A Palermo , nei giorni 26 e 27 febbraio 2015 – si è svolto il Convegno: «Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato? Le migrazioni attraverso il Mediterraneo come frontiera di una nuova convivenza umana», al cui interno ho svolto la relazione dal titolo: «Umanità minore. Teologia della piccolezza e umanesimo». Forse proprio nel giorno della memoria della Passione e morte del Signore vale la pena confrontarsi con la questione decisiva del migrare. Eccone il testo.
La teologia deve offrire chiarimenti e deve salvare i fenomeni (E. Jüngel)
Premessa contestuale
Il compito del teologo, in un campo tanto delicato come il “riconoscimento del forestiero come alter Christus”, consiste nell’alimentare la speranza. Per farlo, egli deve offrire chiarimenti e salvare i fenomeni, in tutta la loro complessità, tenendosi lontano da ogni presunzione. Per alimentare la speranza, in effetti, la teologia deve evitare sia la “disperazione catastrofistica”, sia la “presunzione ottimistica”. Per mostrare le insidie di queste cattive consigliere vorrei iniziare con due esempi, assai istruttivi.
Da un lato dobbiamo riconoscere che nella storia recente la Chiesa ha saputo esercitare una reale funzione profetica solo quando non è rimasta vittima di una “autocomprensione ideologica”. Ad es., nella lotta per la libertà, per il superamento della oppressione e della schiavitù, abbiamo usato il concetto di “legge naturale” in modo spesso ideologico. Quando, nel 1865, gli USA hanno iniziato il lungo percorso con cui faticosamente hanno saputo oltrepassare la schiavitù come struttura sociale, hanno dovuto ascoltare obiezioni – che venivano anche dal campo cattolico – secondo le quali “gli uomini sono stati creati diversi da Dio, mentre, con le loro leggi essi pretendono di diventare tutti uguali”…
D’altra parte, se almeno su questo punto, oggi la Chiesa appare aver superato complesse forme di cedimento alla “logica dei tempi”, non sembra che sia totalmente acquisita una vera logica della “integrazione”. Se anche oggi esistono in Italia “scuole parificate”, gestite da importanti movimenti cattolici, che hanno nel loro statuto la impossibilità di accettare iscrizioni di “cittadini non italiani”, questo fatto, in tutta la sua gravità, manifesta il cammino ancora lungo e tutt’altro che scontato verso un vero superamento di ogni forma di emarginazione e di schiavitù.[1]
Premessa tematica
Attraversare il Mediterraneo, da Sud a Nord, per cercare la salvezza: questo è un “fatto”, un “dato”, un “macrofenomeno” che merita ermeneutiche alla altezza della umanità che vi è implicata: in quelle navigazioni, in quelle speranze, in quegli approdi difficili, sofferti e spesso tragici, vengono messe in questione le identità sia di chi sta da un lato delle coste mediterranee, e fugge, sia di chi sta dall’altro, e diventa meta e fine della migrazione. Vi sono, ovviamente, problemi di ordine pubblico, vi sono problemi di ordine sanitario, vi sono problemi di ordine logistico, ma tutto questo, di per sé legittimo, rischia di occupare ideologicamente tutto il campo del nostro sguardo e di renderci ciechi. Leggere il “dato” addirittura come “invasione”, invece che come “trasmigrazione” è già, per principio, applicare una ermeneutica di comodo, anaffettiva, cinica, disumana. Non riconoscere le “storie di salvezza” implicate in questi volti è il modo più semplice e più comune per perpetrare la logica del peccato originale e per restare nella sua necessità inappellabile di divisione. Vi è invece un modo di essere “cittadini responsabili” che si qualifica nel non cedere al mito identitario della “residenzialità violata”, nel mito disumano di un “diritto alla esclusiva sulla propria terra”. In queste semplificazioni, comprensibili ma disumane, noi saremmo tutti genericamente italiani e dovremmo difenderci dallo straniero invasore. Mancanza di memoria e sfiguramento dell’altro nutrono continuamente tale ermeneutica semplicistica e violenta, che si basa sulla paura e sul disprezzo dell’altro. Se poi riuscissimo a dimostrare che ogni migrante è un potenziale terrorista, allora avremmo buon gioco nel fare della “difesa di sé” il criterio della relazione al migrante. Saremmo “vigilanti” nel senso peggiore, non come vergini sagge, ma come vergini stupide, cercando di scovare, nel Signore che viene, il volto di un ladro e di un assassino: capovolgeremmo strutturalmente il vangelo, muteremmo gli aratri in lance e le attesa in terrore.[2]
