Il tempo sacramentale della Quaresima ci fa attraversare il deserto della nostra quotidianità per incontrare un volto, il Volto. Il volto di Dio rivela il suo cuore, la sua liberazione, la sua vita come pro-esistenza, vita estroflessa che sola è degna di essere vissuta in piena dignità anche dagli uomini.
Il cammino verso il volto e l’incontro col Dio della libertà è custodito e purificato quotidianamente da una legge di libertà, e dal sovvertimento dei nostri criteri valutativi con i quali illuminiamo le nostre scelte di vita.
La Quaresima è un cammino di custodia e di purificazione dell’incontro, libero da schiavitù e da svendite ragionieristiche.
Liberati dalla schiavitù
Seguendo i suggerimenti di uno specialista del libro dell’Esodo – Michelangelo Priotto –, possiamo notare che il blocco letterario di Es 19,1–40,38 è collocato spazialmente alla montagna del Sinai. Esso include il momento del dono dell’alleanza e della stipulazione dell’alleanza (19,1–24,11) e quello del dono della Dimora (24,12–40,38). All’annuncio dell’alleanza (19,1-9), seguono la teofania della natura (19,10-20), la teofania del Decalogo (19,21–20,17), la teofania del codice dell’alleanza (20,18–23,33) e la stipulazione dell’alleanza (24,1-11).
Dopo l’annuncio dell’alleanza e la teofania della natura, YHWH pronuncia le sue parole di vita, le Dieci Parole, il Decalogo del liberatore che mantiene in vita.
Nel prologo storico (20,1-2) decisivo e fondativo, ma spesso sorvolato dai lettori, YHWH ricorda all’interlocutore la sua opera preveniente e gratuita di salvezza.
YHWH si autopresenta a Mosè, rappresentante del popolo, non come un legislatore divino implacabile nella sua autorità insindacabile, ma come un partner che dialoga di persona con il favorito della sua bontà liberatrice.
YHWH è il Dio che appartiene al popolo e il popolo è legato al Dio che solo lo accompagna nella storia (“il tuo Dio”). “Ti ho fatto uscire/hôṣē’tîkā < yāṣā’” da una terra che sembrava ospitale all’inizio, ma che alla fine si è rivelata essere una “casa di schiavi/schiavitù/prigione/prigionia/bêt ‘ăbādîm”, afferma YHWH a Mosè.
YHWH non vuole un popolo di adoratori che siano schiavi di uomini e di Dio stesso. Egli desiderare un dialogo consapevole e rispettoso delle unità di grandezza in gioco, ma che sia aperto alla libera confidenza proprio del popolo che è suo «figlio unigenito» (Es 4,22-23). Il contenuto della teofania del decalogo di YHWH è definito come “parole/debārîm”, e non, ad esempio, comandi, norme, precetti ecc., come spesso altrove. Sono espressione dell’intimo della persona divina che si rivolge a un “tu” dotato di affettività e di capacità dialogica libera e dignitosa.
Dieci Parole
YHWH ha fatto uscire dalla schiavitù, ha liberato il suo popolo, suo figlio unigenito. Proprio per questo ora gli rivolge parole di sapienza che si appellano alla fede e alla dignità umana di chi ha sperimentato di essere stato fatto oggetto di grazia la quale non ha annientato paternalisticamente la dignità altrui, ma l’ha esaltata ed elevata alla possibilità di dialogare in libertà filiale.
Varie sono parole apodittiche, non motivate a ogni piè sospinto. Non per questo sono diktat irragionevoli e capricciosi di un dio lontano e irraggiungibile, un re mesopotamico all’ennesima potenza…
YHWH rivolge al suo popolo parole che sintetizzano “divinamente” (dieci) l’unico percorso che abbraccia il meglio del sentire umano, il meglio di quello che l’uomo sente battere nel cuore come retto e giusto per custodire una vita personale e una convivenza umana degna di tale nome, in quanto aperta a un Dio liberatore e amante dell’uomo!
Custodia della libertà
Le Dieci Parole di YHWH sono divieti assoluti (lō’ + yiqtol) e imperativi positivi precisi a custodia della libertà acquisita per grazia. Segnali di Alta Via, segnali salvavita, paletti per custodire la libertà e mantenersi sulla via della vita.
Sono segnali comprensibili solo nel contesto più ampio di amore e di liberazione, di attenzione premurosa di YHWH verso il suo popolo. Per esso egli ricerca il meglio della vita, il mantenimento di una libertà libera da idoli falsi, prodotti della volontà di potenza dell’uomo, prodotti autogiustificativi del proprio libertinaggio, idoli manipolabili. Una libertà libera dai propri bisogni trasformati in desideri che caracollano allo stato brado, incuranti del bene altrui e di quello comunitario. Parole che custodiscono dall’onnipotenza onnivora che non lascia spazio all’altro, all’Altro, ma che vuole tutto dominare, tutto consumare, tutto sottomettere alla propria delirante onnipotenza narcisistica.
