Con l’entrata di Gesù nella gloria del Padre è cambiato qualcosa sulla terra?
Esteriormente nulla. La vita degli uomini ha continuato ad essere quella di prima: seminare e mietere, commerciare, costruire case, viaggiare, piangere e fare festa, tutto come prima. Anche gli apostoli non hanno ricevuto alcuno sconto sui drammi e le angosce sperimentati dagli altri uomini. Tuttavia qualcosa di incredibilmente nuovo è accaduto: sull’esistenza dell’uomo è stata proiettata una luce nuova.
In un giorno di nebbia, improvvisamente compare il sole. Le montagne, il mare, i campi, gli alberi del bosco, i profumi dei fiori, il canto degli uccelli rimangono gli stessi, ma diverso è il modo di vederli e di percepirli.
Accade anche a chi è illuminato dalla fede in Gesù asceso al cielo: vede il mondo con occhi rinnovati. Tutto acquista un senso, nulla rattrista, nulla più spaventa.
Oltre le sventure, le fatalità, le miserie, gli errori dell’uomo s’intravede sempre il Signore che costruisce il suo regno.
Un esempio di questa prospettiva completamente nuova potrebbe essere il modo di considerare gli anni della vita. Tutti conosciamo, e forse sorridiamo, degli ottantenni che invidiano chi ha meno anni di loro, si vergognano della loro età… insomma, volgono lo sguardo al passato, non al futuro. La certezza dell’Ascensione capovolge questa prospettiva. Mentre trascorrono gli anni, il cristiano è soddisfatto perché vede avvicinarsi il giorno dell’incontro definitivo con Cristo; è lieto di essere vissuto, non invidia i più giovani, li guarda con tenerezza.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi”.
Prima Lettura (At 1,1-11)
1 Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio 2 fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo.
3 Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. 4 Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre “quella, disse, che voi avete udito da me: 5 Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”.
6 Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. 7 Ma egli rispose: “Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, 8 ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”.
9 Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. 10 E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: 11 “Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo”.
Sul monte degli Ulivi è stato costruito dai crociati un piccolo santuario ottagonale, trasformato poi in moschea dai musulmani nel 1200. Spiegavo a dei pellegrini che quest’edicoletta oggi ha un tetto, ma originariamente era scoperta per ricordare l’ascensione di Gesù al cielo. Uno scanzonato del gruppo ha commentato: “Non aveva il tetto perché altrimenti, salendo, Gesù avrebbe battuto la testa”. Qualcuno non ha gradito la battuta dissacrante, ma qualche altro l’ha considerata una provocazione ad approfondire il significato del testo degli Atti.
A prima vista, il racconto dell’ascensione scorre fluido, ma quando si considerano tutti i particolari si comincia a provare un certo imbarazzo: sembra piuttosto inverosimile che Gesù si sia comportato come un astronauta che si stacca dal suolo, s’innalza verso il cielo e scompare oltre le nubi; ci sono inoltre alcune incongruenze difficili da spiegare.
Alla fine del suo vangelo, Luca – lo stesso autore degli Atti – afferma che il Risorto condusse i suoi discepoli verso Betania e “mentre li benediceva si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia” (Lc 24,50-53). Lasciamo perdere la strana annotazione sulla “grande gioia” (chi di noi è felice quando un amico parte?) e il disaccordo sulla località (Betania è un po’ fuori mano rispetto al monte degli Ulivi). Ciò che sorprende è la palese divergenza sulla data: secondo Lc 24 l’ascensione avviene nello stesso giorno di Pasqua, mentre negli Atti è collocata quaranta giorni dopo (At 1,3). Stupisce che lo stesso autore fornisca due informazioni contrastanti.
Se prendiamo per buona la seconda versione (quella dei quaranta giorni) viene spontaneo chiedersi: cosa ha fatto Gesù durante questo tempo? Sul Calvario non aveva promesso al ladrone: Oggi sarai con me in paradiso? Perché non è vi andato subito?
Le difficoltà elencate sono sufficienti per metterci in guardia: forse l’intenzione di Luca non è quella di informarci su dove, come e quando Gesù è salito al cielo. Forse (anzi, senza forse!) la sua preoccupazione è un’altra: vuole rispondere a problemi e sciogliere dubbi che sono sorti nelle sue comunità, vuole illuminare i cristiani del suo tempo sul mistero ineffabile della Pasqua. Per questo, da artista della penna qual è, compone una pagina di teologia utilizzando un genere letterario e delle immagini ben comprensibili ai suoi contemporanei. Il primo passo da compiere dunque è quello di comprendere il linguaggio impiegato.
