Quadro di sfondo, ipotesi e domande
per una ricerca sul Giubileo della misericordia
Il testo nasce all’interno di una riflessione avviata dall’Osservatorio socio-religioso Triveneto alla quale hanno preso parte Monica Chilese, Giovanni Dal Piaz, Italo De Sandre ed Enzo Pace, oltre all’autore. Quest’ultimo, naturalmente, è l’unico responsabile di quanto scritto.
Prologo del giubileo
La decisione, maturata in modo inaspettato in papa Francesco, di indire un giubileo straordinario sembra essere il derivato di una convinzione e di una preoccupazione ben radicate. Il papa avverte il bisogno di un profondo rinnovamento della Chiesa (di una vera e propria riforma), in grado di modificarne il volto e i modi di operare (lo stile pastorale), non la dottrina.
La parola “misericordia” indica il “centro” cui orientare il rinnovamento auspicato e avvertito come necessario.
Siamo ben lontani da una semplice operazione di facciata, cosa per la quale il papa attuale non dimostra alcun interesse: la misericordia non interviene solo ad aggiornare l’immagine, ma deve diventare «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa» (bolla Misericordiæ vultus [MV] 10); né si tratta semplicemente di un atteggiamento e di un “sentimento”, ma di un criterio di relazione che dovrà operare a tutti i livelli, nelle relazioni interne, come nelle relazioni Chiesa-mondo. «La misericordia infatti non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i veri figli» (MV 9).
Il papa sente questa esigenza non solo con intensità, ma anche con urgenza. Non c’è davanti molto tempo, per tante ragioni, contingenti e no. Vi è uno scarto doloroso tra la Chiesa che papa Bergoglio ha in mente e quella reale; vi è una perdita di credibilità dell’istituzione ecclesiastica in quanto tale; il papa pensa probabilmente di non avere molto tempo davanti a sé; c’è un Sinodo in corso che, al di là di quanto diranno le proposizioni finali poi formulate, è opportuno orientare in una certa direzione (di nuovo la misericordia) ecc.
Per attuare il rinnovamento c’è bisogno di procedere con celerità – subito – a risvegliare le coscienze e ad attivare nuove energie. Solo così sarà possibile scuotere il vecchio modus operandi.
Un giubileo sembra essere una proposta efficace in questo senso, anche se esso – oggetto di ben note polemiche storiche non certo sopite[1] – può sembrare una struttura piuttosto invecchiata. Forse non ve ne erano di altrettanto idonee o così almeno egli sembra aver pensato. Ed esso viene indetto, già a ridosso del Sinodo straordinario, senza quasi lasciare alla vita delle Chiese diocesane il tempo per metabolizzare le altre proposte in corso (le nuove idee che provengono da Santa Marta, il Sinodo stesso, il Convegno di Firenze, la GMG ormai prossima ecc.) e per raccordare la proposta giubilare con l’attività ordinaria, i progetti pastorali ormai in buona parte definiti e già in corso d’opera nell’anno in cui dovrà svolgersi il giubileo.
E in una fase in cui le Chiese che sono in Italia non sembrano aver ben chiarito le proprie convinzioni profonde rispetto alle nuove proposte teologiche da cui sono quotidianamente sollecitate e le conseguenti risposte da offrire. L’impressione infatti è quella dell’attesa più che della decisione, o forse si tratta di una impasse?
Lo “strumento” giubileo
Un giubileo rappresenta un insieme di proposte consolidate dalla tradizione. Si può supporre che esso susciti attese piuttosto prevedibili in quella parte della popolazione che appare dotata di un qualche grado di memoria della proposta: l’idea di pellegrinaggio (tradizionalmente a Roma), l’attraversamento rituale della porta santa, la confessione, la preghiera ecc.; gesti ai quali probabilmente viene assegnato un valore in sé, ma il cui scopo – reso esplicito dal carattere predefinito, strutturato e “necessario” delle azioni richieste – appare tradizionalmente legato al perseguimento dell’indulgenza (plenaria).
Questa a sua volta non è detto sia conosciuta nei suoi significati in modo appropriato, ma richiama (o dovrebbe richiamare) alla mente l’immagine del purgatorio[2] e di una “pena temporale” che si prevede assumerà la forma di un tempo, ancora doloroso ma aperto alla speranza, da vivere in quello sconosciuto mondo intermedio: un tempo che potrebbe però venire condonato proprio in forza dell’indulgenza ottenuta in occasione del giubileo, e che al contrario la confessione ordinaria non cancella, pur riammettendo a uno stato di grazia.
