La convinzione che il male fosse provocato da spiriti maligni ha indotto gli uomini, fin dai tempi più remoti, a premunirsi contro i loro malefici influssi ricorrendo a pratiche magiche, alla recita di formule e preghiere, all’esecuzione di gesti rituali come distruzione di statuine, aspersioni, fumigazioni; tutto per costringere i demoni ad allontanarsi. L’esorcismo, assieme alla divinazione, costituiva l’essenziale della religione assiro‑babilonese ed era praticato correntemente anche in Israele, dove anche i discepoli dei farisei scacciavano demoni e con successo (Mt 12,27). L’esorcismo sconfinava spesso nella magia. Per accrescerne l’efficacia, agli scongiuri si aggiungeva l’invocazione di nomi suscettibili di contenere una potenza divina. Qualcuno usava il nome di Gesù, ottenendo a volte buoni risultati (Mc 9,38), altre volte provocando la reazione stizzita e aggressiva dell’ossesso (At 19,11-17).
Gesù cura i malati e, adeguandosi alla mentalità corrente, ricorre all’esorcismo, ma non compie mai gesti magici né riti esoterici, non pronuncia incantesimi com’erano soliti fare i guaritori del suo tempo; trionfa sul male unicamente con la forza della sua parola e chiedendo di avere fede.
È nello stesso spirito che oggi, nella chiesa, devono essere praticati gli esorcismi. È incompatibile con la fede in Dio, che è Padre, la convinzione che egli permetta a spiritelli malevoli di impossessarsi dell’uno o dell’altro dei suoi figli. Ma è indubbio che “il serpente” che diffonde veleno di morte è presente in ogni uomo fin dal suo concepimento (Sl 51,7).
Nel rito del battesimo si compie un esorcismo: è la celebrazione della vittoria già conseguita da Cristo sullo spirito del male ed è la carezza della chiesa al figlio che ora si appresta a lottare, per tutta la vita, contro il maligno. La comunità dei fratelli gli dice: in questa lotta non sarai mai solo, tutti noi saremo al tuo fianco.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non sono solo nella lotta contro il maligno, Cristo e la comunità dei fratelli è con me”.
Prima Lettura (Gn 3,9-15)
Dopo che Adamo ebbe mangiato dell’albero, 9 il Signore Dio lo chiamò e gli disse: “Dove sei?”. 10 Rispose: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto”.
11 Riprese: “Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”.
12 Rispose l’uomo: “La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. 13 Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?”. Rispose la donna: “Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato”.
14 Allora il Signore Dio disse al serpente:
“Poiché tu hai fatto questo,
sii tu maledetto più di tutto il bestiame
e più di tutte le bestie selvatiche;
sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai
per tutti i giorni della tua vita.
15 Io porrò inimicizia tra te e la donna,
tra la tua stirpe e la sua stirpe:
questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno”.
A chi ha un minimo di dimestichezza con i generi letterari biblici, può apparire eccessivo che, ancora una volta, metta in guardia da interpretazioni ingenue e semplicistiche di questo brano, ma ne vale la pena, perché la tentazione di attribuirgli un valore storico si ripresenta sempre. Meglio allora ripeterlo: il racconto della Genesi, ripreso nella lettura di oggi, non è il resoconto di un fatto accaduto all’inizio del mondo, ma un testo che, servendosi del linguaggio mitico, dà una risposta all’enigma della presenza del male nel mondo. Spiega non ciò che un certo Adamo e una certa Eva avrebbero fatto, ma ciò che oggi noi siamo e facciamo. Non è serio immaginare l’uomo che, dopo aver mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male, gioca a nascondino con Dio, ha paura di lui e si vergogna di essere nudo, mentre prima non provava alcun disagio. Non è serio ritenere che i serpenti ora striscino per terra perché, senza alcuna ragione, Dio li avrebbe castigati (prima avevano le zampe?); non hanno alcuna colpa se, per ingannare i primi uomini, il diavolo ha assunto le loro sembianze. Nel racconto si dice anche che sono stati condannati a mangiare polvere, eppure non ci risulta che oggi questo accada.
Il racconto del cosiddetto “peccato originale” è, in realtà, la descrizione dell’origine di ogni nostro peccato e questo ci tocca molto più da vicino.
