Firmata il 19 marzo e presentata il 9 aprile, l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, risponde all’obiettivo di «far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (n. 2). Ma perché richiamarla ora? Da dove nasce l’urgenza riconosciuta dal papa?
I testi magisteriali maggiori già editi hanno motivazioni assai evidenti. L’enciclica Lumen fidei completa il percorso iniziato da Benedetto sulle tre virtù teologali. L’esortazione apostolica Evangelii gaudium è il programma di riforma del papato di Francesco. L’enciclica Laudato si’ dà forma al tema ambientale all’interno della dottrina sociale della Chiesa. L’esortazione apostolica Amoris laetitia conclude il percorso del duplice sinodo sulla questione della famiglia oggi.
Gaudete et exsultate da dove arriva? Chi ha sollevato l’emergenza di una rinnovata chiamata alla santità? Tutto sembra indicare che essa nasca direttamente dalla pratica pastorale, da quell’avvertire «l’odore delle pecore» che qualifica il pastore attento. Viaggi, contatti, problemi, predicazioni, saluti: tutto quello che alimenta il contatto del papa con la gente, con il popolo santo di Dio, diventa materiale capace di identificare emergenze non ancor formulate, domande non ancora tematizzate.
L’originalità non è quindi legata al tema o al suo sviluppo, né alla pur apprezzabile coerenza fra riforma strutturale e riforma spirituale, quanto all’intelligenza della pastorale che, nel molto materiale che ha a sua disposizione, sa indicare l’elemento più rilevante e la necessità più urgente.
Il fiuto del pastore
Questo permette di archiviare le esigenze di una presentazione sistematica, di una consapevole recensione del dibattito teologico e dei criteri che regolano il riconoscimento di santità nella Chiesa.
Si parte direttamente dal Vaticano II e dall’universale chiamata alla santità nella Chiesa e dalla sua ricezione della coscienza dei credenti (cf. Lumen gentium, n. 40). Intere stagioni, dai primi secoli fino all’età tridentina, e infinite discussioni vengono archiviate con il gesto del pastore che non le ignora, ma che parte dall’imperativo attuale: «non avere paura della santità. Non ti toglierà, forze, vita e gioia» (n. 32).
Due esempi possono illustrare la cosa: il dibattito opere e grazia, il richiamo alla dimensione comunitaria.
La santità è, in radice, sempre un dono di grazia. Non siamo giustificati dalle nostre opere, ma dalla grazia. Da Agostino a Crisostomo, da Basilio al sinodo di Orange, fino al concilio di Trento e al Catechismo della Chiesa cattolica: «Nei confronti di Dio, in senso strettamente giuridico, non c’è merito da parte dell’uomo. Tra lui e noi la disuguaglianza è smisurata» (n. 2007) (nn. 52-55).
Il custode della santità è il popolo di Dio e la dimensione comunitaria è ciò che la vita consacrata apporta come segno (nn. 141-143), accanto alla famiglia e ad ogni dimensione collettiva.
I 177 numeri sono distribuiti in cinque capitoli: la chiamata alla santità; due sottili nemici della santità (gnosticismo e pelagianesimo); alla luce del maestro (commento alle beatitudini); alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale; combattimento, vigilanza e discernimento. Il tratto meditativo privilegia l’esortazione alla normatività, l’incoraggiamento alla novità, la suggestione alla sistematicità.
Testo e tradizioni spirituali
Rimarrà probabilmente come cifra complessiva dell’esortazione l’invito alla santità quotidiana, alla santità del popolo di Dio. «Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”» (n. 7).
Facile ritrovare nella memoria della letteratura spirituale il parallelo al n. 14 sulla santità possibile a tutti: preti, religiosi, vescovi, sposati, lavoratori, genitori, nonni ecc. Francesco di Sales al cap. 3 di Filotea ci ricorda: «La devozione deve essere vissuta in modo diverso dal gentiluomo, dall’artigiano, dal domestico, dal principe, dalla vedova, dal nubile, dalla sposa; ma non basta, l’esercizio della devozione deve essere proporzionato alle forze, alle occupazioni e ai doveri dei singoli».
Nella Chiesa vi sono tutti gli aiuti necessari alla santità: Parola, sacramenti, comunità, testimonianze ecc. Tutto quello che serve per assumere nella vita personale il riflesso della vita di Cristo e della sua rivelazione del Padre. Processo di assimilazione che tradizioni devote dei secoli passati indicano anche come «memoria dei misteri» della vita di Gesù (n. 20).
Sia la tradizione ignaziana che si concentra sui tempi (vita nascosta, vita pubblica, vicinanza ai poveri ecc.), sia in altre, come nella devozione al Sacro Cuore, in cui si fa memoria nel corso della giornata dell’infanzia a Nazaret al mattino, del Calvario al mezzogiorno, del costato trafitto al pomeriggio, del Getzemani alla sera.
La misura della santità è data dalla forza dello Spirito che assimila la nostra vita al Cristo. «Ciascun santo è un messaggio che lo Spirito trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo» (n. 21). «Voglia il cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita» (n. 24). «Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione» (n. 26).