Liberi per
Le Dieci Parole custodiscono una libertà per, una libertà costruttiva e comunionale. Libertà dagli idoli, libertà per uno spazio gratuito di celebrazione della vita e del Dio della creazione e della redenzione. Parole custodi della vita altrui, dei beni personali e concreti appartenenti al proprio prossimo. Parole che promuovono il rispetto dell’unione personale realizzata nella vita coniugale, parole che rinforzano la sobria veracità che non distorce la fiducia sociale e non invoca a sproposito l’avallo della divinità nei comuni affari della vita quotidiana. Parole liberanti per tutti gli esseri umani, per gli stessi animali e tutto il creato nel suo insieme.
Parole di gelosia
Le Dieci Parole escono dal cuore di un “Dio geloso/’ēl qannā’ ” (v. 5), non perché animato da un falso amore fusionale e accaparrativo, ma perché mosso da un amore delicato e dedicato, attento del vero bene dell’altro, un amore impegnato e costoso. Un amore che “ci tiene” all’altro come ad un valore impagabile e insostituibile, per cui vale la pena “metterci la faccia” per sempre, al di là della qualità e della continuità nella corrispondenza.
La gelosia è il volto impegnato dell’amore. È gelosia “divina”, non la gelosia malata di chi è invidioso della stessa persona “amata”, incapace di valorizzare la sua crescita libera e autorealizzantesi nel dono generoso di sé e nell’apertura fiduciosa al contesto ampio delle relazioni umane.
Chi va contro l’amore vero attira su di sé una severa lezione che è punizione a se stessa, con esiti intergenerazionali, non tanto esito dell’azione di un Dio cattivo, frustrato e vendicativo (al di là del dettato biblico da ben comprendere).
La lezione ci sarà, ma non sarà neanche lontanamente paragonabile al bene di cui l’uomo gode nell’amare nella verità: duecentocinquanta volte superiore (è questo rapporto che colpisce la fantasia dell’uomo orientale: quattro a mille!).
Il Decalogo: dieci “parole” di libertà, di vita, di custodia, di costruzione positiva. Un percorso innovativo per l’elaborazione di un’umanità integrale, aperta al suo creatore e redentore.
Il Dio degli ebrei e dei cristiani è un Dio di amore e di libertà. Sorride soddisfatto ai passi di coloro che “crescono” nel loro essere liberi da e liberi per. Ci sta bene insieme con loro. Gli piace abitare fra di loro e dentro di loro, all’interno del suo figlio unigenito (Es 4,22-23). È il suo santuario preferito.
L’incidente del tempio
Nella prima del tre pasque che, secondo il Vangelo di Giovanni e a differenza dei sinottici, trascorre a Gerusalemme, Gesù vive l’incidente del tempio (J. Zumstein), più tradizionalmente conosciuto come “La purificazione del tempio”.
La menzione delle varie feste giudaiche caratterizza il Vangelo di Giovanni e, con un senso più o meno pericolosamente sostitutivo, qualche autore ne fa diventare – indebitamente – il principale elemento strutturale del IV Vangelo (cf. R. Infante).
Sta di fatto che Gv presenta l’incidente del tempio, la richiesta di un segno e la parola sul tempio – elementi posti dai sinottici nell’ambito della passione – all’inizio della vita pubblica di Gesù. Assieme all’episodio delle nozze di Cana (Gv 2,1-12), l’incidente del tempio segna l’inizio della rivelazione di Gesù, dapprima in un ambito amichevole e poi in uno segnato dall’ostilità. Il fatto del suo collegamento all’atmosfera della passione, fa dell’episodio un anticipo della sorte finale di Gesù e l’allusione allo “scioglimento” e alla “risurrezione” del tempio diventa, nell’anamnesi pasquale dei discepoli, un annuncio della passione, croce e risurrezione di Gesù.
L’interpretazione postpasquale è indispensabile per comprendere la persona e la vicenda di Gesù, ma è possibile proprio grazie allo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù risorto.
Liberazione dello spazio
Con un gesto profetico simbolico – che con ogni probabilità non dovette assumere proporzioni enormi –, con una frusta fatta di corde Gesù scaccia dall’ampia “zona templare/to hieron” (vv. 14.15) “tutti/pantas”. A livello grammaticale si può intendere il v. 15 nel senso che egli scacciò cioè (con l’apposizione posta al maschile che prevale sul neutro) le pecore e i buoi, rovesciando alcuni tavoli dei cambiavalute con le loro monete di scambio (monete romane con il siclo di Tiro, l’unico ammesso per comperare le offerte per i sacrifici). Gesù non caccia le persone, come è invece espressamente dichiarato nei sinottici.
Gesù intima pure ai venditori di colombe (l’offerta dei poveri) di portare fuori tutti gli animali rinchiusi nelle gabbiette, accompagnando il comando con un rimprovero biblico (Is 56,7) – fatto però autorevolmente in prima persona –, quello di strumentalizzare l’adorazione del Padre per speculazioni lucrative.
