M.L. King: il “sogno” infranto

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Sono trascorsi 50 anni da quel 4 aprile 1968 quando a Memphis, capoluogo della contea di Shelby nello Stato del Tennessee, fu ucciso Martin Luther King. Era giunto in questa città per organizzare un corteo nei giorni successivi.

Nel tardo pomeriggio di quel giorno, mentre dal balcone del secondo piano del Lorraine Motel dove era alloggiato, stava parlando alla folla, alle 18,01 fu centrato alla testa da un colpo di fucile di precisione.

Trasportato d’urgenza al St. Joseph’s Hospital, i medici costatarono un irreparabile danno cerebrale e non poterono che costatarne la morte. Erano le 19,05.

La salma fu inumata nel Southview Cemetery di Atlanta, capitale dello Stato federale della Georgia, dove ancor oggi riposa.

Con lui si è spenta così una delle voci più profetiche degli Stati Uniti, la cui figura viene accostata per la sua attività pacifica a quella di Gandhi, leader della non violenza, di cui King era un appassionato studioso e ammiratore.

Martin Luther King con Jesse Jackson prima della sua ultima apparizione per rivolgere il suo discorso agli operatori della sanità in sciopero il 4 aprile 1968, qualche ora prima del suo assassinio (AP Photo/Charles Kelly)

Martin Luther King con Jesse Jackson prima della sua ultima apparizione per rivolgere il discorso agli operatori della sanità in sciopero a Memphis il 4 aprile 1968, qualche ora prima del suo assassinio (AP Photo/Charles Kelly)

Luther King giovane

Era nato ad Atlanta il 15 gennaio 1929, secondogenito di Martin Luther King senior di origine africana-irlandese, pastore della Chiesa Battista.

Alla nascita era stato chiamato Michael King¸ nome che suo padre gli cambiò in Martin Luther King durante un viaggio in Terra Santa nel 1934.

Ancor giovane, fu consigliato dal padre a diventare pastore battista. Nonostante l’iniziale ritrosia, iniziò il suo percorso di studi religiosi nell’autunno del 1948.

Nel 1950 assistette con profitto ad una conferenza sul Mahatma Ghandi. L’8 maggio 1951 conseguì il baccalaureato in teologia e il 5 giugno 1955 il dottorato in filosofia.

In compagnia di Ralph Abermathy e di altri attivisti per i diritti civili della comunità afroamericana, fondò la Southern Christian Leadership Conference con l’obiettivo di organizzare in maniera più efficace il movimento e dare un’autorità sicura di riferimento per i diritti, unificando i vari gruppi di neri che, in precedenza, facevano capo alle singole parrocchie della città.

Il suo impegno civile è condensato nella Letter from Birmingham Jail (Lettera dalla prigione di Birmingham), scritta nel 1963, e in Strength to love (La forza di amare) che costituiscono un’appassionata enunciazione della sua indomabile crociata per la giustizia. Molte volte fu oggetto di aggressioni e minacce. Nel 1964 ricevette il premio Nobel per la pace.

King fu riconosciuto apostolo instancabile della resistenza nonviolenta, eroe e paladino dei rifiutati e degli emarginati, «redentore dalla faccia nera». Per questa causa egli si espose sempre in prima linea per abbattere nella società statunitense degli anni 50 e 60 ogni sorta di pregiudizio etnico. Predicò l’ottimismo creativo dell’amore e della resistenza nonviolenta, come la più sicura alternativa sia alla rassegnazione passiva sia alla reazione violenta preferita da altri gruppi di colore, come ad esempio i seguaci di Malcolm X.

Il suo pensiero

Luther King considerava l’egoismo come qualcosa di distruttivo per l’essere umano. Affermava che chiunque poteva essere grande, anche senza istruzione o competenze: bastava un animo delicato. Vedeva nel continuo progresso l’assenza dell’animo umano che diventava piccolo di fronte alle sue opere gigantesche. A suo parere, la ricchezza si poteva ottenere soltanto se la povertà avesse cessato di esistere. Affermava che se uno non era pronto a morire per qualcosa in cui credeva, non avrebbe potuto essere «pronto a vivere» e che le qualità di un uomo si mostrano solo quando deve affrontare una situazione difficile; solo il coraggio fa vincere la paura.

King si espresse in maniera critica sia verso il capitalismo selvaggio sia verso il socialismo reale, presenti in URSS e in altri paesi. Nei suoi sermoni, in particolare quello dedicato alla giustizia e riportato integralmente nel libro La forza di amare (casa editrice SEI), propugnò la necessità di riconoscere il bene e il male in entrambi i sistemi economici che si fronteggiavano durante la guerra fredda.

Partendo dalla convinzione che Dio desidera liberare dal peccato la stessa struttura sociale ed economica, sostenne che il capitalismo è fonte di libertà e di ricchezza per l’uomo ma, al tempo stesso, anche fonte di impoverimento spirituale perché produce materialismo e consumismo sfrenato, così come il comunismo sovietico, nato da giuste esigenze di eguaglianza, ma che distruggeva la libertà individuale e annientava l’uomo con i suoi mezzi crudeli e aberranti.