Naturalmente, è improbabile che siano in molti oggi a conoscere la distinzione tra remissione dei peccati «quanto alla colpa», ottenuta mediante l’assoluzione in confessionale, e remissione della “pena temporale” (Catechismo della Chiesa cattolica [CCC] 1471),[3] ottenibile mediante l’indulgenza (o altre vie). Più probabilmente per molti fedeli l’idea di indulgenza si associa a quella più magmatica e vaga di una particolare, e più netta, «pulizia dell’animo» che comporta – si spera – benefici effetti, nel mondo di qua e in quello di là, per se stessi o per i propri cari defunti.
In effetti, se non in taluni settori della popolazione, più anziani e caratterizzati da certe forme di religiosità, non è nemmeno detto che siano in molti a cercare un’“indulgenza”, tanto meno tra le generazioni più giovani. Quello che sembra interessare oggi infatti, più che una cancellazione della pena in un mondo intermedio a venire, è la possibilità di vivere meglio nella vita presente.
Senza rimuovere la concezione tradizionale del giubileo e il suo concreto dipanarsi in una serie di azioni predefinite, il papa sembra però essersi proposto di rinnovare profondamente i significati da porre al centro del giubileo stesso. In almeno tre sensi:
- La moltiplicazione, delocalizzazione della porta santa sembra inserirsi entro una logica di avvicinamento dei luoghi del rito alla quotidianità della vita (personale e delle Chiese locali), che per forza di cose assume anche il significato di demagificazione dell’azione giubilare e di desacralizzazione (della porta santa). La stessa porta della cella, attraversata in preghiera dal carcerato, viene descritta come il passaggio di una soglia santa.[4] La possibilità del grande pellegrinaggio a Roma resta, ma si apre anche quella del pellegrinaggio ravvicinato, a “chilometri zero”.
La delocalizzazione inoltre riduce l’enfasi sul “Centro”, affidando alle Chiese diocesane buona parte della gestione del giubileo e dunque anche, in un certo senso, la riuscita dell’anno giubilare. - La ridefinizione del significato di indulgenza. Nei documenti ufficiali non compare il termine nel senso di «remissione della pena temporale per i peccati» come proposto dal CCC (1471).
Questa viene invece pensata come liberazione dell’ “impronta negativa” (MV 22) lasciata dal peccato (pur perdonato) nell’animo umano, in modo tale da rimettere la persona nelle condizioni di (ri)accedere alla vita e più precisamente a una vita di carità (MV 23). Anche in questo caso il significato consolidato non viene scardinato, ma traslitterato: esso esce dalla logica prevalentemente giuridica in cui la tradizione lo aveva collocato (pratiche giubilari ben definite producono, quasi meccanicamente, la remissione della pena temporale), e viene riferito alle conseguenze esistenziali, vitali. In un certo senso, si potrebbe dire, il passaggio giubilare non offre alcunché in via automatica, ma richiede e sostiene l’avvio di un lavoro su se stessi, i cui esiti saranno valutabili in termini di misericordia attiva. Il fatto che successivamente il papa, in numerose occasioni, nel corso di cui ci si sarebbe potuto aspettare degli espliciti riferimenti, non abbia richiamato il concetto di indulgenza sembra confermare il fatto che egli non è molto interessato al vecchio significato del termine e non intende alimentare l’atteggiamento dei fedeli ad esso tradizionalmente associato. Il nuovo significato, d’altra parte, sembra richiedere ben di più, in termini di lavoro sulla coscienza personale da promuovere, di quanto non fosse strettamente necessario in passato. Tanto più che esso implica non solo un ricevere, ma anche un agire, come si dirà subito. - Il papa insiste in terzo luogo sulla necessità che i fedeli, nel corso dell’anno santo «aprano il cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali» e a questo fine invita a riflettere sulle opere di misericordia materiale e spirituale.[5] La risposta richiesta all’iniziativa giubilare è dunque un mutamento di atteggiamento e una reazione attiva, che si sostanzia in azioni solidali e caritative (misericordiose). Il riferimento a Isaia (58,6-11)[6] rende esplicito quali siano i “sacrifici” cui il papa pensa in sostituzione delle forme tradizionali di contrizione (MV 17).
La confessione, anch’essa pensata in forme non giudicanti e “misericordiose”[7] formalmente non viene messa in secondo piano. Anzi, essa – si dice – va riposta «al centro con convinzione» (MV 17). Ma questo passaggio, in quanto esperienza di misericordia, appare soprattutto funzionale a vivere e a suscitare atteggiamenti di misericordia; in un certo senso a rinnovare l’immagine della Chiesa presso i confessanti, in modo tale che essa divenga esperienza del Padre misericordioso[8] e, per questa via, suscitare in loro una risposta congruente.