Tuttavia, per offrire interpretazioni anche solo “civilmente” dignitose, non ci bastano le “evidenze civili”, i “valori”, i “principi della democrazia”: la democrazia vive di evidenze che, da sola, non riesce a produrre, come ha insegnato in modo convincente W. Bökenförde:[3] qui la democrazia entra in scacco, come un formalismo vuoto. Ha bisogno di risorse che, da sé, non riesce a darsi. Noi abbiamo bisogno di “grandi racconti”, di una “storia di salvezza”, di una serie di “riti fondatori”, che la tradizione ebraico-cristiana ci fornisce con dovizia e delicatezza. La democrazia può e deve temperare la violenza dei miti fondatori, ma non può e non deve sostituirli. Vorrei sostare su questi “racconti” e su queste “azioni” – su questi “miti” e su questi “riti” – come chiave ermeneutica di una condizione umana “minore” che in tal modo diventa “maggiore”. Per noi “uscire dalla condizione di minorità” significa riconoscere la autorevolezza di questa “minorità migrante” dalla quale veniamo – tutti – e verso la quale andiamo – tutti. Non basta riconoscere “diritti”, non basta neppure percepire i doveri, le virtù, le dedizioni alla accoglienza: bisogna tematizzare i doni – ricevuti e da condividere: solo una “umanità donata” sa riconoscersi “maggiore nella minorità”.[4]
Il “racconto dei racconti” è, evidentemente, quello di Gesù di Nazareth, figlio dell’uomo e figlio di Dio, nella cui storia, migrazione per eccellenza, noi leggiamo non la sostituzione o la facile consolazione, ma la integrazione di ogni migrazione a rischio, di ogni riconoscimento precario, di ogni sfigurazione, di ogni volto trattato senza rispetto, coperto di sputi, lasciato solo, sfruttato nei suoi bisogni primari, abbandonato alla morte, in mezzo al mare, o nella stiva occulta di un di TIR, o nella sentina puzzolente di una nave.
Di fronte a questo fenomeno imponente dobbiamo offrire ermeneutiche di qualità. Senza le quali facciamo solo disastri o ci rassegniamo ad amministrare la morte.
Intendo articolare il mio discorso in 4 passaggi, portando alla luce quattro dialettiche importanti, sulle quali vorrei che sostassimo a meditare.
Le presento brevemente in successione: il migrare è costitutivo della tradizione ebraico-cristiana, ma si offre, originariamente, ad una dialettica di grazia/peccato. Il migrare è occasione di grazia e punizione per il peccato. (§.1) Di qui la esigenza si superare le logiche di emarginazione/scomunica per entrare in quelle di riconciliazione/integrazione, sia pure ad un prezzo alto (§.2). In tutto questo emergono due ulteriori dialettiche: quella tra primo ed ultimo, tra elementare e definitivo (§.3) e quella tra intenzione cosciente e simboliche involontarie (§.4). Giustamente il titolo di questo convegno è stato formulato come una domanda sulla ospitalità incosciente, non programmata, non pianificata, non dedotta, non anticipabile. Questi quattro passaggi costituiscono il luogo di una cura della “umanità minore” come condizione di umanità.
1) La rilettura del “migrante” tra Primo e Nuovo Testamento: da Abramo a Gesù a Paolo.
Una dialettica tra primo e nuovo Adamo
Abramo, Gesù, Paolo sono tutti costitutivamente “migranti”. Abbiamo inscritta, nel DNA ebraico-cristiano, una identità “non residenziale”.[5]
La “residenza” ebraico-cristiana ha le sue brave dimore, terre promesse e raggiunte, case e palazzi, appartamenti e traslochi, ma mantiene, vivissima e direi strutturale, una “identità non residenziale”. Lasciare la propria terra e rispondere ad una vocazione è una struttura originaria della fede ebraico-cristiana. Che deve essere riconosciuta non solo “in sé”, ma nell’altro. Anzi, è la forma in cui riconosciamo l’altro prossimo e l’altro Dio come costitutivo della identità. Migrare è metafora della forma “donata” dell’essere. Ogni migrante fa del “ricevere” il costitutivo del suo essere. Così è per Abramo, così è per Paolo, così è, radicalmente, per Gesù, nuovo Adamo.
