La risposta cristiana al soggettivismo etico e giuridico

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P. Bruno Esposito, domenicano, ordinario presso la Facoltà di diritto canonico della Pontificia Università san Tommaso d’Aquino in Roma (Angelicum), affronta in questo articolo il problema del soggettivismo etico e del soggettivismo giuridico, a partire da situazioni che sono sotto gli occhi di tutti. Non si ferma, però, alla semplice costatazione o alla denuncia, ma vede in Gesù, “uomo perfetto”, la risposta più pertinente ed efficace.

La presente riflessione parte dall’esperienza comune, da ciò che si presenta come un dato evidente nei tempi che viviamo: la fatica a dialogare, a collaborare, a comunicare fino ad arrivare al conflitto o, peggio, all’indifferenza. Questo ad iniziare dalla famiglia, che si sta involvendo e riducendo spesso ad un insieme di “clienti”, che pretendono soltanto la prestazione di servizi,[1] e via via ai diversi livelli e nei diversi ambiti della vita sociale, civile ed ecclesiale.

Sono di queste ultime settimane le notizie di violenze di adolescenti contro i docenti, spesso giustificate, se non addirittura alimentate, dai propri genitori.

Di qualche tempo fa anche la notizia dell’improvvisa morte, a soli ventotto anni, del famoso DJ svedese Tim Bergling (1989-2018) in arte Avicii (in sanscrito, vuol dire letteralmente “senza onde”, che rappresenta nel buddhismo l’ultimo livello dell’inferno!). Un vero e proprio talento musicale, purtroppo vittima del suo stesso successo e di quelle pressioni che la celebrità impone senza pietà, riuscendo a presentarsi come occasione di manifestazione di grandezza e onnipotenza, salvo poi rendere schiavi.[2]

Ugualmente di questi giorni l’incredibile vicenda del piccolo Alfie Evans di Liverpool (Regno Unito) e dei suoi genitori, che chiedevano solo ciò è un sacrosanto diritto di ogni essere umano: prendersi cura e accompagnare con amore e dignità fino alla fine il proprio figlio, che è sempre prima di tutto un dono e un figlio di Dio.

Soggettivismo etico

Purtroppo, sempre più spesso, a queste difficoltà, che fanno parte della natura umana e ne manifestano i limiti, sembra aggiungersi una sorta di individualismo sfrenato, che porta all’isolamento della persona rispetto ai suoi simili, alla creazione di un proprio mondo, che gli altri devono obbligatoriamente e semplicemente accettare, senza se e senza ma, se si vuole evitare il conflitto! Tutto questo, ulteriore novità, a volte, è addirittura teorizzato e giustificato.

Ovviamente, questa constatazione non può essere accompagnata dalla convinzione ingenua che i tempi passati fossero migliori dei presenti[3] ma, allo stesso tempo, alla luce della storia, si coglie una novità che ha, per dimensioni e consistenza, effetti inediti.

Il nostro intento è quello di cercare di enucleare questa novità per provocare delle ragionate considerazioni, in vista di possibili modi per uscire da quello che sempre di più si sta rilevando come un pericoloso vicolo cieco. Un vicolo cieco per la dignità dell’essere umano e dei suoi rapporti con gli altri simili a livello sociale, quindi per il nostro presente e possibile futuro.

A ben vedere, la modernità, e in modo particolare i nostri tempi, si distinguono, rispetto al passato, per una sempre più difficile armonizzazione, fino ad arrivare ad una netta contrapposizione: da una parte, la centralità della persona, dall’altra, il rispetto/tolleranza del pluralismo culturale ed etico, che sfocia spesso e volentieri in un vero e proprio relativismo.

Comunemente, soprattutto in alcuni ambienti ecclesiali, si ritiene che siano il relativismo culturale e il pluralismo etico i veri problemi di oggi ma, studiando più attentamente la questione, nella realtà questi non sono altro che gli effetti. Il vero problema è la sempre più assoluta e intransigente affermazione di una soggettività individualistica, che si traduce sempre più in soggettivismo etico.[4]

Chi proclama – come facciamo tutti – che c’è bisogno di riaffermare la centralità della persona, deve poi anche porsi il problema e fare i conti di come ogni persona elabori soggettivamente la “sua verità”, i “suoi valori”. In questa ricerca – e la realtà lo conferma – c’è però il pericolo che si finisca in un vero e proprio soggettivismo etico, che di fatto menoma la natura sociale dell’uomo.

È questo, allora, il vero pericolo! Infatti, gli effetti dannosi e devastanti che registriamo a tutti i livelli e in tutti gli ambienti sociali, non derivano tanto dal pluralismo etico, ma da una soggettività concepita come assoluta e infinita che diventa soggettivismo etico, prigioniero del suo ego, cosa che vanifica o strumentalizza ogni tipo di relazione. Arrivando, quindi, a voler quasi giustificare l’assurdo: l’uomo, essere finito, che pretende di avere una libertà infinita!