Nella lettera a mons. Fisichella, per di più, il papa sembra quasi andare oltre:[9] «Ogni volta che un fedele vivrà una o più di queste opere [di misericordia] in prima persona otterrà certamente l’indulgenza giubilare».[10] Come a indicare che ciò che veramente conta, non è (solo?) il percorso giubilare canonico, ma la risposta che i fedeli si dimostreranno capaci di offrire in termini di carità. L’attenzione sembra passare dalla dottrina alla prassi.
In questa prospettiva, la misericordia da un lato appare legata alla dimensione di un peccato che invoca il perdono (nella confessione) e dall’altro è un’opera, si lega a un fare, a una risposta attiva. All’incalzante iniziativa giubilare i fedeli potrebbero perciò rispondere in due modi diversamente combinabili tra di loro: mediante il percorso giubilare classico e mediante azioni di carità. Appare abbastanza chiaro dalla lettura dei documenti che la risposta preferita e auspicata è quella et-et (confessione e carità). Il grado di apprezzamento delle altre possibilità non è altrettanto sicuro: probabilmente, se presi in modo alternativo, si preferirebbe l’azione caritativa al percorso giubilare classico, così almeno si potrebbe sostenere. Ma non è del tutto chiara la risposta alla domanda: l’opera di carità da sola può davvero bastare a celebrare il giubileo? Esistono diverse modalità dell’indulgenza giubilare, ciascuna delle quali appare in sé sufficiente?[11] In sostanza, posto che si auspica la compresenza della misericordia esperita e di quella attivata (re-agita), come ci si deve porre nel caso la risposta implichi una sola delle due possibilità? E quali orientamenti vanno incentivati?
La tensione interna alla proposta
In sostanza, la formula tradizionale del giubileo rimane, ma il papa si propone di modificarne il senso dall’interno, quasi si trattasse di immettere “vino nuovo in otri vecchi”, una strada non facile, come la rivisitazione dell’immagine evangelica qui suggerita lascia intendere. Tutto ciò determina una tensione interna alla prospettiva giubilare, che saranno i fatti e le miriadi di decisioni di tutti, ma proprio di tutti, i soggetti coinvolti a sciogliere in un senso o nell’altro. Il carattere diffuso della celebrazione giubilare implica infatti affidare alle Chiese diocesane, più ancora che al centro romano, la buona riuscita del giubileo
Il “successo” del giubileo, nella prospettiva delineata dal papa, non sarà solo una questione di numeri (di partecipazione) ammesso che mai lo sia stato, ma di significati; se cioè prevarranno i nuovi contenuti e risposte che vanno al di là del piano meramente devozionale o se invece domineranno quelli tradizionali. E dipenderà dalla capacità di questa proposta, unita alle altre che papa Francesco avanza, di suscitare nuove energie, nuove volontà di identificazione e di azione in una riformata Chiesa della misericordia.
C’è un ultimo aspetto da richiamare per comprendere la problematica sollevata dall’iniziativa del papa. Un giubileo, anche se orientato alla misericordia, rappresenta per la sua stessa natura un modo per riproporre e sostenere il ruolo di mediazione tra uomo e Dio che tradizionalmente l’istituzione religiosa si arroga e che appare caratteristico di una “religione di Chiesa” come il cattolicesimo.[12] Perché la logica giubilare abbia un senso dunque occorre vi siano persone che in primo luogo riconoscano di avere un debito, che avvertano una insufficienza di sé, percepiscano un limite e che in virtù di ciò sentano il bisogno di chiedere misericordia; e, in secondo luogo, si richiedono fedeli che riconoscono all’istituzione religiosa la possibilità di chiudere il debito assolvendo il tradizionale ruolo di mediazione. Tutto questo oggi fa problema per le sensibilità attuali, come si dirà tra breve.
Prima ancora però va osservato che la tensione interna alla proposta giubilare attuale – le due facce del giubileo – potrebbe anche non escludere delle ipotesi interpretative tali da lasciare qualche spazio di “autogestione” ai singoli e ai gruppi. Se, infatti, si desse un primato della risposta caritativa (le opere), la mediazione istituzionale nello stesso giubileo potrebbe essere ritenuta da alcuni non così obbligata e il giubileo potrebbe essere inteso come un’occasione di riconciliazione attraverso la prassi e il rapporto personale con Dio, non necessariamente mediante il percorso canonico giubilare. In questo senso l’attraversamento delle porte sante, unito a gesti di carità, potrebbe essere inteso come un gesto simbolico di per sé sufficiente, anche in vista del concetto, dal significato peraltro a molti poco chiaro, di indulgenza. Questi gesti potrebbero cioè venire intesi da alcuni fedeli come un modo diverso di intendere la confessione personale, di fatto un modo per bypassare la confessione auricolare. L’orientamento dei fedeli rispetto a quest’ultima appare dunque un aspetto decisivo su cui riflettere.
