II Quaresima: Trasfigurato

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Dopo la partenza, si intravede già il traguardo. La Chiesa ci presenta nel vangelo di questa domenica il destino ultimo della vita di Gesù, il termine della sua corsa nel dono generoso di sé. La trasfigurazione su un alto monte mostra ai tre fidati discepoli l’interiorità più vera del Messia, ciò che nella Pasqua si mostrerà in tutto il suo splendore.

Fra l’alto monte della prova di Abramo e quello della gloria di Gesù si snoda il percorso che la Chiesa intende far compiere ai suoi figli nel tempo sacramentale di salvezza della Quaresima. Un traguardo di trasfigurazione, esito di grazia e di fede, di abbandono alla volontà di Dio espressa nella sua pienezza.

La prova

Rimasto col solo figlio Isacco, dopo il rinvio di Agar e di Ismaele, Abramo avverte nella sua coscienza religiosa di dover ridonare a YHWH il dono grande ricevuto in vecchiaia, il figlio della promessa, il figlio del sorriso, il figlio della pura grazia. Egli è nato da un uomo molto anziano e da una donna anziana e sterile. La promessa di YHWH, al di là dell’ansia di Sara di voler affrettare il suo compimento attraverso l’escamotage dell’intervento di Agar, si è compiuta secondo la grazia e la promessa fatta dall’ospite alle querce di Mamre (Gen 18,10).

YHWH ora “mette alla prova/nissāh” Abramo, una “prova” mediata dalla sua delicata coscienza religiosa. È una prova diagnostica, per far emergere quello che c’è nel profondo del cuore di Abramo, il meglio del suo cuore. La sua fede passerà attraverso il crogiuolo del fuoco, diventerà incandescente e ancor più solida. Sta di fatto che Abramo è l’unica persona singola che nell’AT viene messa alla prova direttamente da YHWH. Giobbe lo fu da Satana, seppur con il consenso divino (Gb 1,12).

Alla chiamata per nome, Abramo risponde prontamente con la risposta della presenza disponibile e all’erta. YHWH/la sua coscienza gli chiede di prendere con sé il figlio, (ora) l’unico, che gli appartiene, che lui ama, dal nome… Isacco! Il nome arriva alla fine, come una stilettata dopo l’elenco prezioso delle perle che compongono la collana costituita dal ragazzo, figlio della promessa. È quello che ha ricevuto nel passato, dopo essere uscito da Harran verso una terra sconosciuta. È tutto quello che ha per il futuro. Lui rappresenta la promessa, lui contiene la discendenza, la benedizione per tutti i popoli. Lui è tutto per Abramo. Lui è YHWH stesso! Che cosa dovrà fare di lui dopo averlo preso?

Offrirlo in olocausto! Questo gli suggerisce la sua coscienza, il suo ambiente religioso più attento e coltivato. Abramo non ci aveva pensato prima, ma ora che il ragazzo è cresciuto, la voce è arrivata! La chiamata è imperiosa, non ammette repliche. Non è un male, è il massimo bene che posso dare a YHWH.

Abramo non sa di essere sottoposto solo a una prova diagnostica, lo sanno solo YHWH e i lettori. Noi seguiamo con angoscia tutte le mosse di Abramo, perché, se sappiamo più di lui nelle intenzioni di YHWH, ne sappiamo meno di lui di quel che gli passa nel cuore. Sono le sue azioni a mostrarci la sua fede e la sua obbedienza a YHWH. La sua angoscia di padre ci è nascosta, ma la avvertiamo chiaramente.

Il monte Mòria

Stavolta la meta non è avvolta nel vago (cf. Gen 12,1); gli è indicata chiaramente. È il monte Mòria (cf. solo 2Cr 3,1 nell’AT), che la tradizione identificherà poi col monte Sion, il monte dove Salomone costruirà il tempio al Signore (Giubilei 18,13; Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche 1,13,2 [&226]; cf. l’allusione in Genesi Rabbah 55,2).

Abramo compie velocemente, di buon mattino, tutte le azioni necessarie per compiere un olocausto, il sacrificio che brucia completamente la vittima, il cui profumo è pensato salire gradito a Dio.

Durante il cammino, il silenzio regna pesante. Isacco sembra essere un robusto adolescente o un giovane uomo di età variabile: sedici anni secondo Giubilei 15,1; 16,16; 17,1.15; venticinque anni secondo Flavio Giuseppe, Ant. 1,13,2 (&227); trentasette anni, secondo il targum Pseudo-Jonathan 22,1. L’età che cresce è un segno che la tradizione attribuisce anche a Isacco la piena disponibilità cosciente a essere offerto in sacrificio a Dio.