Perciò, se si afferma la centralità della persona, il suo primato, dobbiamo anche guardare a che cosa questa può portare, soprattutto quando non correttamente presentata o perché non si tiene conto del come possa essere recepita dalla maggioranza delle persone.[5]

Detta centralità della persona può portare al fatto che ogni singolo elabori nella sua soggettività interna un tipo di ricerca e di scelte etiche in modo meramente autoreferenziale e senza nessun confronto con le verità oggettive (sia a livello di ragione che di fede).

Ecco, allora, lo spirito umano nella forma: dell’io trascendentale di I. Kant (1724-1804); dello spirito assoluto di G.W.F. Hegel (1770-1831); dell’umanità di A. Comte (1798-1857); del superuomo di F. Nietzsche (1844-1900); della classe operaia di K. Marx (1818-1883); dello stato liberaldemocratico di J.J. Rousseau (1712-1778), che alla fine “crea” la verità, che stabilisce quello che è vero e quello che è falso, ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è iniquo, ciò che è diritto e ciò che è arbitrario.

E, dato che lo spirito umano vive nel tempo, la verità che stabilisce cambia con il tempo e le circostanze. Di fatto, oggi, l’idea di verità è sostituita con quella di cambiamento, di progresso, di consenso, di desiderio, di sentimento, di emozione.[6]

La convinzione che sia impossibile per la persona arrivare alla verità, che essa sia oggettiva e costituisca un termine di confronto ineludibile, porta nel concreto, e a tutti i livelli, a non essere attenti ai contenuti e a limitarsi alla realizzazione tecnica e a delle mere formalità.

Il soggettivismo giuridico

Solo per fare un esempio, si pensi all’ambito del diritto e allo stravolgimento di esso con il positivismo e formalismo giuridico, teorizzato fino alle sue estreme conseguenze da H. Kelsen (1881-1973).

Tale concezione “surrogata” del diritto ha avuto come risultato che le nostre società siano caratterizzate da un diritto “fragile”, perché diritto inteso essenzialmente come una tecnica, come insieme di regole e non di valori, con le quali e attraverso le quali è possibile imporre desideri che si fondano sul nulla/niente o su visioni ideologiche di chi costituisce le maggioranze, al servizio dei più svariati interessi, ma sicuramente non della giustizia, del bene comune, del bene dei più indifesi. In altre parole, ci troviamo di fronte a quel relativismo giuridico attuale, che vede la coscienza morale non fatta per “riconoscere” la verità, ma per “crearla”.

Rimanendo nell’ambito giuridico, si pensi all’uso fuori luogo e spesso ingiustificato al “consenso” nell’elaborazione o nell’interpretazione di norma giuridica a scapito, e spesso proprio in opposizione, all’evidenza, alla forza delle argomentazioni e all’applicazione dei principi generali del diritto e della giustizia. Dimenticando un dettaglio non da poco, evidente per chi ha il semplice buon senso (cosa diversa dal senso comune!), cioè che il consenso incide sulla “verità” e sulla “giustizia” nella stessa misura in cui incide sull’addizione aritmetica che due più due fa quattro![7]

La cultura oggi dominante inesorabilmente cerca di convincerci che la coscienza non è altro che soggettivismo e che la verità si risolve in un vero e proprio relativismo. Il tema della coscienza morale, oggi più che mai, è soggetto ad equivoci, a stravolgimenti fino ad arrivare a vere e proprie caricature e strumentalizzazioni ideologiche.

Alla fine possiamo dire, usando un’immagine nota: una coperta troppa piccola che ognuno tira dalla sua parte, e che, alla fine, rischia di lasciare scoperto ciò che dovrebbe, invece, avvolgere e preservare con cura! Quella coscienza morale che il card. Newman (1801-1890) ha brillantemente mostrato come apertura del nostro cuore ad un “sapere con un Altro” (appunto: con-scientia)[8] che, alla fine, fa la differenza per quanto riguarda la qualità, rispetto ad una vita meramente autoreferenziale impregnata, per non dire “intossicata”, di relativismo.

Il mito che la modernità ha fatto del progresso, si propone di fatto come sostitutivo o alternativo alla verità, salvo omettere un particolare di non poco conto: progresso in quale direzione? Per chi e per che cosa?

In una cultura contemporanea dove tutto tende ad essere sempre più “soggettivo”, nel senso di libertà di arbitrio, intesa come assoluta (= faccio quello che voglio, che sento, che desidero, che mi dà “benessere”, dimenticando, però, che questo è diverso dal vero “bene”), bisogna ricordare e far capire che quel “soggettivo” è espressione di una persona con una natura che ha ricevuto, e in ogni caso non si è data, con le sue caratteristiche ed esigenze che non permettono il “soggettivismo” se non a caro prezzo, per le singole persone e per la comunità.

In altre parole, si deve mettere in luce che ogni persona non è e non può sentirsi “legge a se stessa” e, allo stesso tempo, non è e non può comportarsi, di conseguenza, come essere finito con aspirazioni infinite e assolute che si contrappongono a quelle degli altri, chiuso in se stesso, come una vera e propria “monade”.