Al tempo di Gesù l’attesa del regno di Dio è vivissima e gli scrittori apocalittici la annunciano come imminente. Si attendono: un diluvio di fuoco purificatore dal cielo, la risurrezione dei giusti e l’inizio di un mondo nuovo. Anche nella mente di alcuni discepoli si crea un clima di esaltazione, alimentata da alcune espressioni di Gesù che possono facilmente essere fraintese: “Non avrete finito di percorrere le città di Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo” (Mt 10,23); “Vi sono alcuni tra i presenti che non morranno finché non vedranno il Figlio dell’uomo venire nel suo regno” (Mt 16,28).
Con la morte del Maestro, però, tutte le speranze vengono deluse: “Noi speravamo che egli sarebbe stato quello che avrebbe liberato Israele” – diranno i due di Emmaus (Lc 24,21).
La risurrezione risveglia le attese: si diffonde fra i discepoli la convinzione di un immediato ritorno di Cristo. Alcuni fanatici, basandosi su presunte rivelazioni, cominciano addirittura ad annunciarne la data. In tutte le comunità si ripete l’invocazione: “Marana tha”, vieni Signore!
Gli anni passano, ma il Signore non viene. Molti cominciano ad ironizzare: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione” (1 Pt 3,4).
Luca scrive in questa situazione di crisi. Si rende conto che un equivoco sta all’origine della cocente delusione dei cristiani: la risurrezione di Gesù ha segnato sì l’inizio del regno di Dio, ma non la conclusione della storia.
La costruzione del mondo nuovo è soltanto iniziata, richiederà tempi lunghi e tanto impegno da parte dei discepoli.
Come correggere le false attese? Luca introduce nella prima pagina del libro degli Atti un dialogo fra Gesù e gli apostoli.
Consideriamo la domanda che questi pongono: quando giungerà il regno di Dio? (v. 6). È la stessa che, alla fine del secoloI, tutti i cristiani vorrebbero rivolgere al Maestro. La risposta del Risorto, più che ai Dodici, è diretta ai membri delle comunità di Luca: smettetela di disquisire sui tempi e sui momenti della fine del mondo, questi sono conosciuti solo dal Padre. Impegnatevi piuttosto a portare a compimento la missione che vi è stata affidata: essere miei testimoni “a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (vv. 7-8)!
A questo dialogo fa seguito la scena dell’ascensione (vv. 9-11).
Gesù e i discepoli sono seduti a mensa (At 1,4), in casa dunque. Perché non si sono salutati lì, dopo aver cenato? Che bisogno c’era di andare verso il monte degli Ulivi? E gli altri particolari: la nube, gli sguardi rivolti verso il cielo, i due uomini in bianche vesti sono annotazioni di cronaca o artifici letterari?
Nell’AT c’è un racconto che assomiglia molto al nostro, si tratta del “rapimento” di Elia (2 Re 2,9-15).
Un giorno questo grande profeta si trova presso il fiume Giordano con il suo discepolo Eliseo. Questi, saputo che il maestro sta per lasciarlo, osa chiedergli in eredità due terzi del suo spirito. Elia glieli promette, ma solo a una condizione: se mi vedrai quando sarò rapito lontano da te. All’improvviso, appare un carro con cavalli di fuoco e, mentre Eliseo guarda verso il cielo, Elia viene rapito in un turbine. Da quel momento Eliseo riceve lo spirito del maestro ed è abilitato a continuarne la missione in questo mondo. Il libro dei Re racconterà poi le opere di Eliseo: sono le stesse che ha compiuto Elia.
Facile rilevare gli elementi comuni con il racconto degli Atti ed allora la conclusione non può essere che questa: Luca si è servito della scenografia grandiosa e solenne del rapimento di Elia per esprimere una realtà che non può essere verificata con i sensi né descritta adeguatamente con parole: la Pasqua di Gesù, la sua risurrezione e la sua entrata nella gloria del Padre.
La nube indica nell’AT la presenza di Dio in un certo luogo (Es 13,22). Luca la impiega per affermare che Gesù, lo sconfitto, la pietra scartata dai costruttori, colui che i nemici avrebbero voluto che rimanesse per sempre prigioniero della morte, è stato invece accolto da Dio e proclamato Signore. I due uomini vestiti di bianco sono gli stessi che compaiono presso il sepolcro nel giorno di Pasqua (Lc 24,4). Il colore bianco rappresenta, secondo la simbologia biblica, il mondo di Dio. Le parole poste sulla bocca dei due uomini sono la spiegazione data da Dio agli avvenimenti della Pasqua: Gesù, il Servo fedele, messo a morte dagli uomini, è stato glorificato. Le loro parole sono veritiere (essendo due, sono testimoni degni di fede).