Al terzo giorno i due servi e l’asino sono lasciati per strada ad attendere il ritorno dei due padroni dalla loro adorazione sul monte. “Il terzo giorno” è quello della svolta, il momento in cui accade sempre un evento di una qualche importanza (cf. Gen 31,22; 34,25; 40,20; 42,18; Mt 16,21; 17,23; 20,19; Lc 9,22, 13,32; 18,33; 24,7.46; At 10,40; 1Cor 15,4).

Ora padre e figlio sono soli e se ne vanno tutte e due insieme (vv. 6.8). Abramo se ne va col figlio “unico/unito” (secondo una proposta di A. Wénin), ma sono fra loro isolati, rinchiusi nei propri pensieri.

La domanda del figlio “Isacco/Sorriderà/Sorride” sull’assenza dell’agnello sacrificale ferisce mortalmente al cuore il padre, che se l’aspettava. Sul monte Mòria (Mōriyyāh < rā’āh/vedere), YHWH “vedrà per lui/provvederà/yireh-llô”, risponde Abramo col cuore stretto nell’angoscia che possiamo ben immaginare (v. 8). Lui “yērāeh/si farà-fa vedere” (CEI; Reggi; Wénin)/si è provveduto (F. Giuntoli) (v. 14).

Questo sarà il nome con il quale il monte sarà denominato da allora in poi, fino al presente dello scrittore.

Lo legò

Abramo “mette addosso” al figlio la legna necessaria per l’olocausto, come a Gesù imposero il duro legno della croce (cf. Lc 23,26 epethēkan auatōi ton stauron pherein; Mt 27,32 ēggareusan hina arēi ton stauron autou ) che «egli si portò da solo» (cf. Gv 19,17 bastazōn heuatōi ton stauron). Abramo tiene invece per sé “il fuoco/la pietra focaia” e il terribile “coltello” impiegato per “scannare ritualmente/šae” la vittima sacrificale (v. 10).

Il luogo è raggiunto. Abramo costruisce con le proprie mani l’altare per YHWH, vi dispone accuratamente la legna come su una tavola imbandita (‘ārak). (Shulan ‘Aruk [“Tavola imbandita”] sarà il titolo di un testo medievale contenente diposizioni giuridico-religiose osservate tutt’oggi nell’ebraismo).

Immaginiamo Abramo trattenere respiro e lacrime (che invece caddero copiose secondo la tradizione ebraica) mentre lega/wayyăqōd Isacco, che il testo ricorda per l’ennesima volta essere “suo figlio (l’amato, l’unico, tuo)” (vv. 2.3.6.7.8.9.10.12.13.16).

Padre e figlio non dicono una parola, mentre per la tradizione Isacco invoca il padre di legarlo strettamente, perché, per la paura, non abbia a slegarsi e impedire in tal modo il compiersi del sacrificio da lui accettato liberamente.

Dal verbo “legare/‘āqad”, impiegato nel v. 9, la tradizione ha ricavato il titolo della pericope/parashah: “La legatura di Isacco/‘ăqēdat Yṣḥāq” (e non “La prova di Abramo/Il sacrificio di Isacco” come nella tradizione cristiana).

Il testo aveva già notato che, implicitamente, Isacco aveva assecondato con obbedienza silenziosa e confidente «nelle azioni paterne, a quanto ormai non poteva che presentarsi ai suoi occhi come una realtà disperatamente inequivocabile» (F. Giuntoli).

Non hai risparmiato

L’angelo di YHWH interviene prontamente per impedire ciò che YHWH non vuole – a differenza delle divinità delle popolazioni coeve e circostanti – e che non ha mai comandato di compiere al suo popolo: i sacrifici umani, compiuti invece dai popoli circostanti Israele, dedicati soprattutto a Moloc (cf. Lv 18,21; 20,2-5; Dt 12,31; 18,10). Ma molti in Israele li offrirono, da Iefte ad Acaz e a Manasse (Gdc 1,39; 1Re 16,34; 2Re 3,27; 16,3; 17,17; 21,6; 23,10; 2Cr 28,3; 33,6; Sal 106,37s; Ger 7,31, 19,5; Ez 16,20-22; 20,31) .