Il contesto del giubileo [cenni]
L’iniziativa giubilare cade in un periodo in cui alcune delle sue premesse, sul piano delle credenze e delle pratiche, appaiono rese incerte dall’evoluzione in corso della religiosità.
Quanto alle credenze
È noto come proprio l’area delle credenze ultime legate alle rappresentazioni tradizionali dell’aldilà sia quella che oggi appare più problematica, anche per la popolazione che si definisce cattolica. Le immagini delle forme che dovrà assumere la vita eterna e dei “luoghi” in cui essa dovrebbe configurarsi sono oggetto oggi di una crescente indeterminatezza e ciò non pare essere solamente un effetto della secolarizzazione, ma anche di una diversa rappresentazione di Dio che è la stessa istituzione a promuovere.
Da un lato la grande maggioranza della popolazione (87%) rifiuta l’idea che con la morte tutto cessi, dall’altro solo il 30% prevede con una qualche sicurezza che si sia destinati a sperimentare la resurrezione del corpo, mentre il 43% su questo appare incerto.
Per due terzi della popolazione ha ancora un senso parlare di “peccato” e per la maggioranza (54%) è possibile pensare che vi sia un qualche rapporto tra come ci si è comportati in vita e quello che avverrà dopo la morte. Ma questo legame rimane indeterminato e in ogni caso sembra collocarsi in un quadro di credenze profondamente diverso dal quello classico.
L’idea decisiva entro cui si collocava tutta una serie di convinzioni relative al peccato e alla sua remissione e cioè che la vita nell’aldilà comportasse una condanna o una salvezza eterni è condivisa solamente da un quarto della popolazione (24%); un quinto (21%) pensa che Dio salvi tutti, mentre i rimanenti o sono incerti (29%) oppure pensano a qualcosa di completamente diverso (14%) o non immaginano affatto una vita ulteriore (12%).
Come si intuisce è soprattutto l’idea dell’inferno che fa problema oggi. Quanto al purgatorio, con tutto quanto gli concerne (pena temporale ecc.), di quello che la gente pensa oggi non ne sappiamo molto, per la semplice ragione che i ricercatori ritengono pletorico fare domande su una realtà ipotetica, di cui nessuno più parla ormai e che si ritiene essere stata travolta dall’evoluzione in corso nelle immagini dell’aldilà. Se solo una minoranza calante pensa ancora alla condanna eterna che senso si potrà mai assegnare al purgatorio?
Al di là dei numeri, il cui significato è ovviamente schematico e indicativo, quello che conta è che le credenze in questo campo sono ormai uscite dal quadro delle certezze per entrare entro aree semantiche diverse. Richiesto di esprimersi verbalmente su questo insieme di credenze le persone infatti adottano figure linguistiche che da un lato sono condizionali e indeterminate, da un altro sono possibiliste e desiderative, da un altro ancora appaiono esplorative, mobili, provvisorie.
In sostanza i presupposti cognitivi e le rappresentazioni dell’aldilà che davano fondamento all’idea tradizionale di indulgenza, intesa come cancellazione della pena temporale, sono oggi fortemente intaccati. Si può ipotizzare allora che questa idea venga poco capita o venga collocata in un quadro interpretativo diverso, più disorganizzato e di frequente personalizzato.
È opportuno non scordare che è dentro questo tipo di sensibilità che il giubileo viene a collocarsi e che questa appare tale da rendere assai poco scontate alcune delle convinzioni che in passato fondavano le pratiche giubilari.
Quanto alle pratiche (confessione)
Tutto lascia pensare che il declino della pratica religiosa, da parecchi decenni evidente in Italia, non sia cessato. Gli ultimi dati pubblicati dall’Istat, relativi alla frequenza ai luoghi di culto nel 2015, indicano una ulteriore flessione, che ha coinvolto in questo caso anche la popolazione con più di 50 anni, chiaro segno del carattere strutturale del calo, ancor più evidente che non la stessa decrescita della pratica religiosa giovanile. L’“effetto Francesco”, del quale si era parlato a ridosso della sua elezione, quando alcuni sostenevano di aver visto chiese nuovamente piene, da questo punto di vista non sembra esserci stato. Come era del resto prevedibile: quello che conta per modificare le pratiche non è il mutamento di una figura rilevante e però lontana, ma il cambiamento nelle relazioni interne alla Chiesa “a portata di braccio”.
Tutti i sacramenti sono del resto coinvolti oggi in un processo di trasformazione. I significati che ad essi vengono attribuiti tendono ad allontanarsi da quelli canonici. Non si tratta però sempre solo di perdita, ma anche di una ridefinizione – personalizzazione e, qualche volta, di una risignificazione.