Ogni creatura ha, nel progetto di Dio, un suo significato e un suo scopo, è parte di un capolavoro; è come la tessera di uno stupendo mosaico che l’uomo, in armonia e collaborando con il Creatore, è chiamato a comporre. Un loro posto particolare e una specifica funzione hanno, nell’equilibrio dell’universo, le piante, gli animali, il lavoro, il riposo, la sessualità, le gioie, le feste e anche il dolore e le sventure. Quando “Dio vide che quanto aveva fatto era molto buono” (Gn 1,31), non si riferiva all’assenza di malattie e morte, ma al fatto che ogni creatura aveva un senso; tutto serviva perfettamente alla realizzazione del suo progetto.
Che doveva fare l’uomo? Studiare il creato, capirne il senso, scoprire il compito che era chiamato a svolgere e adeguare ogni sua azione alla volontà di Dio. Tutto sarebbe stato armonia se l’uomo si fosse mantenuto al suo posto e avesse rispettato l’ordine stabilito dal Signore. Ci sarebbe stata armonia fra uomo e Dio: armonia rappresentata nel libro della Genesi con la dolce immagine del Signore che passeggia nel giardino accanto all’uomo, mentre li accarezza la brezza della sera (Gn 3,8); ci sarebbe stata armonia fra uomo e natura: il mondo sarebbe stato amato, rispettato e curato come un giardino; ci sarebbe stata armonia fra uomo e uomo: nessun dominio, nessuna sopraffazione, nessuna strumentalizzazione egoistica, solo la gioia di sentirsi ognuno un dono di Dio per gli altri.
È a questo punto invece che, fin dall’inizio del mondo, è entrato in scena il serpente che ha convinto l’uomo a oltrepassare i limiti impostigli dalla sua condizione di creatura, a mettere da parte il progetto del Creatore e a inventarsene uno nuovo, a seguire i propri capricci e astuzie, illudendosi di ottenere così la sua piena realizzazione e la felicità.
Chi è questo serpente? Null’altro che la follia dell’uomo che, in un delirio di onnipotenza, pretende di sostituirsi a Dio e si dichiara autonomo nel prendere le decisioni su ciò che è bene e ciò che è male. Questa ebbrezza dell’autosufficienza lo tenta in modo subdolo e silenzioso, come fa il serpente e lo induce a fare scelte di morte.
Il peccato causa la rottura di tutte le armonie e la lettura ne presenta le drammatiche conseguenze attraverso immagini.
L’uomo che si lascia sedurre dal “serpente” che è in lui finisce fuori posto. Dio lo cerca, lo chiama: “Dove sei?”, ma non lo trova (vv. 8-10), perché non è più dove dovrebbe essere. Come un padre, il Signore è addolorato del male che il figlio si è fatto, è preoccupato e, per ricuperarlo, lo invita a considerare in che stato ha ridotto la propria persona. “Dove sei?” significa: “Dove sei andato a finire? Cos’hai fatto della tua vita?”.
La risposta dell’uomo: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto” (v. 10) esprime il rifiuto della presenza di Dio, considerato non più come un amico, ma come un avversario da evitare, come un tiranno che minaccia l’indipendenza e la libertà.
Nascondersi da Dio significa allontanarsi dalla preghiera, dalla lettura biblica, dalla vita della comunità per non essere rimessi in discussione, per non sentirsi intralciati nelle proprie scelte. L’uomo ha paura di Dio perché teme che egli possa privarlo della felicità; ma in realtà non fa altro che precipitare nel baratro della più completa confusione.
La seconda conseguenza della decisione di smarcarsi da Dio nelle scelte morali è l’allontanamento dai fratelli (vv. 12.16). Adamo accusa Eva, questa attribuisce la colpa al serpente, ambedue rinfacciano a Dio di aver creato un mondo sbagliato. Sei stato tu – insinua Adamo – a mettermi accanto una persona che, invece di condurmi a te, mi ha distolto dal tuo progetto. Io mi sono fidato di lei perché tu me l’avevi data.