Abramo ha già mostrato la sua fede obbediente. L’angelo di YHWH/YHWH riconosce che egli è “un timorato di Dio/yerē’ ’Ĕlōhîm”. «L’ossequio adorante della piccola creatura di fronte al trascendente suo “Dio creatore/ yir’atĔlōhîm” fa di Abramo il primo dei sapienti, dei saggi di Israele. La tradizione sapienziale di Israele ripeterà con insistenza che il “timore di YHWH” è il punto di partenza del cammino di conoscenza di Dio (cf. Pr 1,7; 2,5; 9,10; 15,33; 19,23; Qo 12,13; Sir 1,16.24; 19,18; 21,11; 25,11; 40,26). È a questo traguardo che mira l’educazione che Dio impartisce ad Abramo lungo tutta la narrazione genesiaca» (cf. A. Wénin, Abramo e l’educazione divina. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. II. Gen 11,27–18, EDB, Bologna 2017).

YHWH ha fatto percepire ad Abramo, attraverso la sua coscienza religiosa segnata dalla cultura del tempo, la necessità e la dolorosa bellezza della disponibilità piena al Signore, affidando e ridonando a lui il proprio passato e anche il proprio futuro. Tutto è stato grazia e tutto sarà grazia, e quindi da tutto bisogna educarsi a sapersi distaccare, nel dono generoso di tutto se stesso.

L’angelo di YHWH/YHWH riconosce ad Abramo: «Non hai risparmiato tuo figlio, l’unico tuo/LXX gr.: ouk epheisō tou huiou tou tou agapētou)». Non tanto nel senso che “non hai guardato in faccia a nessuno, nemmeno a tuo figlio”, ma nel senso che “non hai tenuto per te/non ti hai trattenuto” nemmeno tuo figlio. Un limite che il Padre supererà nella pienezza dei tempi nel dono generoso del Figlio suo, l’Unigenito (Gv 1,14.18; 3,16 «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito»; 3,18), l’Amato/il Figlio amato (Mt 3,17; 12,18; 17,5; Mc 1,11; 9,7; 12,6; Lc 3,22; 20,13). Afferma Paolo: «Egli che non ha risparmiato/ouk epheisato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi/paredōken auton hyper hēmōn pantōn, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?».

Il Padre non ha tenuto per sé il Figlio, a cui ha donato di assumere liberamente la volontà amorosa di poter dimostrare agli uomini chi è veramente Dio, cioè quanto egli ami l’umanità e il creato tutto. La Passione è un dono del Padre a Gesù, perché possa mostrare chi è lui e chi è colui che lo ha inviato: «Gesù allora disse a Pietro: “Rimetti la tua spada nel fodero; non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato/to potērion ho dedōken moi ho patēr?”» (Gv 18,11).

Sacrificare il sacrificio

Abramo scorge un ariete oppure «ed ecco, vide da dietro un ariete impigliato per le corna nella boscaglia… e lo offrì in olocausto in vece del figlio» (F. Giuntoli). YHWH non gradisce sacrifici umani e Abramo offre per primo sul monte – che sarà poi identificato come quello su cui fu costruito il tempio – un sacrificio animale (differenza di Abele in Gen 4,4 e di Noè in Gen 8,20). Per l’autore di questo brano sacerdotale, Gerusalemme è l’unico luogo in cui possono essere offerti i sacrifici animali.

«Sul monte il Signore si è provveduto/ si farà-fa vedere» (v. 14). Il racconto è anche una spiegazione eziologica popolare del significato del nome attribuito a quel monte. Il denso brano di Gen 22,1-19 può aver avuto origine storica per uno o l’altro dei due motivi. Sta di fatto che, per noi, l’educazione della coscienza di Abramo allo spossessamento di sé, rispetto al narcisismo egocentrico delle prime figure genesiache, è una grande opera di YHWH, che già fa intravedere il dono generoso del suo figlio Gesù. Egli sarà la discendenza numerosa e fonte di benedizione di cui l’angelo, in un brano di espansione successiva, descrive i contorni esaltanti (vv. 15-19).

Oggi siamo avvertiti che non si deve esaltare il sacrificio, ma “sacrificare il sacrifico” (cf. M. Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Milano 2017). Non siamo sotto il giogo di una religione del do ut des, che sacrifica il desiderio, ma nel regime del dono generoso di sé, non avviluppato nel narcisismo che si sacrifica per essere certo che qualcuno lo ricompenserà (fantasma sacrificale).

Abramo giunge alla maturità del suo cammino di fede, attraverso una prova che non sapeva provenire dal Signore. Ma vi giunge non perché in vista e nella certezza di una ricompensa, ma grazie allo spossessamento di sé al quale viene progressivamente educato da YHWH. Questo sembra essere il fine per il quale la Genesi è stata messa per iscritto: l’educazione divina della coscienza di Abramo (e dell’uomo) da parte di YHWH (A. Wènin).