Ovviamente, essendo qui sottoposta a riflessione la prassi giubilare, il sacramento il cui “stato di salute” è più importante considerare, è quello della confessione (più propriamente “della misericordia e del perdono”). Come molti osservano è proprio in ordine ad esso che si manifesta la maggiore perdita di incisività. Qui infatti tale perdita assume le forme di un dubbio profondo circa il suo senso e la sua stessa necessità.
Come si diceva, la misericordia, nella logica del giubileo è innanzitutto “ricevuta”, dato che è in questo modo che essa si espande e diventa “operata”. Essa suppone l’esistenza di una certa idea di peccato e di un certo bisogno di perdono. Ora, è molto difficile dire qualcosa di fondato (su evidenze di ricerca) a questo proposito. Per il semplice fatto che i dati sulla confessione, pur in sé rilevanti, non si concentrano sull’esistenza o meno di una domanda e di una disponibilità di questo genere, ma dicono (anche) del modificarsi del rapporto con l’istituzione religiosa. In altre parole, se non ci si confessa più ciò può dipendere dal fatto che non si avverte l’esigenza del perdono, ma anche dal fatto che non si riconosce più necessaria la mediazione ecclesiastica per riceverlo o che non si apprezza la forma che questa mediazione assume nella confessione cosiddetta auricolare.
In ogni caso il giubileo, nella sua configurazione tradizionale, prevede un passaggio per il confessionale. Forzando forse un po’ il ragionamento si può ipotizzare che chi non ritiene necessario confessarsi non sia nemmeno interessato a quella configurazione (o al giubileo in quanto tale?).[13]
Nel Nord Est coloro che si confessano almeno una volta all’anno sono circa un terzo della popolazione (autoctona). Il 55% di essi è costituito da persone anziane (60 o più) e da casalinghe, fatto che naturalmente fa riflettere. Ciò avviene anche perché la maggioranza della popolazione, e dei cattolici, è dell’idea che la confessione non sia necessaria (58% della popolazione e 53% dei cattolici). Altri, pur ritenendola doverosa, non sono convinti dei modi in cui viene fatta oggi (14 % della popolazione e 15% dei cattolici). Fatto ancor più significativo, opinioni non molto diverse si riscontrano anche tra chi ha un qualche grado di partecipazione a un gruppo religioso.
Le spiegazioni di questa situazione sono molteplici, ma una appare fondamentale. La confessione, per sua stessa natura, viene a trovarsi al crocevia di quella trasformazione della religiosità il cui senso più profondo non è nel rifiuto della religione e nella chiusura al trascendente, ma nella ridefinizione del rapporto con l’istituzione religiosa derivante dalla spinta all’autonomizzazione del soggetto. Ciò che oggi viene messo in discussione non è il ruolo della religione in quanto tale, ma certi suoi modi di essere e specificatamente quella forma di controllo istituzionale delle coscienze che costituisce il lascito più pesante, per la consapevolezza attuale, della tradizione tridentina.
Se quanto fin qui ipotizzato e documentato ha un senso ciò significherebbe che la configurazione tradizionale del giubileo potrebbe al più interessare soggetti appartenenti a una minoranza della popolazione, via via più esigua passando dalla popolazione inattiva a quella attiva, al calare dell’età e al crescere della scolarizzazione.
La configurazione tradizionale si diceva, mentre diverso potrebbe essere l’interesse suscitato e l’esito conseguito se venisse dato più spazio all’altra faccia del giubileo, come è stata posta in evidenza nella prima parte di questo testo. La risposta potrebbe cioè essere in qualche misura diversa, e interessare anche fasce di popolazione giovanile, scolarizzata, poco avvezza al confessionale, se i nuovi significati immessi in questa iniziativa giubilare venissero pubblicizzati ed enfatizzati.
Un’ultima considerazione relativa al contesto – che qui scegliamo di non sviluppare, perché ci porterebbe lontano, ma che non è possibile del tutto tacere – riguarda il fatto che l’anno giubilare si sta svolgendo in un quadro globale dominato dalla questione dei profughi. La stessa Unione Europea rischia di crollare su questo tema; un tema che peraltro divide la stessa coscienza dei fedeli e in quanto tale è questione esplosiva per la stessa Chiesa (per tutte le Chiese europee). Ora, una proposta che indica ai fedeli di aprire il cuore «a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali», si trova inevitabilmente ad attraversare questa gigantesca questione. Lo farà affrontandola in qualche modo o preferirà lasciarla nel silenzio?