Questa reazione rappresenta il tentativo di scaricare le responsabilità del male su un capro espiatorio che possono essere la famiglia in cui si è nati, la società, l’educazione ricevuta e, in ultima analisi, su Dio che ha voluto che l’uomo non potesse realizzarsi che nell’incontro con i propri simili, i quali però spesso, invece di portarlo in alto, lo trascinano verso il basso.
La donna, interrogata a sua volta, dà la colpa al serpente e, siccome il serpente non è che l’altra faccia della nostra umanità, le sue parole costituiscono una nuova accusa nei confronti di Dio: tu hai fatto male le cose creando l’uomo così com’è, capace di compiere follie e crimini; perché non l’hai fatto diverso, perfetto? Perché in lui c’è questo “serpente” insidioso che inietta veleno mortale?
Dopo essersi rivolto all’uomo e alla donna, ci aspetteremmo che Dio interroghi il serpente, invece non lo fa, perché il serpente non è una creatura distinta dall’uomo, ma la controparte dell’uomo, quella che si oppone a Dio.
Il serpente dominerà sempre incontrastato?
Dal nostro punto di vista la condizione dell’uomo pare disperata e Paolo la descrive in termini drammatici: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto, quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,15-24).
La disfatta dell’uomo sarà definitiva?
Nell’ultima parte del brano (vv. 14-15) Dio risponde a questa inquietante domanda.
La lotta fra “il serpente” e l’uomo continuerà fino alla fine del mondo, ma ecco quale sarà l’esito del confronto: “il serpente” è dichiarato maledetto, cioè privo di una forza soprannaturale e irresistibile, può essere vinto e difatti lo sarà, come Dio assicura, attraverso immagini vive ed efficaci. Egli – dice – lambirà la polvere, cioè la sua disfatta sarà inevitabile e clamorosa (Sl 72,9); striscerà per terra, come sono costretti a fare i nemici sconfitti di fronte al vincitore (Sl 72,11); avrà la testa schiacciata e, anche se, fino alla fine, tenterà di mettere in atto le sue insidie mortali, non riuscirà nel suo intento.
È la promessa della salvezza universale.
“Chi mi libererà” dalla condizione di schiavitù imposta dal “serpente”, si chiedeva Paolo (Rm 7,24). La risposta la troveremo nel vangelo di oggi, ma è già annunciata nel brano della Genesi: uno della progenie della donna prevarrà sul “serpente” e gli schiaccerà il capo.
Seconda Lettura (2 Cor 4,13-5,1)
13 Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, 14 convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi.
15 Tutto infatti è per voi, perché la grazia, ancora più abbondante ad opera di un maggior numero, moltiplichi l’inno di lode alla gloria di Dio.
16 Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.
17 Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, 18 perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne.
1 Sappiamo infatti che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mani di uomo, nei cieli.
Questa lettera fu scritta in un momento in cui i rapporti fra Paolo e i corinzi erano piuttosto tesi. All’interno della comunità erano sorti dei mestatori che provocavano tensioni e discordie, diffondevano opinioni contrarie al vangelo e cercavano in tutti i modi di mettere in cattiva luce la persona e l’opera dell’Apostolo. Dopo anni di fatiche e di disagi, sopportati per amore di Cristo, Paolo cominciava anche a sentire le proprie forze venir meno.
Nel brano di oggi egli ci offre una commovente riflessione sulla sua situazione interiore. Non mi scoraggio – dichiara – anche se mi rendo conto che il mio corpo si va disfacendo. All’indebolimento fisico, non corrisponde – assicura – un infiacchimento interiore; ogni giorno verifico la crescita in me dell’uomo nuovo destinato a rimanere per sempre (v. 16).
Questo pensiero che infonde in Paolo gioia e consolazione, è sviluppato nei versetti seguenti (vv. 18-19) attraverso la contrapposizione fra la tribolazione presente che è “leggera e momentanea” e la gloria futura che è invece “eterna e smisurata”.
Da questa constatazione deriva l’invito a distogliere lo sguardo dalle cose visibili e a fissarlo su quelle invisibili che sono imperiture.
