IV Pasqua: Il Pastore bello

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Pasqua significa passaggio. Ma in che senso lo è? Che cosa intendiamo indicare con questo termine? Quale passaggio dobbiamo fare? Da dove partire? E verso dove intendiamo andare? Chi intende rivivere la pasqua di Gesù non può non entrare in questo dinamismo di ricerca e di sequela.

Meditando le varie letture bibliche, cercheremo di approfondire questo discorso. Ancora una volta la Chiesa, nella sua intenzione pedagogica, ci invita a seguire le orme di Gesù: orme che sono certamente illuminate dalla luce del risorto Signore, ma sono pur sempre assai impegnative.

 

1. Il racconto lucano degli Atti degli apostoli ci rende edotti del fatto che la parola di Dio, apertamente rifiutata dai giudei, viene invece gioiosamente accolta dagli ambienti pagani. Si tratta di un “passaggio” epocale, che segna definitivamente non solo il corso dei viaggi missionari dell’apostolo Paolo ma anche gli sviluppi della storia della Chiesa.

Paolo e Barnaba sono nel bel mezzo del loro primo viaggio missionario e si preoccupano di evangelizzare il mondo giudaico, entrando nella sinagoga di Antiochia di Pisidia per ascoltare la proclamazione della Parola e per annunciare Gesù quale discendente di Davide: «Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù» (13,23).

Ma tutto il discorso di Paolo viene tralasciato dalla liturgia odierna, mentre si dà molto spazio alle notizie relative all’ingresso dei pagani nella sfera del cristianesimo e alla conseguente reazione negativa dei giudei. Costoro, nel constatare l’apertura dei pagani alla predicazione di Paolo, «furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo».

Il Vangelo ormai si apre alle nazioni e queste trovano il loro approdo nella verità portata da Gesù di Nazaret. Luca si sente in dovere di dare massimo risalto a ciò che sta accadendo e vi riconosce non tanto un merito di Paolo quanto piuttosto un disegno provvidenziale di Dio.

Allo sdegno dei giudei fa riscontro la gioia dei pagani, i quali «si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero».

Il racconto raggiunge un apice di drammaticità quando Paolo e Barnaba, provocati dalla persecuzione scatenata dai giudei, «scossa contro di loro la polvere dei piedi» si diressero verso Iconio.

2. Il salmo responsoriale è un’acclamazione al Signore che si eleva dal tempio ad opera dei leviti, addetti al culto del santuario: «Acclamate al Signore, voi tutti della terra, servite il Signore nella gioia, presentatevi a lui con esultanza».

Degno di nota è il ritornello che, da solo, esprime adeguatamente la fede che anima l’assemblea orante, una fede che vuole essere condivisa e partecipata dentro l’intera comunità: «Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida». Qui si palesa la consapevolezza che ha sempre accompagnato il popolo eletto: quella di essere la proprietà speciale di JHWH (cf. Es 19,3).

La fede del popolo orante trova qui altre espressioni non meno incisive: «Riconoscete che il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo». Qui si allude chiaramente ad una duplice azione di Dio nei confronti del suo popolo: quella della creazione e quella della elezione.

Altra espressione della fede del popolo è quella con la quale termina il salmo responsoriale: «… buono è il Signore, il suo amore è per sempre, la sua fedeltà di generazione in generazione». Questa è un’espressione classica della fede di Israele, che richiama quella più solenne di Esodo 34,5ss.

3. Dal libro dell’Apocalisse la Chiesa ci offre una pagina che, con l’ausilio di alcuni simboli molto forti, descrive la storia dell’umanità; una storia nella quale si intrecciano violenze e promesse, che è e rimane un mistero indecifrabile fino a quando essa non viene interpretata alla luce della parola di Dio. È questa l’impressione che, sulle prime, desta il libro dell’Apocalisse in coloro che si accingono a leggerlo senza avere una chiave di interpretazione.

Ma chi sono costoro, che formano «una moltitudine immensa» e portano «rami di palme nelle mani»? Abbiamo qui una chiara allusione alla liturgia della festa delle capanne, durante la quale il popolo entrava in corteo nel recinto del tempio agitando palme e cantando il salmo 118. La domanda, che viene formulata da uno dei vegliardi, è anche la nostra: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?» (Ap 7,13).

È possibile identificare queste persone se ricordiamo che questo libro è stato scritto per una comunità che stava passando attraverso la grande prova delle persecuzioni, manifestazione e preludio della grande prova escatologica, di cui aveva parlato il profeta Daniele (12,1ss) e che Gesù stesso aveva preannunciato (cf. Mt 24,21).

È difficile immaginare come le vesti lavate con il sangue possano uscire candide; ma questo è esattamente l’effetto miracoloso di questo sangue: è il sangue dell’Agnello, cioè del Cristo immolato per la salvezza dell’intera umanità: un sangue che ha il potere di purificare e di ridare la grazia e la gioia del perdono a tutti i peccatori.

Una volta lavati, cioè purificati, costoro possono stare davanti al trono di Dio e prestargli servizio giorno e notte nel santuario. Non più però nella necessità di vivere sotto le tende (come facevano gli ebrei durante la festa delle capanne), ma nella situazione di chi ormai vive nella tenda stessa di Dio, cioè in Gesù, che del nuovo popolo di Dio è tenda e pastore allo stesso tempo.

4. L’accenno a Gesù pastore della lettura precedente trova uno sviluppo più che opportuno nella pagina evangelica. È Gesù stesso che, del pastore, presenta alcune caratteristiche con le quali delinea il suo autoritratto.

Anzitutto, «la mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono»: in linea con il linguaggio biblico, l’evangelista intende dire che la conoscenza che unisce Gesù e le sue pecore non è una conoscenza generica, ma è una conoscenza amorosa. Possiamo dire con tutta verità che solo chi l’ama può dire di “conoscere” una persona.

Da questa reciproca “conoscenza” deriva il fatto che le sue pecore ascoltano la sua voce e lo seguono: ascolto e sequela sono le due facce della stessa medaglia.

Ma vi è una nota ancor più impegnativa: «Io do loro la vita eterna»: qui Gesù offre una vera e propria profezia della sua pasqua. Un amore che non è oblativo finirà col diventare ablativo.

Questo dono di sé che Gesù fa per le sue pecore trova una conferma dall’alto: «Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre». Ogni sua parola Gesù la dice in piena sintonia con il Padre; parimenti ogni sua azione Gesù la compie in pieno accordo con il Padre, perché «Io e il Padre siamo una cosa sola».

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