque e campi illegali. Il Libano sull’orlo del collasso», La Stampa 21 marzo 2016).
Vogliamo, come classe dirigente politica, culturale, religiosa aiutare le nostre comunità nazionali europee a capire le dimensioni reali del dramma che stiamo vivendo? A capire il peso reale dell’accoglienza che stiamo sopportando in rapporto a quello che altre società ben più povere stanno sopportando? I poveri sono sulle spalle dei più poveri, questa è la verità. E dobbiamo gridarla ogni giorno dalle nostre cattedre e dai nostri pulpiti.
Il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella è stato recentemente in Africa e ha visitato anche il campo profughi di Teirkidi-Kule in Etiopia che sta accogliendo 55 mila persone, per lo più donne e bambini, fuggite dal Sud Sudan. Le organizzazioni umanitarie e le Nazioni Unite fanno il possibile per garantire la sopravvivenza qui e negli altri immensi campi profughi limitrofi, perché l’Etiopia sta accogliendo tra i 700 e gli 800 mila profughi. Ma si continua a morire di denutrizione, dissenteria, malaria, e per questa marea di infelici ci sono nel campo visitato da Mattarella solo quattro medici. E intanto l’Etiopia sta affrontando una spaventosa siccità.
Sono decine e decine questi campi profughi in Africa e nel Vicino Oriente (ma anche in Asia). Innumerevoli città di tende, di lamiera ondulata, di teloni di plastica abitate ciascuna da tanti profughi quanti ne accoglie una intera nazione europea. Vogliamo o no raccontare la verità alle nostre opinioni pubbliche che credono di doversi far carico di tutti i problemi del mondo?
La Turchia al 22 dicembre 2015 accoglieva 2.415.494 profughi in 25 campi statali e in tanti altri regionali. Il caso più emblematico è la città di Kilis che con 118 mila abitanti accoglie 128 mila profughi siriani. Sappiamo tutti i problemi che la Turchia sta vivendo, e sappiamo anche del vergognoso accordo per lo scambio con l’Europa di profughi clandestini con profughi autorizzati; un accordo che non risolverà nulla, ma testimonia solo della pochezza politica e morale di chi l’ha voluto e accettato. Tuttavia, come scrive Fabio Salomoni, che vive e insegna a Istanbul, nel suo illuminante saggio «Turchia, migrazioni e crisi siriana» (Il Mulino 1, 2016), «per quanto riguarda le reazioni della società, osservando l’isteria diffusasi nei paesi europei, è impossibile non rimarcare come la società turca nel suo complesso abbia assorbito in modo quasi indolore questi nuovi arrivi» e che malgrado non manchino fenomeni di discriminazione «la maggioranza della popolazione concordi sulla necessità di ospitare i rifugiati finché perdura lo stato di guerra» (per un ampio sguardo sull’accoglienza dei profughi anche negli altri paesi del Vicino Oriente si veda il bel reportage di Hana Jaber «Chi accoglie davvero i rifugiati?» in Le Monde diplomatique, ottobre 2015). Visto come guardiamo spesso ai turchi, vogliamo far vedere alle nostre opinioni pubbliche anche questo lato della medaglia? Vogliamo metterci a confronto con loro anche su questo?
Non è vero poi che l’Europa è costretta a prendere tutti quelli che arrivano e a non respingere nessuno. Le domande dei profughi per ottenere asilo politico, e quindi lo status di rifugiato, secondo il diritto internazionale (che i singoli Stati non possono snobbare a piacimento, come intende fare anche l’Austria), possono essere accolte o no, e migliaia di profughi vedono respinta la loro richiesta di asilo e sono rimandati indietro a migliaia, da ogni paese europeo. Dall’ottobre 2014 all’ottobre 2015, come ci ricorda un dossier dell’Economist («How to manage the migrant crisis», 6 febbraio 2016) sono state presentate 922.055 domande di asilo politico in Europa, e sulle 200 mila circa finora esaminate ne sono state accettate 137.785 e respinte ben 96.475. Vengono accettate quasi tutte quelle dei siriani (il 95,7%), gran parte di quelle degli iracheni (89,3%) e degli eritrei (86,3%), buona parte di quelle degli afghani (72,2%) e invece quasi nessuna degli albanesi (accettate solo il 3,7%), dei kosovari (il 3%), dei serbi (1,2%) che arrivano a migliaia, e a migliaia vengono rimandati indietro, così come tanti di altre nazionalità.
Infine, pongo questa domanda. Potrebbe l’Italia chiudere i propri confini come fa l’Austria? No, perché vorrebbe dire lasciar morire in mare, e assistere impavidi alla loro morte, migliaia di persone. Ne sono morte nel Mediterraneo 30.000 dal 2000 ad oggi, secondo l’International Organization for Migration. Ma decine, centinaia di migliaia sono state salvate. Chi vive sul Mediterraneo non può alzare barriere e dire: questa è casa mia. Ma se non lo può chi vive sul Mediterraneo, non lo può e non lo deve nemmeno chi non vive sul Mediterraneo, perché quel dramma, quell’appello disperato alla vita riguarda tutti, tutti gli europei, non solo, tutti gli uomini e le donne. Ecco perché nessuno può affrontare questo dramma da solo. Nessun Stato, nessuna società. Solo l’Europa, insieme, può farlo, ritrovando lo spirito di collaborazione perduto, cercando soluzioni nel segno della solidarietà e della compartecipazione, della corresponsabilità, con quella dignità e umanità che le dimensioni del dramma richiedono.