Il vecchio Adamo, invece, capovolge la struttura: introduce nel migrare non la costitutiva recezione della grazia, ma il rifiuto di ricevere, la possibilità della ingratitudine: ponendosi come “principio di sé”, perde se stesso nella vergogna. Nel migrare degli uomini e delle donne si intrecciano queste due storie: il migrare essenziale del “ricevere gratuito”, della “non autosufficienza” e il migrare conseguenza di una “autosufficienza perduta”. Vi è, in questa dialettica delicata, tutta la problematicità del “volto” del migrante, che spiazza ogni residente. E che può essere riconosciuto solo nel ricostruire accuratamente questa dialettica del migrare strutturale e del migrare punitivo.[6]
2) Il lebbroso da cui difendersi e la intimità da ricostruire.
La dialettica tra “scomunica/emarginazione” e “riconciliazione/reintegrazione/accoglienza/uscita”
Nell’ultima domenica del tempo ordinario prima dell’inizio della Quaresima, abbiamo ascoltato, quest’anno 2015, il vangelo della guarigione del lebbroso nella versione di Marco. Lo stesso giorno, in Vaticano, durante il Concistoro, papa Francesco commentava programmaticamente quel vangelo con una ermeneutica potentissima: egli distingueva tra due logiche, che si fronteggiano e che tendono ad escludersi:
“Sono due logiche di pensiero e di fede: la paura di perdere i salvati e il desiderio di salvare i perduti. Anche oggi accade, a volte, di trovarci nell’incrocio di queste due logiche: quella dei dottori della legge, ossia emarginare il pericolo allontanando la persona contagiata, e la logica di Dio che, con la sua misericordia, abbraccia e accoglie reintegrando e trasfigurando il male in bene, la condanna in salvezza e l’esclusione in annuncio. Queste due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare”
Ciò che deve essere notato, qui, è il modo particolare con cui Gesù imposta la relazione con il lebbroso. Per uscire dalla logica della “scomunica/emarginazione” il “corpo di Cristo” diventa marginale. Lo scandalo per la riconciliazione è capovolto. Non emargina più il lebbroso, ma colui che, portando a compimento la legge, appare come “nemico” e “negatore” della legge.
Dio si era manifestato come “salvezza del popolo dalla lebbra”. Ora Gesù pretende di “salvare il popolo anche “come” lebbra”! Non è un caso che il brano, che inizia con la “emarginazione del lebbroso” finisca con la “emarginazione del Signore”:
“«Non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti» (Mc 1,45). Questo significa che, oltre a guarire il lebbroso, Gesù ne ha preso su di sé anche l’emarginazione che la legge di Mosè imponeva (cfr Lv 13,1-2.45-46). Gesù non ha paura del rischio di assumere la sofferenza dell’altro, ma ne paga fino in fondo il prezzo (cfr Is 53,4).”
In un sottile rapporto dialettico, la Chiesa può imparare il “prezzo” della riconciliazione. Essa non è semplicemente il “dono di grazia” che Dio riserva ad ogni uomo, ma anche “il lavoro della libertà” implicato in questo dono da accogliere e rilanciare.
Il “migrante” può essere “designificato” anche da una pratica incompleta della carità. Predisporre forme “emarginanti di accoglienza” fa dimenticare, facilmente, che la Chiesa stessa è “campo profughi”. Bella questa immagine, che papa Francesco ha profeticamente utilizzato nella famosa intervista alla rivista “Civiltà cattolica”: la verità del discepolato di Cristo sa che il “miracolo” del prendersi cura del lebbroso emargina il Signore e chi lo segue. Una Chiesa che riconosca questo dato non si autocomprende in profondità se non si sente convocata, dal suo Signore, al centro del campo profughi del migrare costitutivo dei viventi che cercano la salvezza, lasciando la loro terra.
