Tutto quel che accade nell’ambito della destra italiana in vista della prossima scadenza elettorale ruota sempre e comunque attorno al destino di Silvio Berlusconi. Il quale combatte una battaglia, sicuramente strenua, ancorché patetica, per non essere definitivamente disarcionato. I temi delle amministrazioni da rinnovare e le sfide con gli avversari passano in secondo piano rispetto a quel nodo decisivo.
Non che sia da trascurare il fatto che, ad esempio, a Milano sia stato scelto un candidato sindaco che esprime l’intero schieramento – oltretutto con una personalità ritenuta competitiva e persino attrattiva (almeno per Corrado Passera) – e che in altre città un consenso si sia comunque manifestato. Il fatto è che la piazza più importante, cioè Roma-Capitale, è diventata la cassa di risonanza di un’autentica rissa. E alla sensibilità della destra non importa tanto di sapere il nome di chi espugnerà il Campidoglio quanto di conoscere se il Cavaliere riuscirà o meno a superare la prova.
Troppi per vincere…
In verità, era sembrato che un consenso potesse realizzarsi sulla figura proposta da Berlusconi (il pur discusso e discutibile Guido Bertolaso); e, in effetti, sia Matteo Salvini che Giorgia Meloni avevano concordato; ma il referente della Lega si era prontamente dissociato e aveva convinto la leader di Fratelli d’Italia, per quanto in dolce attesa, ad esporsi in prima persona. Così, ai nastri di partenza, il centrodestra romano può contare, complessivamente, su un elevato numero candidati, ovviamente in concorrenza tra di loro. Davvero troppi per pensare di vincere. Sono infatti in lizza (oltre a Bertolaso e Meloni) il vecchio leone Storace e, sul versante centrista, l’imprenditore Marchini, il quale fruisce anche del sostegno dei seguaci di Alfano e Casini.
È chiaro che, fino all’ultimo, si manovrerà per ridurre il numero dei pretendenti visto che, nella migliore delle ipotesi, solo un candidato unico potrà aspirare di condurre la destra al ballottaggio o con l’uomo del Pd o con la donna dei Cinquestelle. E qui destano sospetto le tante attestazioni di stima e gli inviti a… resistere che, da una parte di Forza Italia, vengono rivolti a Bertolaso. Che non sia il modo per prepararlo a ricevere l’onore delle armi quando il calcolo razionale lo costringerà a chiamarsi fuori?
Quale sarà la conclusione al momento non è dato sapere. È certo però che, in ogni caso, per Berlusconi è in arrivo la sconfitta. Se resiste sul nome proposto, divide lo schieramento e lo espone al tracollo; se lo ritira in nome dell’unità, consegna lo scettro agli “alleati” riottosi. Il tutto senza che vi sia la probabilità di quella vittoria che il capo leghista affida al traino della signora Irene Pivetti, già presidente della Camera e ora riadattata come capolista comunale dopo lustri di vacanza politica. Il tutto mentre un Berlusconi sempre più roco nelle telefonate di calore ai meeting dei suoi annuncia, in concorrenza con Renzi, che «quando torneremo al governo» non darà 80 ma 1.000 euro ai poveri pensionati…
Tra Renzi e Le Pen
Se non ci si appassiona a vicende così anguste, è giusto tuttavia chiedersi quale sia la vera ragione di uno scontro tanto aspro. E ciò impone una riflessione sulla condizione dell’elettorato di destra in Italia dopo la sconfitta politica (e giudiziaria) di Berlusconi.
La sua mania accentratrice, di “cummenda” brianzolo, gli ha impedito sia di indicare un erede (che era Alfano, ma poi scoprì che non aveva il quid), sia di governare una serena competizione per la successione mediante le primarie di partito. E ciò ha favorito – e, in fondo, giustificato – le defezioni in serie che hanno “spennato” prima il “Popolo delle libertà” e poi la seconda Forza Italia.
Con il “patto del Nazareno” Berlusconi, come un pugile “suonato”, si era aggrappato all’avversario per tenerlo fermo. Ma, forse per diffidenza, forse per sofferenza di una condizione di non-protagonismo, non era riuscito a mantenere a lungo questa linea tattica, perdendo così un insperato interlocutore, il Pd di Renzi, e anche un altro folto ciuffo di penne, quelle di Verdini.
La revoca del comando
Nel frattempo, il pendolo degli umori di destra oscillava tra l’ipotesi di un riallineamento centrista e la ruvida sollecitazione di una Lega a trazione più che mai populista con intenzioni di straripamento al Sud e con un messaggio di nazionalismo esclusivo e di razzismo dichiarato, ingredienti apertamente prelevati dal verbo transalpino della signora Le Pen.
Le elezioni amministrative sembravano fornire all’anziano leader l’occasione per mettere in mostra le sue capacità se non di “federatore” almeno di “assemblatore” di entità non omogenee, con l’intento di offrire alla pur vasta platea della destra, ritenuta per definizione moderata, una parvenza di proposta politica. Ma proprio questo è il punto: sono stati i suoi stessi partners a non riconoscergli più il ruolo di decisore di ultima istanza. Chi se ne impadronirà tra Salvini e Meloni si vedrà in seguito. Ma per intanto – questo è il segnale che gli hanno dato – “non sei più tu a comandare”.
La situazione è diventata preoccupante per quanti considerano l’orientamento e i comportamenti della destra come un fattore importante dell’equilibrio democratico. E non mancano voci nella galassia berlusconiana che si levano, come Giuliano Ferrara, a patrocinare, per esempio, un recupero di tutte le energie andate in diaspora per ricomporle in un disegno politico che include persino l’ipotesi di un’intesa con il Pd di Matteo Renzi accreditato come portatore delle istanze di un “elettorato nazionale”.
L’equazione ha molte incognite, come è facile comprendere. Ma almeno per un aspetto è chiara: ove mai un processo del tipo di quello adombrato potesse avviarsi, a condurlo non potrebbe più essere Silvio Berlusconi.