La purificazione del culto e la liberazione di uno spazio nuovo potrebbe essere la prima delle due interpretazioni date all’incidente del tempio (vv. 14-17). Altri vi vedono la conclusione escatologica del tempio attuale, oppure la fine del culto sacrificale ed espiatorio o il suo miglioramento, con l’ampliamento della zona sacra a tutta l’area templare, e non proprietà esclusiva del “santuario/naos” in senso stretto.
L’anamnesi pasquale dei discepoli interpreta l’episodio come un annuncio profetico della morte di Gesù a causa dello “zelo” per la casa del Padre che lo ha inviato. Il testo esplicativo tratto dal Sal 69,10, salmo del giusto sofferente, era stato fin dalle origini della Chiesa postpasquale riferito al destino del Cristo crocifisso.
Il nuovo “naos”
Nei vv. 18-22 viene offerta una seconda interpretazione dell’incidente del tempio. “I giudei” – in questo passo le autorità templari – richiedono a Gesù un segno giustificativo della sua autorità. Questo è un segno di incredulità, in quanto vuol sottomettere l’autorità divina alla verifica umana.
Gesù risponde alla domanda con un imperativo (e quindi non con una parola posta sulle labbra degli avversari come avviene nei sinottici!): “Sciogliete questo santuario/lysate ton naon touton”, a cui segue un annuncio autorevole: “e in tre giorni lo risusciterò/kai en trisin hēmerais egerō auton”.
Il vocabolario scelto, la tempistica dell’incidente e la menzione del “terzo giorno” alludono alla morte e risurrezione di Gesù. Con uno dei classici esempi di “fraintendimento” presenti nel vangelo di Giovanni, le autorità religiose templari ricordano come il santuario materiale sia in stato di ristrutturazione ampliativa e migliorativa da ben 46 anni (oikodomēthē è un aoristo complessivo). I lavori intrapresi da Erode il Grande nel 19/18 a.C. si conclusero di fatto solo nel 63/64 d.C., appena sei anni prima della sua distruzione completa ad opera delle truppe romane. Per i giudei la distruzione del tempio era un segno escatologico di punizione per l’incredulità.
L’intrusione letteraria dell’autore stesso – e non una citazione biblica – fornisce un commento esplicativo al fraintendimento dei giudei creato da Gesù con la sua parola sul santuario.
Il fraintendimento/Missverständniss permette a Gesù di esplicitare e approfondire la sua rivelazione. Gesù intendeva parlare del “santuario/naos” del (= “che è”, genitivo epesegetico) proprio corpo. L’autore finale del Quarto Vangelo riporta la seconda anamnesi pasquale delle parole di Gesù attuata dai discepoli. Solo dopo la Pasqua, e con l’aiuto ermeneutico dello Spirito, è infatti possibile comprendere la parola di Gesù e credere in essa e alla Scrittura, ormai poste dal Vangelo di Giovanni sullo stesso livello.
Il “naos” filiale
Certamente Gesù non intendeva attuare un gesto rivoluzionario in qualità di zelota (con buona pace di Brandon), cosa che lo avrebbe condotto immediatamente all’arresto. Per Gv la causa scatenante dell’arresto di Gesù fu la rivivificazione di Lazzaro, operata da lui alla fine della sua vita pubblica (cf. Gv 11,1-44; 11,53; 11,57; 12,10-11).
Probabilmente Gesù non voleva nemmeno solo purificare l’area templare – in cui si svolgevano le attività previste dalla Scrittura e dalla sua tradizione esplicativa come connesse ai sacrifici animali che lì venivano offerti – e purificare il culto con una condanna della perversione religiosa lì perpetrata.
L’intenzione del gesto profetico e il senso profondo pronunciate sul naos in quel momento furono comprese nella loro pienezza solo dopo la Pasqua.
L’incidente del tempio è un momento di rivelazione della persona di Gesù, l’Inviato del Padre. Il suo corpo, la sua persona che è passata attraverso il crogiuolo della passione, morte e risurrezione, è ora il naos/santuario definitivo, escatologico. Chi viene inserito esistenzialmente nella persona di Gesù e nella sua offerta generosa e redentrice entra sicuramente in contatto col Padre, scopo finale di ogni preghiera e di ogni eventuale offerta sacrificale attuata in un tempio terreno che raccoglie la comunità.
Il corpo glorioso di Gesù, unito alla sua Sposa in un connubio eterno e fecondo, è ora l’unico spazio vitale, l’unico Lebensraum, in cui si incontrano la rivelazione del cuore del Padre e la sua volontà d’amore sui suoi figli e la risposta adorante e amorosa dei figli nello Spirito del Figlio.
Il corpo risorto di Gesù è la Parola definitiva del Padre, il sigillo riassuntivo delle Dieci Parole che custodiscono la libertà e la vita degli uomini.
In Gesù si incontra la vita, si custodisce la vita, si entra in contatto con il Padre nella preghiera, cioè l’apertura generosa di sé a Colui che è il Massimo Bene per l’uomo.
Gesù è la vera preghiera, la vera libertà.
È lui il naos nuovo e definitivo, in cui ci viene incontro il Padre amante della vita.