Paolo non insegna a disprezzare le realtà di questo mondo, non esorta al disimpegno e al disinteresse di fronte ai problemi di questo mondo, ma invita a dare loro il giusto valore. I beni materiali non possono in alcun modo trasformarsi in idoli, non costituiscono il fine ultimo dell’esistenza. L’uomo se ne serve per vivere, ma non vive per accumularli. Sa che questa vita non è definitiva, ha un inizio e ha una fine. Saggio è colui che la programma tenendo presente che essa è solo una gestazione che prepara una nascita.
Nell’ultimo versetto (5,1) l’Apostolo proclama la sua gioiosa certezza: quando verrà disfatto questo corpo, ne riceveremo uno nei cieli, non costruito da mani d’uomo.
Vangelo (Mc 3,20-35)
In quel tempo, 20 Gesù venne con i suoi discepoli in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. 21 Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: “È fuori di sé”.
22 Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: “Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni”. 23 Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: “Come può satana scacciare satana? 24 Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi; 25 se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi. 26 Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire. 27 Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l’uomo forte; allora ne saccheggerà la casa.
28 In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; 29 ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna”. 30 Poiché dicevano: “È posseduto da uno spirito immondo”.
31 Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. 32 Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: “Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano”. 33 Ma egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. 34 Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! 35 Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”.
“Chi è costui?” è l’interrogativo che, fin dall’inizio del vangelo di Marco, tutti si pongono riguardo a Gesù. Chi è – si chiedono – quest’uomo che scaccia i demoni, insegna con autorità, accarezza i lebbrosi, si siede a tavola con i peccatori, non pratica il digiuno, infrange il precetto del sabato e ha il coraggio di sfidare gli scribi e i farisei “guardandoli con indignazione” (Mc 3,5)?
Nel brano di oggi vengono presentate due interpretazioni dell’identità di questo personaggio tanto enigmatico. La prima è quella dei familiari che sono introdotti all’inizio dell’episodio (vv. 20-21) e che ricompaiono alla fine (vv. 31-35). La seconda è formulata da una delegazione composta da scribi, inviati probabilmente dal sinedrio di Gerusalemme per chiedergli conto, in modo ufficiale, della posizione inspiegabile che ha assunto nei confronti della legge e delle istituzioni religiose del suo popolo (vv. 22-30).
Ricostruiamo la scena: Gesù si trova in un casa – c’è da supporre a Cafarnao – è circondato da una grande folla e sta esponendo la sua “dottrina nuova”. L’interesse è tale che le persone si dimenticano o non hanno neppure il tempo di prendere cibo (v. 20).
A questo punto la scena si interrompe e si sposta a Nazaret dove i familiari, venuti a sapere che Gesù, con la sua predicazione e le sue opere, sta provocando tensioni e suscitando seri problemi; partono per andarlo a prendere e danno una loro interpretazione di ciò che sta accadendo: “È impazzito!”, dicono (v. 21). Un’opinione che lascia sconcertati, soprattutto se si tiene presente che nel gruppo, con i fratelli e le sorelle, è presente anche la madre (v. 31).
Fra la partenza di questi familiari e il loro arrivo a Cafarnao, è inserita la discussione di Gesù con gli scribi venuti da Gerusalemme. Questi aprono le ostilità con un’accusa pesante, che è anche la loro risposta all’interrogativo che tutti si pongono: “Chi è costui?”. È un peccatore – assicurano – è uno in combutta col principe dei demoni. Gesù replica con immagini e parabole, parla di satana, di una famiglia divisa che non può reggersi, di una casa occupata da un uomo forte che viene legato e conclude con un’affermazione enigmatica sul peccato che non può essere perdonato.
Esaminiamo il contenuto del brano prendendo in esame, anzitutto, i versetti che, all’inizio e alla fine trattano dei familiari. Si sono messi in viaggio “per impadronirsi” di Gesù. Come si spiega la loro decisione?