Il Giubileo a livello diocesano
Le scelte diocesane (entità dell’investimento)
Dell’importanza assunta dalle diocesi in questo anno santo, per il suo stesso successo, si è già detto qualcosa. Il giubileo nelle diocesi sembra essere partito un po’ in sordina. Delle porte sono state aperte, dei simboli sono stati esposti, delle iniziative sono state messe in programma. Non sembrano per ora evidenziarsi linee forti e ben definite in termini di gestione e di contenuti. D’altra parte è presto per dire quale sarà l’investimento di energie di un giubileo giunto inatteso fra capo e collo, e su quali contenuti si insisterà maggiormente.
Naturalmente, se questa impressione verrà confermata, molto dipenderà dal fatto che l’iniziativa giubilare, a causa del suo carattere imprevisto (straordinario) e dei tempi ristretti con cui è stata indetta, entra direttamente in competizione con le altre scadenze sia di natura sovra-diocesana che diocesana e parrocchiale.
Come è noto i preti sono già abbastanza sotto stress, in seguito alla forbice creatasi tra la diminuzione del loro numero e la domanda ancora elevata di servizi religiosi (e non solo) che giunge alle parrocchie. Difficile immaginare che possano aggiungere ulteriori iniziative. Piuttosto è possibile passi una logica del tipo: “quest’anno la gita-pellegrinaggio la facciamo al giubileo”.
Considerazioni non molto diverse si possono fare per la singola diocesi considerata nel suo insieme. La struttura attuale delle Chiese diocesane probabilmente non regge a tutte le sollecitazioni esistenti e che negli ultimi tempi si sono fatte più numerose per il sovrapporsi delle iniziative ordinarie, alle sperimentazioni che molte di loro stanno intentando, alle sollecitazioni che arrivano dal papa stesso.
Quale collocazione riceverà il giubileo in questo quadro? Centrale, periferica? Sarà oggetto di un grosso investimento di risorse oppure no? È difficile pensare che il giubileo possa sostituire i programmi pastorali locali, piuttosto si cercheranno modi per far assumere al giubileo un carattere integrativo o aggiuntivo, rispetto alle attività e alle sperimentazioni in corso, che ben difficilmente saranno poste in standby per dare maggior enfasi all’iniziativa.
Le scelte diocesane (contenuti)
Tutto questo riguarda, diciamo così, l’entità dell’investimento delle diocesi. Questione certamente non secondaria per chi ha pensato al giubileo come un modo per sollecitare nuove energie orientate al rinnovamento della Chiesa. Ma naturalmente c’è anche una questione di contenuti ed è forse quella più importante. Quali messaggi verranno elaborati e proposti, quali significati verranno attribuiti all’evento giubilare?
Un rischio possibile è che il sovraccarico determinato dal moltiplicarsi delle iniziative influenzi negativamente anche quest’aspetto. La carenza di tempo infatti rischia di incidere non solo sulle iniziative, ma anche sulla riflessione.
Per fare un esempio: le librerie cattoliche sono invase da una moltitudine di pubblicazioni sulla misericordia; qualcuna sarà stata letta? E quale contenuti vengono privilegiati in questo concetto, quelli più generici e più facilmente accettabili dall’insieme dei fedeli o quelli storicamente più incarnati e impegnati, e perciò stesso più discriminanti e ardui da proporre? I parroci parleranno del giubileo? E se ne parlano lo fanno attingendo alla loro formazione catechistica oppure sulla base di una adeguata lettura della documentazione di base del giubileo? La tensione tra le due facce del giubileo è a loro evidente? E come si orientano rispetto ad essa? La ripropongono tale e quale oppure optano per una direzione piuttosto che per un’altra? Per i contenuti più tradizionali o per quelli più innovativi?
Un’occhiata ad alcuni siti sembra indicare che spesso i gestori dei luoghi preposti all’accoglienza giubilare scelgono per una lettura piuttosto “opaca” della proposta. Apparentemente i contenuti vengono lasciati al pellegrino. Si accenna a delle proposte (“venite e vedrete”), ma queste appaiono non molto qualificate rispetto alle specificità di questo giubileo. Non si osserva un’offerta determinata che rifletta in modo esplicito i contenuti proposti nei documenti istitutivi. Sembra piuttosto che l’offerta, preso atto che ormai la domanda va per la sua strada, tenda ad adattarvisi: “qui troverete delle possibilità, utilizzatele come vi pare meglio”. Un messaggio che pare cozzare contro il fatto, di cui diremo subito, che i pellegrinaggi sembrano assumere un carattere collettivo.
Vi sono in tutto questo delle responsabilità da non trascurare che afferiscono specificatamente ai centri diocesani. Hanno deciso di impegnarsi o stanno un po’ a vedere, lasciano fare o cercano di orientare? E, di nuovo, se si è scelto di influenzare si preferiscono certi contenuti invece di altri? E quali? Si preferisce mettere in luce il vino nuovo o l’otre vecchio?