3) Dialettica e singolare coincidenza tra “ultimo e primo”, tra “minore e prioritario”
Un altro aspetto, in un tratteggio sommario di questa “teologia della piccolezza” – della kenosi come criterio del discepolato e del giudizio ultimo – sta nell’individuare le “forme elementari” che strutturano questa “azione di riconciliazione”. L’accogliere, nel suo nucleo più delicato, è “prendersi cura di corpi, di volti, di storie, di speranze”. Per farlo si inizia sempre da ciò che è più elementare,[7] ossia dal
– lavare e vestire
– profumare e riconoscere
– nutrire e far crescere[8]
Le immagini che talvolta ci giungono – di lavaggi meno che bestiali e irrispettosi, di degrado nel nutrimento, di maleodore e squallore di condizioni intollerabili – sfigurano inevitabilmente ogni soggetto: rendono impossibile il riconoscimento che costituisce il cuore delicato della vera accoglienza, tanto civile quanto religiosa. “Levarsi i sandali dinanzi alla terra sacra dell’altro” è l’espressione potente con cui ancora Papa Francesco ha voluto disegnare, in modo efficacissimo, il movimento della accoglienza più radicale: onorare Cristo nel migrante è possibile solo con una accuratissima revisione delle “forme” della accoglienza. Quanto è stato fatto, con grande sollecitudine e con delicato pudore, da tante donne e tanti uomini, sulle coste italiane del sud, è il segno irreversibile di una ermeneutica corretta. Che però, facilmente, degrada, non appena l’apparato burocratico inizia a trattare “impersonalmente” i soggetti.
Ha scritto il grande sociologo tedesco N. Luhmann:
“La società moderna si distingue dalle precedenti formazioni sociali per un duplice incremento: una maggiore possibilità di relazioni impersonali e relazioni personali più intense”.[9]
Il nostro “tono medio” è questo: in esso ad una maggiore impersonalità si accompagna un nuovo e urgente bisogno di intimità. La correlazione tra la ”efficienza sovrana” e la “contingenza accurata” appare sempre molto complessa. La società è “complessa” proprio perché facilmente “degenera” in sentimentalismo intimo senza comunità o in struttura impersonale senza contatto. Penso che sia importante una riscoperta della “contingenza”, nel senso alto che ha saputo darle J.L. Marion: nella sua comprensione contingenza non è il contrario della necessità, ma è il contrario dell’isolamento, della separazione: “contingo” come “toccare/essere toccati”.[10] Il “tatto” è la prima virtù della accoglienza, è il riconoscimento del contatto e il contatto del riconoscersi riconosciuti. Una “teoria/teologia della contingenza” è l’orizzonte necessario ad una ermeneutica adeguata alla “migrazione” come struttura dell’umano. E riscopre un umanesimo concreto e in atto, che non cada nella trappola di catturare l’altro nella prigione di una ideologia. Si lascia spiazzare dall’altro bisognoso e inerme.
4) Dialettica e profezia del “non sapere”:
né capri né pecore, né buoni né cattivi sono all’altezza della sfida del riconoscimento
Del tutto sorprendente, infine – e in forte tensione con la traduzione “morale” del racconto di Matteo sul giudizio finale – è il basso continuo della ostinata confessione di un “non sapere”. Il mistero del rivelarsi di Dio nel bisognoso, nell’affamato e nell’assetato resta insondabile, anche quando si rivela. E’ mistero proprio perché si rivela. Ma resta, direi necessariamente, contingente, affidato al “contatto concreto”. Non lo si sa mai in anticipo: l’incontro con il Signore come migrante disperato, affamato, assetato, incarcerato, malato non si lascia tradurre in un “sapere acquisito”: cadono tutti dalle nuvole, sia coloro che hanno fallito nell’azione, sia coloro che hanno compiuto l’azione giusta. E’ un “agire contingente” – capace di tatto – la garanzia dell’incontro, al di qua di ogni “sapere del soggetto”.
Ciò ha molte conseguenze rilevanti: soprattutto nel senso che il “definitivo” si presenta come “primario”. Il giudizio ultimo è custodito da un “presentimento”, che si cela nella azione giusta, nel contatto accettato, nel soccorso prestato, nel bicchiere offerto, nel tempo perduto, nell’ascolto garantito, nello sguardo incrociato. Atto elementare che si fa criterio di giudizio ultimo. E’ la “forma di umanesimo” che coniuga strutturalmente “profondo ed elementare”, “spirituale e carnale”, centro e periferia, tatto e intelletto, azione e pensiero. Ascolto e tatto sono principio di umanità, non esercizio di virtù: o, meglio, il tratto “virtuoso” è originario e non accessorio per la umanità dell’uomo.
Una grande rieducazione: questa potrebbe essere, in forma paradossale, la occasione che queste donne e uomini “in fuga” offrono alla nostra forma di “umanità”: recuperare, nel rapporto con la loro “umanità minore”, una più profonda coscienza della “non autosufficienza” constitutiva dell’umano, che solo la cura, il tatto e la sollecitudine dell’altro promuove e struttura.