Martin Luther King

Martin Luther King al Lincoln Memorial in Washington durante il suo discorso “I have a dream”, il 28 agosto 1963
(AP Photo/File)

“I have a dream”

King credeva nel sogno della fratellanza umana tra i popoli della terra, nella cosiddetta beloved community (comunità d’amore) che, ai suoi occhi, costituiva la «sintesi creativa» della tesi (capitalismo) e dell’antitesi (comunismo), motivata da una profonda fede in Gesù Cristo.

Fra le tante polemiche che dovette sostenere, una nacque dalla sua introduzione al libro Negroes With Guns (Neri Armati) di Robert Williams, un residente a Cuba, che trasmetteva regolarmente tre volte la settimana su onde corte messaggi ritenuti rivoluzionari e insurrezionali. Ma King rimase sempre coerente con la sua scelta di rifiuto totale di ogni forma di strumento violento.

Oggi, a 50 anni di distanza dal suo assassinio, ci pare opportuno rileggere il suo famoso discorso tenuto il 28 agosto 1963 durante la marcia per il lavoro e la libertà davanti al Lincoln Memorial di Washington nel quale scandì a più riprese la frase diventata simbolo e ragione di tutti i suoi ideali I have a dream (io ho un sogno) in cui esprimeva il desiderio appassionato che coltivava nel cuore, ossia che ogni uomo fosse riconosciuto uguale ad ogni altro, con gli stessi diritti e le stesse prerogative.

È un discorso di estrema importanza e valido anche per i nostri tempi in cui le diseguaglianze, i rifiuti, le esclusioni e i muri tra i popoli, anziché diminuire, tendono a crescere. La voce di King, soffocata nel sangue, grida ancora più forte che mai al mondo I have a dream.

Di seguito, il testo integrale di quel celebre discorso.

«Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà nella storia del nostro paese. Cento anni fa un grande americano, alla cui ombra ci leviamo oggi, firmò il Proclama sull’emancipazione. Questo fondamentale decreto fu come un grande faro di speranza per milioni di schiavi negri che erano stati bruciati sul fuoco dell’avida ingiustizia. Venne come un’alba radiosa a porre termine alla lunga notte della cattività.

Ma cento anni dopo, il negro ancora non è libero; cento anni dopo, la vita del negro è ancora purtroppo paralizzata dai ceppi della segregazione e dalle catene della discriminazione; cento anni dopo, il negro ancora vive su un’isola di povertà solitaria in un vasto oceano di prosperità materiale; cento anni dopo, il negro langue ancora ai margini della società americana e si trova esiliato nella sua stessa terra.

Per questo siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso, siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole della Costituzione e la Dichiarazione d’indipendenza, firmarono una “cambiale” della quale ogni americano sarebbe diventato erede. Questa “cambiale” permetteva che tutti gli uomini, sia i negri sia i bianchi, avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità.

È ovvio, oggi, che l’America è venuta meno a questa “cambiale” per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: “fondi insufficienti”. Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, quando la presenteremo, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia.

Siamo anche venuti in questo luogo per ricordare all’America l’urgenza appassionata dell’adesso.

Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino o che si trangugi il tranquillante del gradualismo.

Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia; questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia; questo è il momento di elevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza; questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine per questa nazione se non valutasse appieno l’urgenza del momento.

Questa estate soffocante della legittima impazienza dei negri non finirà fino a quando non sarà stato raggiunto un tonificante autunno di libertà e di uguaglianza.

Il 1963 non è una fine, ma un inizio. E coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno tranquilli, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo.

Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia.

Ma c’è qualcosa che debbo dire alla mia gente che si trova qui sulla tiepida soglia che conduce al palazzo della giustizia. In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste.

Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi risponde alla forza fisica con la forza dell’anima.

Questa meravigliosa nuova militanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca, perché molti dei nostri fratelli bianchi, come prova la loro presenza qui oggi, sono giunti a capire che il loro destino è legato al nostro destino, e sono giunti a capire che la loro libertà è inestricabilmente legata alla nostra libertà. Questa offesa che ci accomuna, e che si è fatta tempesta per le mura fortificate dell’ingiustizia, dovrà essere combattuta da un esercito di due razze. Non possiamo camminare da soli.

E, mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che domandano a coloro che chiedono i diritti civili: “Quando vi riterrete soddisfatti?”. Non saremo mai soddisfatti finché il negro sarà vittima degli indicibili orrori a cui viene sottoposto dalla polizia.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri corpi, stanchi per la fatica del viaggio, non potranno trovare alloggio nei motel sulle strade e negli alberghi delle città. Non potremo essere soddisfatti finché gli spostamenti sociali davvero permessi ai negri saranno da un ghetto piccolo a un ghetto più grande.

Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono“Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non potranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente.

Non ho dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che, in qualche modo, questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia.

Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!

Io ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno abbassate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i sentieri tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli esseri viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l’America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e colle del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: “Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente”».

Martin Luther King

Bayard Rustin punta il dito mentre parla con William Lucy dujrante la marcia da loro organizzata a Memphis l’8 aprile 1968 in onore di Martin Luther King (AP Photo)

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