La difficoltà nel decidere dipende, oltre che da considerazioni di ordine pratico, dal fatto che il giubileo in fondo rappresenta anche un’occasione per orientarsi rispetto alle sollecitazioni che papa Francesco invia alle Chiese locali. In che misura esse sono convinte della direzione da lui indicata? In che misura vedono nel giubileo un’occasione importante per sostenere il rinnovamento della Chiesa? Non è detto che nelle Chiese italiane i tempi per definire ciò in cui credono rispetto a queste prospettive siano già maturi. I tempi del giubileo e quelli del (necessario) ripensamento potrebbero non coincidere.
Le scelte diocesane (alcune complessità)
Una qualche difficoltà a orientarsi può derivare inoltre da alcune complessità che sono presenti nell’iniziativa giubilare.
Il nodo principale riguarda qui la questione sulla quale ci siamo soffermati a lungo, del rapporto tra cammino giubilare orientato all’indulgenza e quello orientato a promuovere opere (di carità). Come si stanno muovendo le Chiese diocesane su questo punto? Si tende a privilegiare quella certa primazia del secondo aspetto rispetto al primo che sembra di intravedere in alcuni accenti del papa o si è scelto di adagiarsi sulle concezioni più tradizionali? Quest’ultima è una via meno impegnativa, l’altra esige un maggiore investimento di idee e di risorse.
E, se si tenta di esplorare strade nuove, come si sta cercando di tenere in evidenza lo specifico dell’anno giubilare? Quale tipo di equilibrio si cerca di promuovere tra misericordia da ricevere, legata alla dimensione del peccato, e misericordia operata, legata alle risposte da attivare? Prevale il “non dimenticate di confessarvi” o il “pensate soprattutto a fare opere di bene”? Si tenta di porre in relazione opere e confessionale? Perché: “le opere – alcuni potrebbero dire – le facciamo già, a e allora che cosa c’è di nuovo?”. E altri potrebbero dire: “bene le opere, le faremo, che altro volete da noi?”. E altri ancora potrebbero dire: “ma noi ci confessiamo già, che cosa di nuovo ci chiede in confessionale e fuori da esso il giubileo?”.
Alcune di queste domande girano attorno alla questione del che cosa cambia e del che cosa aggiunge il giubileo una volta che esso appare relativamente desacralizzato e integrato nella vita delle Chiese locali. Un altro esempio: posto che i santuari – presso i quali di frequente sono state aperte le porte sante – sono oggetto di pellegrinaggi continui che cosa modifica, quali significati introduce la circostanza giubilare? In che misura e senso vengono attribuiti significati particolari a questa? È un “quest’anno vado a Monte Berico perché c’è il giubileo?” o è un “quest’anno, come al solito, vado a Monte Berico, tanto più che c’è il giubileo”?
E comunque sia, tutto questo cosa genera negli animi dei fedeli coinvolti, quali stimoli all’azione produce e quale modi nuovi di intendere la misericordia ricevuta, se li produce?
Individuale e collettivo. Roma e diocesi
Altri aspetti che meritano attenzione sono la distinzione tra pellegrinaggio collettivo e individuale, nonché tra quello diocesano e romano.
Le prime impressioni che si possono raccogliere osservando le porte sante aperte nelle diocesi o ascoltando i responsabili delle chiese giubilari è che i casi di pellegrinaggi di singole persone siano allo stato attuale molto ridotti, quasi inesistenti.
Viceversa la partecipazione a pellegrinaggi di tipo organizzato, collettivi dunque, sembra riscontrare una apprezzabile partecipazione. Il passaggio attraverso le porte è un evento di popolo.
In sostanza il singolo non sembra interpellato; non ci sono pellegrini isolati; il giubileo non è un fatto individuale, ma collettivo. La domanda che ci si pone allora è se questo carattere collettivo, di popolo, viene percepito come tale oppure no; se aggiunge qualcosa (ad esempio perché rende plausibili particolari azioni comunitarie) o sottrae qualcosa (ad esempio perché passa in secondo piano il percorso vissuto nella coscienza individuale); se suggerisce l’idea di una Chiesa che si manifesta come popolo e che ha qualcosa da dire al mondo o se rientra in configurazioni più tradizionali. Che cosa lascia?
In ogni caso, il carattere collettivo che il giubileo sta assumendo esalta ulteriormente, nella sua gestione, quell’importanza assunta dalle Chiese diocesane che era già implicita nella delocalizzazione delle porte sante. Non solo – si badi bene – delle decisioni che vengono prese dall’ordinario diocesano e dai suoi collaboratori a livello centrale, ma anche dalle parrocchie e dai vicariati, in definitiva dai preti. Non è infatti necessario che arrivino indicazioni dal centro diocesano perché il singolo parroco spieghi nel bollettino parrocchiale i contenuti del giubileo. E, se lo fa, quali fonti utilizza? Il CCC, o la documentazione istitutiva? Quest’ultima è stata letta?