Da alcuni mesi egli ha lasciato Nazaret e percorre tutta la Galilea “predicando nelle sinagoghe e scacciando i demoni (Mc 1,39). Nel suo paese d’origine sono arrivate notizie contrastanti sulla sua attività. Qualcuno ne parla con entusiasmo, ma i più avanzano obiezioni e rimangono sconcertati. Tutti si sono ormai resi conto che il suo messaggio non è in sintonia con la dottrina ufficiale degli scribi e dei farisei e che il suo comportamento non è conforme alle sacre tradizioni degli antichi. Qualcuno comincia a definirlo pazzo e “samaritano”, cioè eretico (Gv 8,48.52). Inquieta soprattutto il fatto che i farisei e gli erodiani si sono già riuniti per studiare il modo di toglierlo di mezzo (Mc 3,6). Ci sono dunque tutte le ragioni per essere preoccupati. La famiglia si sente chiamata in causa, si chiede se non sia giunto il momento di richiamarlo all’ordine, di convincerlo ad adeguarsi a comportamenti più convenzionali; interviene come, in Oriente, è solito fare il clan, che si muove guidato dal padre o dal figlio maggiore.
Quando la madre, i fratelli e le sorelle giungono a Cafarnao Gesù si trova in casa, in mezzo a una cerchia di persone. Non entrano, vogliono parlargli e pretendono che sia lui ad uscire.
Ora l’immagine spaziale acquista una chiara valenza teologica: c’è una netta distinzione fra chi è fuori e chi è dentro, fra gli antichi e i nuovi fratelli, sorelle e madre.
I parenti che restano fuori rappresentano, nell’intenzione di Marco, l’antico Israele. Giustamente l’evangelista non cita Maria per nome, ma la chiama semplicemente “madre”, perché la considera il simbolo della “donna Israele”, di quel popolo dal quale è nato il salvatore. L’antico Israele è stato colto di sorpresa dal messia di Dio: ha visto poste in causa tutte le sue convinzioni teologiche e le speranze accumulate lungo i secoli; si è sentito chiamare alla conversione, a un radicale cambiamento di mentalità e ha tentato di riappropriarsi di Gesù, suo figlio, ha cercato di reinserirlo nella famiglia, di farlo rientrare negli schemi tradizionali.
Gesù non può accettare. Non è lui che deve uscire, sono coloro che sono fuori che devono entrare e accettare le condizioni poste da Dio per appartenere alla nuova famiglia, alla nuova madre Israele, la comunità cristiana. Devono abbandonare i loro sogni, sedersi attorno a lui come fratelli e sorelle, lasciarsi scrutare dal suo sguardo (v. 34), ascoltare la sua parola e mettersi a disposizione del Signore per portare a compimento il suo progetto (v. 35). Chi resta fuori da questa prospettiva, da questa “nuova casa”, anche se biologicamente è un figlio di Abramo, non è né suo fratello, né sua sorella, né sua madre; si autoesclude dall’Israele di Dio.
Questi parenti rappresentano anche tutti coloro che appartengono solo “materialmente” alla famiglia di Gesù: hanno i loro nomi scritti nei registri dei battesimi, sono convinti di conoscerlo bene perché, fin dall’infanzia, sono cresciuti sentendo parlare di lui, ma non stanno sempre “seduti ai suoi piedi” per ascoltarlo, non orientano tutte le loro scelte sulla sua parola, tentano di adattarla al “buon senso” umano e, quando non sono d’accordo con lui, non lo seguono. Costoro rimangono fuori dalla nuova casa, anche se conducono una vita un po’ migliore di prima.
Nella parte centrale del brano (vv. 22-30), inserita fra la partenza e l’arrivo dei parenti, è introdotto un secondo gruppo, gli scribi che si sono fatti una loro opinione su Gesù e la vanno diffondendo fra il popolo. È un indemoniato – assicurano – e compie guarigioni perché in combutta con Beelzebùl, il principe dei demòni.
Da alcuni secoli in Israele si era diffusa la credenza che tutto il male del mondo fosse provocato da una schiera ordinata di potenze demoniache. Alla testa di questa “milizia dell’oscurità” si riteneva ci fosse Beelzebùl; immediatamente sotto di lui, nella scala gerarchica, venivano sei arcidiavoli, alle cui dipendenze agivano altri demòni, personificazioni di tutte le forze provocatrici di male: la violenza, l’arroganza, l’avidità, la pigrizia, la lussuria; a un livello inferiore c’erano i “maligni” che causavano malattie, disgrazie, calamità.