Santità e missione si incontrano. Secondo il filosofo X. Zubiri, la vita non ha una missione, è una missione (espressione che Francesco ha applicato a sé diverse volte) (n. 28).
Allegri mistici
Se vi è una corrente spirituale privilegiata è quella mistica: da Bonaventura a Francesco, da Giovanni della Croce a santa Teresa d’Avila, da Charles de Foucauld al «pellegrino russo». Un cammino segnato da grande serietà e realismo sia verso di sé sia verso gli altri, attraversato da una salutare insoddisfazione e dalla verifica drammatica delle persecuzioni (n. 94). Con l’accompagnamento discreto ad un deposito di umorismo cristiano (san Vincenzo de’ Paoli, san Filippo Neri) reso evidente dall’esplicita citazione della celebre preghiera attribuita a T. Moro: «Dammi Signore una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi Signore un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo per rimettere le cose a posto…» (n. 126, nota 101).
Potrebbe essere accompagnata dall’ironia di C.S. Lewis in Le lettere di Berlicche, quando l’anziano demone scrive al giovane Malacoda di tentare l’uomo affidatogli, sopravvalutando «la vita interiore»: «Incoraggialo in ciò. Tienigli la mente lontano dai doveri più elementari, sospingendolo verso quelli più progrediti e spirituali. Aggrava quella caratteristica umana che è utilissima: l’orrore e la negligenza delle cose ovvie».
Violenza delle parole
I «due sottili nemici della santità» sono lo gnosticismo e il pelagianesimo. Il primo affida alla «conoscenza» la salvezza, verificando la santità dalla capacità di comprendere determinate dottrine, senza la dimensione della carità, una «mente senza Dio e senza carne», una «dottrina senza mistero» (nn. 36-46).
Il pelagiano sposta la salvezza solo sul fare e sulla volontà che lo sostiene: egli si sente superiore agli altri perché osserva determinate norme ed è irremovibile in un certo stile cattolico (n. 49).
In genere, ogni forma di dualismo, come contrapporre la vita contemplativa a quella attiva o il servizio alla preghiera o l’impegno sociale alla spiritualità, conduce alla malattia dell’anima.
Il testo indica, fra altre, due insufficienze: la diffamazione e la cecità davanti ai migranti. «Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace» (n. 87). «La diffamazione e la calunnia sono come un atto terroristico: si lancia la bomba, si distrugge, e l’attentatore se ne va felice e tranquillo. Questo è molto diverso dalla nobiltà di chi si avvicina per parlare faccia a faccia, con serena sincerità, pensando al bene dell’altro» (nota 73).
Quanto ai migranti, non si può svalutarli come tema secondario, come un’invenzione del papa e problema passeggero. «Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli» (n. 104).
Sine glossa
Il terzo capitolo è dedicato quasi per intero al commento delle beatitudini, in particolare secondo la redazione di Matteo (5,3-12). «Le beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio» (n. 65).
L’invito alla lettura si accompagna ad una modalità di approccio alla Scrittura che papa Francesco, commentando il cap. 25 di Matteo, specifica al n. 97: «Davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni o scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze, perché la misericordia è il “cuore pulsante del Vangelo”».
Fra le espressioni peculiari della santità nel mondo attuale il pontefice ricorda: la pazienza e la mitezza, la gioia e il senso dell’umorismo, l’audacia e il fervore, la dimensione comunitaria e la preghiera costante.
Nell’ambito della pazienza, ammonisce rispetto alle inclinazioni aggressive ed egocentriche, perché «anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui» (n. 115).
Ma niente giustifica «uno spirito inibito, triste, acido, melanconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza» (n. 122).
Il tema della gioia, della letizia e del sorriso è troppo evidente in tutti i testi di Francesco per essere sottovalutato. È il corrispettivo della forma drammatica e di estremo realismo con cui affronta l’orizzonte della vita cristiana. Non casuale la citazione della persona e del magistero di Paolo VI, in particolare l’esortazione apostolica Gaudete in Domino del 1975 (cf. nota n. 103).
Il maligno
L’ultimo capitolo è dedicato al combattimento, alla vigilanza e al discernimento. L’opera del discernimento, la maturità umana e spirituale che richiede, il suo nesso con la sapienza psicologica, ma soprattutto con la preghiera e il tempo paziente di Dio (nn. 166-177) è spesso evocata nel magistero di Francesco.
Più diretto, anche se non imprevisto, il riferimento al maligno. Il cammino di santità non deve fare solo i conti con la mentalità del mondo e le proprie fragilità, ma è anche «una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male» (n. 159). «Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva» (n. 160).
Il male – diceva Paolo VI – «non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa» (nota 121). È «un essere personale che ci tormenta» (n. 160), ma abbiamo dal Signore le armi e le forze per non esserne vittime.
E, per chiudere sulla vena ironico-umoristica già accennata, si può citare Lutero: «Il modo migliore per scacciare il diavolo… è di deriderlo e insultarlo, poiché egli non può sopportare la beffa» e Tommaso Moro: «Quello spirito orgoglioso… non può tollerare di venir canzonato».