I diritti umani sono prioritari

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«Il fatto non costituisce reato», poiché la situazione di emergenza sociale e abitativa «ha giustificato la compromissione del diritto pubblico su un’area che, di fatto, era da molti anni abbandonata. La valutazione comparativa tra il diritto del Comune a utilizzare l’area di interesse pubblico e i diritti primari degli imputati è certamente a favore di questi ultimi». Lo dice il Tribunale di Milano (Sezione 4ª penale, giudice dott.ssa M.T. Guadagnino – n. 2518/2017. RG Trib), assolvendo sette rom romeni per l’occupazione della piccola baraccopoli di via Cima a Milano, seguita dalla Comunità di Sant’Egidio. La sentenza è del 5 dicembre scorso, ma le motivazioni sono state diffuse nei giorni scorsi.

In occasione dello sgombero del 15 marzo 2015, agli occupanti era stato contestato il reato di «invasione di terreni ed edifici» (art. 633 cod. penale), compiuto «insediandosi all’interno di baracche fatiscenti utilizzate come dimora abituale».

Il Tribunale di Milano ha invece così motivato il riconoscimento dello «stato di necessità»: «Rientrano a pieno titolo nel concetto di “danno grave alla persona” anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona secondo la previsione contenuta nell’art. 2 Cost. Tale previsione richiama quelle situazioni che minacciano solo indirettamente l’integrità fisica del soggetto in quanto si riferiscono alla sfera dei beni primari collegati alla personalità, fra i quali deve essere ricompreso il diritto all’abitazione in quanto l’esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni primari di una persona».

Maura Sianesi, l’avvocato della Comunità di Sant’Egidio che ha difeso i sette rom durante il processo, ha ricordato come le baracche, costruite su un terreno inutilizzato (anche attualmente), fossero state costruite dagli imputati per riparare le famiglie con bambini, in assenza di effettive alternative possibili e senza causare danni a nessuno. Tra gli imputati, un disabile certificato con invalidità al 100%.

 La baraccopoli di via Cima, seguita dai volontari della Comunità di Sant’Egidio a titolo gratuito dal 2011 al 2015, era abitata da otto famiglie e, nonostante le difficili condizioni di vita, tutti i minori presenti erano iscritti regolarmente dall’asilo nido alle superiori e il loro percorso era accompagnato da Sant’Egidio con un doposcuola presso la Biblioteca di zona e le docce presso la vicina parrocchia. Inoltre, erano stati avviati dei percorsi di inserimento lavorativo per gli adulti.

«Queste famiglie – dichiara Sant’Egidio – vivevano nelle baracche non per scelta, ma per la povertà e l’assenza di alternative. La povertà non si sconfigge con le ruspe o denunce che intasano i tribunali e sprecano soldi pubblici, ma con seri progetti di accompagnamento sociale».

Oggi, grazie al sostegno di Sant’Egidio, tutte le otto famiglie vivono in casa, continuano la scolarizzazione dei figli e in ciascuna almeno un componente lavora: «La sentenza è l’occasione per ribadire due urgenze: attuare la Strategia nazionale di inclusione per rom, sinti e caminanti, approvata nel 2012 e di fatto sostanzialmente inapplicata, e garantire i diritti dei baraccati e dei poveri, con particolare attenzione a quelli dei minori».

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