Una domanda più specifica riguarda la differenza tra il pellegrinaggio a Roma e quello diocesano. Alcuni preferiranno il primo, altri il secondo, altri parteciperanno ad entrambi. Quali differenze di significato saranno riscontrabili nei diversi tipi di esperienza? La delocalizzazione delle porte è una svalorizzazione dell’iniziativa giubilare a livello centrale o una valorizzazione delle Chiese locali? La differenza è stata percepita? E se è stata percepita, nella forma ad esempio di un certo significato di desacralizzazione implicito nell’evento diocesano rispetto al tradizionale appuntamento romano, questo cosa toglie e cosa aggiunge?
Ciò di cui sappiamo poco, in definitiva, è che tipo di rappresentazioni metta in moto nelle testa della gente una iniziativa come quella del giubileo. Quali aspetti incontrano il favore dei fedeli? Quali aspetti rituali si dimostra capaci di suscitare reazioni? In modo più mirato ciò che appare interessante chiedersi è: posta la tensione interna a questo giubileo, la sua sofisticata complessità, quali contenuti (vecchi e nuovi) stanno passando? E subordinatamente, ma solo dal punto di vista logico, tra quelli che passano quali si dimostreranno maggiormente capaci di introdurre innovazioni feconde, quali saranno capaci di suscitare delle reazioni, di liberare nuove energie, di suscitare identificazione e partecipazione non estemporanee?
[1] Basterebbe leggere quello che scrive sul giubileo Riforma, giornale dei valdesi italiani.
[2] Esplicitamente richiamata dal CCC al n. 1472 in relazione all’indulgenza.
[3] Si veda anche can. 992, Indulgentiarum doctrina, norma 1.
[4] Lettera a mons. Fisichella, del 1 settembre 2015.
[5] «Apriamo i nostri occhi per vedere le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto. Le nostre mani stringano le loro mani, e tiriamoli a noi perché sentano il calore della nostra presenza, dell’amicizia e della fraternità. Che il loro grido diventi il nostro e insieme possiamo spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo» (MV 15).
[6] «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?…».
[7] «Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio», omelia dell’8 dicembre 2015. Il papa è poi intervenuto più volte sul tema della confessione, in particolare il 9 febbraio 2016, parlando ai missionari della misericordia e la stessa giornata, nell’omelia della messa celebrata con i frati cappuccini in San Pietro, suscitando reazioni diverse.
[8] «Indulgenza è sperimentare la santità della Chiesa che partecipa a tutti i benefici della redenzione di Cristo, perché il perdono sia esteso fino alle estreme conseguenze a cui giunge l’amore di Dio» (MV 22).
[9] Oltre anche quanto previsto dal CCC che in premessa al capitolo sulle indulgenze, al n. 1471, dichiara: «La dottrina e la pratica delle indulgenze nella Chiesa sono strettamente legate agli effetti del sacramento della Penitenza».
[10] E il papa prosegue dicendo: «Di qui l’impegno a vivere della misericordia per ottenere la grazia del perdono completo ed esaustivo per la forza dell’amore del Padre che nessuno esclude. Si tratterà pertanto di un’indulgenza giubilare piena, frutto dell’evento stesso che viene celebrato e vissuto con fede, speranza e carità».
[11] In questa direzione vanno alcuni commenti. Si veda a questo proposito il sintetico libriccino pubblicato dalla EDB, Bologna, 2015, dal titolo L’indulgenza secondo Francesco, introdotto da Vittorio Croce, p. 12.
[12] Il CCC al n. 1478 è molto chiaro su questo: «L’indulgenza si ottiene mediante la Chiesa che, in virtù del potere di legare e di sciogliere accordatole da Gesù Cristo, interviene a favore di un cristiano e gli dischiude il tesoro dei meriti di Cristo e dei santi perché ottenga dal Padre delle misericordie la remissione delle pene temporali dovuti per i suoi peccati». In forma, se possibile ancora più netta, al n. 1471 si legge che l’indulgenza si acquista «…per intervento della Chiesa, la quale come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi».
[13] Si è detto qui “forzando un po’”, perché potrebbe esservi anche chi, non essendosi più confessato da parecchi anni, decide di cogliere le possibilità che il giubileo offre per riaccedere eccezionalmente a questa pratica sacramentale.
Davvero vino nuovo in otri vecchie l’attuale Giubileo! Bene Castegnaro. Saluti.