Infine: lo sguardo rivolto al cielo. Come Eliseo, anche gli apostoli ed i cristiani del tempo di Luca rimangono a contemplare il Maestro che si allontana. Il loro sguardo indica la speranza di un suo immediato ritorno, il desiderio che, dopo un breve intervallo, egli riprenda l’opera interrotta. Ma la voce dal cielo chiarisce: non sarà lui a portarla a compimento, sarete voi. Lo farete, siete abilitati a farlo perché avete trascorso con lui quaranta giorni (nel linguaggio del giudaismo era il tempo necessario alla preparazione del discepolo) e ne avete ricevuto lo Spirito.
Per gli apostoli, come per Eliseo, l’immagine del “rapimento del maestro” indica il passaggio di consegne.
Già al tempo di Luca c’erano cristiani che “guardavano al cielo”, cioè, che consideravano la religione come un’evasione, non come uno stimolo ad impegnarsi concretamente per migliorare la vita degli uomini. Ad essi Dio dice “smettetela di guardare il cielo”, è sulla terra che dovete dar prova dell’autenticità della vostra fede. Gesù tornerà, sì, ma questa speranza non deve essere una ragione per estraniarvi dai problemi di questo mondo. Beati saranno infatti quei servi che il Signore, ritornando, troverà impegnati nel lavoro per i fratelli (Lc 12,37).
Gesù è dunque salito al cielo?
Certo che sì, ma dire che è asceso al cielo equivale a dire: è risorto, è stato glorificato, è entrato nella gloria di Dio. Il suo corpo, è vero, è stato posto nel sepolcro, ma Dio non ha avuto bisogno degli atomi del suo cadavere, per dargli quel “corpo da risorto” che Paolo chiama: “Corpo spirituale” (1 Cor 15,35-50).
Quaranta giorni dopo la Pasqua non si è verificato alcuno spostamento nello spazio, nessun “rapimento” dal monte degli Ulivi verso il cielo. L’ascensione è avvenuta nell’istante stesso della morte, anche se i discepoli hanno cominciato a capire e a credere solo a partire dal “terzo giorno”.
Il racconto di Luca è una pagina di teologia, non il reportage di un cronista. In questa pagina egli vuole dirci che Gesù ha attraversato per primo il “velo del tempio” che separava il mondo degli uomini da quello di Dio e ha mostrato come tutto ciò che accade sulla terra: successi e disavventure, ingiustizie, sofferenze e persino i fatti più assurdi, come una morte ignominiosa, non sfuggono al progetto di Dio.
L’ascensione di Gesù è tutto questo. Allora non ci si deve meravigliare che sia stata salutata dagli apostoli con gioia grande (Lc 24,52).
Seconda Lettura (Ef 1,17-23)
Fratelli, 17 il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. 18 Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi 19 e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti secondo l’efficacia della sua forza 20 che egli manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, 21 al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro.
22 Tutto infatti ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della chiesa, 23 la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose.
Paolo chiede a Dio la sapienza per i suoi cristiani. Non si tratta di una sapienza umana, ma dell’intelligenza per comprendere il mistero della chiesa. Egli chiede a Dio di illuminare gli occhi del loro cuore affinché comprendano quanto è grande la speranza alla quale sono stati chiamati.
La prima lettura invitava i cristiani a non trascurare i doveri concreti di questo mondo. La seconda completa questo pensiero e raccomanda ai cristiani di non dimenticare che la loro vita non è racchiusa nell’orizzonte di questo mondo, perché, anche se impegnati nelle attività di questa vita, essi sono sempre in attesa che Cristo torni per prenderli definitivamente con sé.
Vangelo (Mc 16,15-20)
15 Gesù apparve agli undici e disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. 16 Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. 17 E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, 18 prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno”.
19 Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.
20 Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano.
Nella vita di ogni individuo si registrano tappe decisive, momenti di passaggio molto delicati in cui si percepisce che, in gioco, c’è tutto il futuro. Sono momenti di crisi, a volte di angosciante incertezza, di confusione interiore e spesso anche di dolore, come avviene in ogni nascita.