La verità illuminante e liberante del Vangelo

In questo contesto, a nostro avviso, deve proporsi la verità illuminante e liberante dell’annuncio evangelico, cioè deve muoversi quella “nuova evangelizzazione”, nuova non per i contenuti, ma per i modi,[9] capace di far recuperare alle persone il loro essere membra di un corpo, smascherando la tentazione di essere proprio delle “monadi” condannate dall’egoismo alla solitudine.

Se l’evangelizzazione non riuscirà a proporre in modo convincente l’importanza di ciò, continueremo ad avere dei “raduni”, degli “assembramenti”, ma non comunità e assemblee di persone, di cittadini o di fedeli. Quindi, il vero problema oggi non è tanto riaffermare la centralità della persona, ma dobbiamo chiederci: come possiamo seguire e far crescere la sua soggettività in modo che rispetti la propria e l’altrui dignità?

In questi ultimi secoli si è imposta quasi dogmaticamente l’ideologia che la “ragione unisce e la fede divide”. Per onestà intellettuale dobbiamo però chiederci di quale ragione e di quale fede stiamo parlando. Se s’intende la ragione come un qualcosa di unico, infinito e autoreferenziale, credo che divida e contrapponga molto di più le persone, di quanto possano fare la fede e la religione. Invece, una ragione che riconosce di essere creata con i suoi evidenti limiti e si lascia umilmente illuminare dalla vera fede nel Dio di Gesù Cristo, che tutti ha accolto e amato, porta al rispetto e alla solidarietà tra i membri di una comunità, in poche parole, di quella “conversione permanente” di cui ci parlano gli Atti degli Apostoli, con e nonostante le presenti fragilità e povertà umane.

Proprio in questo punto scopriamo che la fede in Cristo può essere un valido aiuto per trovare risposte alla presente situazione di crisi d’identità che contraddistingue la persona oggi e l’indicazione di percorsi per uscirne: “credo ut intelligam” (sant’Anselmo d’Aosta 1033-1109).

Il Vaticano II ci ricorda: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione.

Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è «l’immagine dell’invisibile Iddio» (Col 1,15), è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo».[10]

«Le parole citate attestano chiaramente che la manifestazione dell’uomo, nella piena dignità della sua natura, non può aver luogo senza il riferimento – non soltanto concettuale, ma integralmente esistenziale – a Dio e nel figlio suo Gesù Cristo. L’uomo e la sua vocazione suprema si svelano in Cristo mediante la rivelazione del mistero del Padre e del suo amore».[11]

Alla luce dell’Antico e del Nuovo Testamento (cf. Gn 2–3; Sir 17,1-15; Rm 7,21; Mt 25,31-46), letti nella prospettiva indicata dalla Tradizione e dal Magistero, la Chiesa cattolica, e quindi ogni battezzato, è chiamata a svelare e a proclamare il perché del male nel mondo e che solo in Cristo il male, la sofferenza, la morte trovano un senso e divengono, misteriosamente, addirittura pegno di speranza.

Quindi, la vera sfida è riuscire a far comprendere agli uomini di oggi che Cristo è l’unico liberatore, in quanto è il solo e vero Salvatore. Questo potrà avvenire solo attraverso un annuncio integrale della fede, alieno da ogni opzione rigorista o lassista che sia, in ogni caso sempre parziale, ideologica (se non, in qualche caso, propriamente eretica) e che non farebbe che tradire il mandato di Cristo (cf. Mt 28,16-20).

La realtà sociale e la mentalità dei nostri giorni ci richiede di avere sicuramente, forse come non mai prima, chiari i criteri d’inculturazione per la nuova evangelizzazione, ma nella consapevolezza di avere veramente una buona novella da proporre come credenti consapevoli. Quindi, non devono esserci dubbi che è la fede cattolica che salva le altre culture nel loro incontrarsi e confrontarsi e non viceversa. Questo dialogo con il mondo esige chiarezza sull’identità e missione che Cristo ha affidato alla sua Chiesa, delle quali non è padrona ma amministratrice (cf. 1Cor 4,1), senza illudersi che questo messaggio sia sempre e da tutti accolto e, anzi, sospettare quando questo avviene (cf. Gv 15,8-27).


[1] Papa Francesco, Amoris laetitia, n. 33.

[2] «Perché uno è schiavo di ciò che l’ha vinto» (2Pt 2,19).

[3]Cf. Eccl 7,10.

[4] Cf. D. Bonhoeffer, Etica, Brescia 1995.

[5] Fu questa la tesi di G. De Rita presentata durante una Tavola Rotonda su L’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, presso la Pontificia Università della Santa Croce, Roma, 9 aprile 2003.

[6] Cf. J. Ratzinger/ Benedetto XVI, L’elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena 2009.

[7] Cf. S. Cotta, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Milano 1991.

[8] Cf . H. Geissler, Coscienza e verità negli scritti del beato J.H. Newman, in http://www.newmanfriendsinternational.org/wp-content/uploads/2011/05/italiano-a5-2011-fine_italiano-a5-2011-fine.pdf, consultato in data 14 aprile 2015.

[9] Cf . Giovanni Paolo II, Omelia durante la messa celebrata nel “parque Mattos Neto” di salto (Uruguay), 9 maggio 1988.

[10] Gaudium et spes 22.

[11] Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, n. 1.

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