Era questo il linguaggio impiegato in quel tempo per formulare una spiegazione del male che esiste nell’universo e Gesù si adegua alla mentalità corrente. Per veicolare il suo messaggio ricorre all’immagine consueta: il “regno di Dio” e il “regno di satana” si fronteggiano con le loro armate angeliche schierate in battaglia. In realtà si tratta della lotta senza quartiere fra le forze divine, apportatrici di vita, e gli impulsi al male, radicati nell’uomo, che provocano morte. Queste forze diaboliche e omicide, è vero, si incarnano, cioè attuano nell’uomo e attraverso l’uomo. Caso esemplare quello di Pietro: è chiamato “satana” da Gesù (Mc 8,33) perché si è lasciato sedurre dalla sapienza di questo mondo e ha rifiutato i giudizi di Dio.
All’accusa degli scribi Gesù risponde con un argomento che, oltre a essere inoppugnabile, indica il principio che, in qualunque momento, permette di stabilire chi opera secondo Dio e chi sta dalla parte del maligno. Il criterio per discernere è la ricerca del bene e della vita dell’uomo. È mosso dal demonio chiunque agisce contro l’uomo.
Facile per Gesù dimostrare che le sue opere vengono da Dio, perché ricupera, guarisce, dà vita all’uomo. Le sue azioni sono dunque incompatibili con i disegni di satana. Chi agisce in favore dell’uomo, chi veste gli ignudi, cura i malati, spezza il pane con chi ha fame, costui, credente o no, non può che essere animato dallo Spirito di Dio.
La seconda immagine cui Gesù ricorre per confutare l’accusa degli scribi è quella dell’uomo forte che viene sconfitto da uno più forte. Il regno del diavolo – assicura – ha i giorni contati, la sua fine è già iniziata perché nel mondo è penetrata una forza di bene immensamente superiore. Anche se satana pare ancora il dominatore, in realtà è già stato detronizzato, non domina più dall’alto e, difatti, Gesù lo vede “cadere dal cielo come la folgore”; “l’uomo più forte” gli ha tolto la capacità di nuocere (Lc 10,18-19).
Queste affermazioni sono un invito alla speranza, uno stimolo a coltivare la certezza che il disegno di salvezza di Dio si attuerà, anche se ci vorrà ancora molto tempo prima che questa vittoria si manifesti in pienezza. Pensare il contrario, rassegnasi di fronte al male, lasciare cadere le braccia, equivale a riconoscere che Gesù è meno forte del male.
Il gruppo di scribi che ritiene Gesù un agente di satana rappresenta coloro che, oggi come allora, lottano contro chi, credente in Dio o no, si schiera dalla parte dell’uomo. Chi opprime l’uomo, chi lo rende schiavo, si sente sempre posto in causa e minacciato dal vangelo di Cristo. Per questo reagisce, diviene aggressivo, difende la propria posizione con tutti gli strumenti del male, con la minaccia, l’insulto, la calunnia e perfino la violenza.
Concludendo la propria difesa, Gesù fa un’affermazione solenne: “Tutti i peccati saranno perdonati eccetto la bestemmia contro lo Spirito” (vv. 28-30).
Sottolineiamo anzitutto la prima parte della frase. Gesù assicura che tutti i peccati verranno rimessi. La sconfitta del male – egli ne è certo – sarà piena, universale e definitiva. Che cos’è allora il peccato contro lo Spirito?
Da quanto viene detto nel v. 30 si intuisce che Gesù accusa di questo peccato coloro che affermano che la sua opera viene dal maligno, coloro che sostengono che la sua parola agisce contro l’uomo. Bestemmia contro lo Spirito chi si allontana da Gesù e dal suo vangelo perché ritiene che egli indichi cammini di morte.
L’affermazione di Gesù, naturalmente, non si riferisce alla condanna all’inferno. Egli parla del presente, non del futuro, vuole scuotere le coscienze e denunciare la gravità di una scelta contraria al progetto di Dio e agli impulsi dello Spirito. Per raggiungere il suo obiettivo pastorale ricorre a un’immagine impressionante, com’erano soliti fare i rabbini del suo tempo, quando volevano inculcare una verità importante. Non minaccia castighi eterni: mette in guardia da un pericolo attuale.
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