Anche nella storia della chiesa si sono verificati eventi che hanno determinato svolte epocali, ma nessuno è stato tanto decisivo quanto quello in cui è avvenuto il cambiamento di presenza di Gesù. Prima della Pasqua egli viveva fisicamente in questo mondo e i discepoli erano guidati da lui passo passo; dopo la Pasqua egli ha continuato ad essere presente, ma non più in modo percettibile con i sensi e i discepoli si sono sentiti soli e titubanti, hanno avuto la sensazione di trovarsi di fronte a una missione non ancora ben definita e certamente superiore alle loro forze.
Come portare avanti l’opera del Maestro? Non era presuntuoso da parte loro ritenersi capaci di dare inizio a un mondo nuovo? Era difficile adeguarsi all’idea che una simile impresa fosse stata affidata a un gruppo di poveri pescatori della Galilea.
I momenti decisivi della vita hanno bisogno di maggior chiarezza. Anche quello del passaggio di Gesù da una presenza tangibile a una invisibile ha richiesto una luce particolarmente intensa e gli evangelisti hanno cercato di illuminarlo in vari modi.
La luce che ci viene offerta oggi proviene dall’ultima pagina del vangelo di Marco.
Il brano si apre con una scena grandiosa (vv. 15-16). Il Risorto si manifesta agli Undici e indica la missione che sono chiamati a svolgere: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura”.
Sorprende che la lieta notizia debba essere annunciata “ad ogni creatura”. L’espressione designa certamente “ogni uomo”, ma contiene anche l’invito a spalancare gli orizzonti e a contemplare una salvezza che si estende a tutto l’universo; ogni creatura, infatti, è oggetto del compiacimento affettuoso di Dio (Pr 8,22-31).
A causa del peccato, l’uomo ha assunto spesso un rapporto scorretto con il creato.
Mosso da cupidigie e bramosie insaziabili, non ha capito o ha tradito le intenzioni di Dio e, invece di comportarsi da giardiniere e custode del mondo, si è trasformato in despota e predatore. Non ha impiegato la scienza e la tecnica in sintonia con il progetto del creatore, ma in modo sconsiderato e arbitrario. Ha manipolato a piacimento la natura, piegandola ai propri interessi egoistici o a disegni folli. Quando ha agito così, ha reintrodotto il caos.
Per questo – come ha intuito Paolo – tutte le creature rimangono in attesa dei benèfici effetti della salvezza: “La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio… e nutre la speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione” (Rm 8,19-21).
L’annuncio del vangelo libera l’uomo dalla convinzione di essere un padrone assoluto, gli fa comprendere che non ha il diritto di intervenire a piacimento sulla natura e lo induce a instaurare un rapporto nuovo, non solo con i suoi simili, ma anche con l’ambiente, le piante, gli animali.
La salvezza e la condanna dipendono dall’accoglienza o dal rifiuto del messaggio evangelico e del battesimo (v. 16).
La chiesa, con i mezzi di salvezza che offre, non può essere colpevolmente ignorata. Nella parola di Dio che annuncia, è Cristo stesso che si rivela; nei sacramenti che amministra, è Cristo che, attraverso segni sensibili ed efficaci, comunica la sua vita. Rifiutare questi doni equivale a decretare la propria rovina, che non è la dannazione eterna, ma la scelta insensata, fatta oggi, di autoescludersi dal disegno di Dio.
Matteo ricorda le ultime parole del Risorto: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Gesù non ci ha lasciato una foto ricordo, una statua commemorativa, una reliquia; ha voluto rimanere per sempre accanto ai discepoli, anche se non più in modo percettibile con i sensi.
Nella seconda parte del brano (vv. 17-18) Marco elenca cinque segni attraverso i quali il Risorto manifesta la sua presenza: “Coloro che credono scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno”.
L’impressione più immediata è che si tratti di prodigi molto particolari, addirittura strani, difficili da constatare perché, se pur esistono, sono estremamente rari, mentre pare che Gesù prometta segni che siano in grado di convalidare costantemente l’annuncio del vangelo.
Egli si è sempre opposto risolutamente alla richiesta prodigi dimostrativi (Lc 11,29-32), eppure, alla fine del II secolo d.C., la concezione apologetica del miracolo ha finito per imporsi e anche noi l’abbiamo ereditata. Se non facciamo attenzione, corriamo il rischio di fraintendere il significato delle parole del Risorto.
È vero che la predicazione del vangelo è accompagnata da segni, anche straordinari, ma questi non costituiscono prove; sono un annuncio, un lieto messaggio: proclamano che la salvezza è in atto e che, malgrado tutte le opposizioni, il regno di Dio si compirà in pienezza. Gli apostoli li hanno realizzati, non per competere con maghi e indovini, ma per testimoniare che il Risorto continuava a operare nel mondo.