Il Regno in potenza

Al primo insegnamento/didaskein (Mc 8,31; non “profezia/annuncio/predizione”) circa la sua sorte dolorosa a cui seguirà la risurrezione (8,31) e al severo rimprovero nei confronti di Pietro recalcitrante alla prospettiva, Gesù espone una serie di condizioni radicali richieste a chi voglia essere suo discepolo e seguirlo (8,34–9,1).

Gesù conclude le sue parole con una misteriosa affermazione. Diceva loro: «In verità vi dico: vi sono alcuni qui presenti, che non morranno senza aver visto il regno di Dio venire con potenza» (9,1). G. Perego tenta una spiegazione: minaccia contro «gli antagonisti del Vangelo (e della comunità di Marco), che rimarranno spiazzati alla venuta del Regno in tutta la sua potenza»?; «promessa rivolta a quanti seguono il Maestro (e sono membri della comunità) che si propone di incoraggiarli di fronte alle radicali conseguenze della sequela appena pronunciate»?; «riferimento alla parusia, ritenendola, come molti suoi contemporanei, imminente e legata alla sua morte» (cf. il nesso tra 9,1 e 13,26; 14,62)?; «prefigurazione della caduta di Gerusalemme del 70 d.C.»?; «in un modo o nell’altro, la dichiarazione punta sul fatto che alcuni contemporanei avranno modo di constatare la venuta del Regno in potenza e questo sarà motivo di giudizio per alcuni e conforto per altri. Non è da escludere un nesso con la scena successiva, nella quale Pietro, Giacomo e Giovanni sperimentano in prima persona la gloria del Figlio (9,2-13), o con la scena del primo giorno dopo il sabato (16,1-8) di cui la trasfigurazione è una prefigurazione (in fondo, è solo nel momento in cui la morte viene sconfitta che i discepoli avranno modo di constatare la presenza del Regno “in potenza”)».

Trasfigurato

Sei giorni dopo, Gesù prende con sé i tre discepoli fidati (che chiamerà a sé anche nel Getsemani, Mc 14,33) e, salito su un monte alto, «fu trasfigurato davanti a loro/metemorphōthē emprosthen autōn)», con le vesti che divennero bianche come nessun lavandaio potrebbe renderle sulla terra.

Sull’alto monte Gesù incontra il Padre nella solitudine e nella preghiera. Raggiunge fino al parossismo l’unità della sua volontà umana col disegno d’amore del Padre e con ciò che Gesù stesso ha voluto fin dall’inizio della sua vita. Tutta la sua persona (“vesti”), a partire dal suo volto, viene trasformata di struttura/forma, resa trasparente dal Padre alla sua realtà profonda di Figlio di Dio che vive tutt’uno con il disegno d’amore e di salvezza del Padre.

Gesù mostra per un momento all’esterno la dimensione infuocata della sua figliolanza divina tutta tesa a compiere il disegno della salvezza dei suoi fratelli. Parla con Elia e Mosè, rappresentanti dei Profeti e della Torah, scelti forse perché entrambi personaggi rifiutati dai nemici e dal loro stesso popolo (M. Gilbert).

Nella preghiera (anche se non nominata) dialogica intessuta delle Scritture sacre di Israele raccolte in quel tempo, Gesù legge il compimento doloroso ma salvifico della propria esistenza, una pro-esistenza fin dall’inizio. Vi aderisce completamente; per questo è reso dal Padre e si rende personalmente “trasparente” alla verità profonda della sua persona e della sua missione.

La piena comunione con Dio rende “bianchi”, “trasparenti”, col volto dolce e abbandonato di Teresa del Bambin Gesù, di Charles di Foucauld, di Giovanni XXIII, di Madre Teresa di Calcutta, di Giuseppe Dossetti e di Giorgio La Pira.

Ascoltatelo

Pietro vuol bloccare il momento magico con un selfie che eternizzi nel freezer della mente e del cuore “il peso/la gloria/kābôd” di Gesù, di cui ha intravisto la profondità abissale della sua figliolanza divina. La nube divina vela nel mentre che svela. La voce di Dio rivela quello che i discepoli avevano solo cominciato a intravedere: Gesù è il Figlio di Dio, l’Amato come Isacco/ “Egli sorride-sorriderà” (sempre!).

 «Ascoltate lui/Akouete autou», fa rimbombare la Voce. Solo lui!
E i discepoli, guardandosi attorno, «non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro».
Solo Gesù. Con loro.
Solo Gesù, il Maestro del cuore.
Con loro, con noi.
Il cammino.
Il traguardo e il fine.
Das Ziel. To telos.

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2 Commenti

  1. don Patrizio 24 febbraio 2018
    • Roberto Mela 16 marzo 2018

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