I segni straordinari elencati da Marco vanno letti e interpretati alla luce del simbolismo biblico. Di queste e altre immagini si erano già serviti i profeti per descrivere i tempi messianici e il mondo nuovo; basti ricordare la celebre profezia: “Il leone abiterà insieme all’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto e il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide ” (Is 11,6-8). Isaia non intendeva certo annunciare un cambiamento prodigioso della natura aggressiva e pericolosa delle fiere: prometteva la fine delle lotte e delle inimicizie che esistono nel mondo. Attraverso l’immagine degli animali assicurava che, nel regno di Dio, non ci sarebbe stato più posto per le ostilità, le rivalità, le aggressioni reciproche fra gli uomini.
Alla luce di questo linguaggio biblico vanno interpretate anche le parole del Risorto.
I demoni rappresentano tutte le forze di morte che si trovano nell’uomo e che lo inducono a fare scelte opposte al vangelo: l’orgoglio, la bramosia del denaro, gli odi, gli impulsi egoistici. Questi demoni non sono vinti col ricorso a riti esorcistici, ma con la forza della parola di Cristo e dello Spirito che egli ci ha donato. È l’annuncio del vangelo che li scaccia; sono l’eucaristia e gli altri sacramenti che comunicano la forza divina che permette di resistere ai loro assalti. Se queste forze di morte oggi vengono dominate, significa che il Risorto è vivo e presente nel mondo.
Le lingue nuove si riferiscono a un fenomeno estatico, molto diffuso nella chiesa primitiva. In forma diversa, il prodigio si deve ripetere nelle nostre comunità cristiane: l’umanità ha bisogno di un linguaggio completamente nuovo; quello dell’insulto, della tracotanza, della violenza l’ha già ascoltato fin troppo, oggi vuole udire quello dell’amore, del perdono, del servizio gratuito e incondizionato e i discepoli di Cristo lo devono saper parlare.
I serpenti e i veleni sono citati spesso nella Bibbia come simboli dei nemici dell’uomo e della vita. Non è facile identificarli subito, perché si presentano spesso in modo sornione e subdolo e anche i veleni mortali che distribuiscono possono apparire bevande inebrianti. Il giusto è invitato a non temerne le insidie (Sl 91,13) e i discepoli non devono avere paura, la forza che hanno ricevuto da Cristo, infatti, li rende invulnerabili: “Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra i serpenti e gli scorpioni e sopra ogni potenza del nemico; nulla vi potrà danneggiare” (Lc 10,19).
Le guarigioni sono il segno che spesso anche Gesù ha offerto. Se la parola del vangelo realizzerà recuperi, inspiegabili e prodigiosi, alla vita, risulterà evidente a tutti che la comunità cristiana è portatrice di una forza divina capace di ricreare il mondo.
Nel v. 19 è riassunto il tema della festa di oggi: “Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio”.
Si tratta di un’affermazione teologica; Dio, infatti, non ha né destra né sinistra e in paradiso non si sta seduti. L’immagine si richiama agli usi delle corti orientali dove i sudditi che avevano dato prova di fedeltà eroica al loro signore venivano convocati nella reggia e, di fronte a tutti i notabili, erano invitati dal sovrano a sedersi alla sua destra. Le parole che il salmista rivolge al nuovo re, nel giorno della sua intronizzazione – “Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi” (Sl 110,1) – si riferiscono a quest’uso.
L’evangelista vuol dirci che Gesù, lo sconfitto secondo gli uomini, è stato proclamato da Dio “suo servo fedele”. Non aveva instaurato il tanto atteso dominio terreno del popolo d’Israele, non aveva sottomesso i nemici con la spada, ma aveva dato inizio al regno di Dio, a un mondo completamente nuovo, offrendo la propria vita e versando il proprio sangue. Per questa sua fedeltà, Dio lo ha esaltato (Fil 2,6-11), lo ha fatto ascendere al cielo (Ef 4,8-9), a lui ha sottomesso ogni creatura (1 Cor 15,27). Servendosi dell’immagine dell’intronizzazione del messia, gli autori del Nuovo Testamento ripetono: Dio “lo ha fatto sedere alla sua destra” (1 Pt 3,18-22).
La frase conclusiva del vangelo di Marco “I discepoli partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano” (v. 20) testimonia la convinzione dei primi discepoli di non essere soli, ma di avere sempre accanto il Signore Gesù che, insieme a loro, operava prodigi di salvezza.