Conclusione
Permettetemi di concludere con il grande testo già citato, che papa Francesco ha pronunciato come omelia il 15 febbraio scorso. In esso papa Francesco, nella conclusione, si rivolge ai Cardinali e a tutti i battezzati, con un ultimo riferimento potente alla identità dell’emarginato, del migrante, del perseguitato, come “alter Christus”.
“Cari fratelli nuovi Cardinali, guardando a Gesù e alla nostra Madre, vi esorto a servire la Chiesa in modo tale che i cristiani – edificati dalla nostra testimonianza – non siano tentati di stare con Gesù senza voler stare con gli emarginati, isolandosi in una casta che nulla ha di autenticamente ecclesiale. Vi esorto a servire Gesù crocifisso in ogni persona emarginata, per qualsiasi motivo; a vedere il Signore in ogni persona esclusa che ha fame, che ha sete, che è nuda; il Signore che è presente anche in coloro che hanno perso la fede, o che si sono allontanati dal vivere la propria fede, o che si dichiarano atei; il Signore che è in carcere, che è ammalato, che non ha lavoro, che è perseguitato; il Signore che è nel lebbroso – nel corpo o nell’anima -, che è discriminato! Non scopriamo il Signore se non accogliamo in modo autentico l’emarginato! Ricordiamo sempre l’immagine di san Francesco che non ha avuto paura di abbracciare il lebbroso e di accogliere coloro che soffrono qualsiasi genere di emarginazione. In realtà, cari fratelli, sul vangelo degli emarginati, si gioca e si scopre e si rivela la nostra credibilità!”
Non così raramente accade che la Chiesa trovi nei suoi pastori le “punte avanzate” della propria profezia. Esercitare profeticamente il magistero oggi significa richiamare ad una “teologia della contingenza” e a un “pensiero incompleto”, che possa essere, proprio per questo, radicalmente approssimato e principio di radicale prossimità. Solo così fedeltà al Vangelo di Dio e cura per l’ incontro col prossimo possono riconoscersi e accompagnarsi vicendevolmente. In tale compagnia ogni uomo e ogni donna merita di essere accolto, lavato, profumato e nutrito, con lo stile umano e cristiano di una prassi familiare ed ecclesiale.
Pubblicato il 3 aprile 2015 nel blog: Come se non.
[1] C’è da sperare che nella invocata “parificazione” formale di tali scuole, con opportuna detrazione fiscale, lo Stato si preoccupi di non finanziare “sacche di emarginazione”, che pretenderebbero di esser coperte e avallate, oltre che dalla legge dello Stato, anche dalla croce di Cristo!
[2] Come ha detto una simpatica bambina, figlia di conoscenti, letteralmente innamorata di papa Francesco: «se però arrivano quelli dell’ISIS, non sarò obbligata a dire che il papa lo conosco e mi interessa, vero?»
[3] Preziosa è la riflessione su questo tema di E.-W. Bökenförde, Riflessioni per una teologia del diritto secolare moderno, in Id., Cristianesimo, libertà, democrazia, Brescia, Morcelliana, 2007, 269-294.
[4] Se ci lasciamo toccare dal bel film-documentario Come un uomo sulla terra (del 2008, opera dei registi Andrea Segre, Riccardo Biadene, Dagmawi Yimer), vediamo bene la ipocrisia delle strutture ufficiali di accoglienza. Uomini e donne condotti avanti e indietro, dal deserto alle coste libiche, per 4 o 5 volte, in viaggi disumani, in campi disumani, con violenze e soprusi continui, venduti come schiavi per 30 denari, in una tragedia lunga mesi ed anni. Questi sono i volti di coloro che sbarcano a Lampedusa. Pur di sfuggire a quell’inferno di arbitrio disumano, sfidano un viaggio con mare a forza 8, considerandolo comprensibilmente come una via di salvezza irresistibile.
[5] Nella tradizione di vocazione religiosa cristiana, il monachesimo antico ha sviluppato una “stabilitas” dove la residenza è “marginale” nella forma della clausura. La stabilità “chiusa” assume la “emarginazione” all’interno della stabilitas. Viceversa gli ordini mendicanti faranno, dal XIII secolo, della migrazione la loro norma, Entrambe le forme, tuttavia, hanno in comune una lettura critica della residenzialità.
[6] Questa “confusione” ci permette, con facilità, di cedere alla tentazione di rinchiudere tutti i migranti contemporanei nel secondo gruppo, che può essere considerato quello di “coloro che meritano la loro condizione”. Vi sarebbe, dunque, un “colpa” nel migrare, nel lasciare la propria terra, nel cerca fortuna e grazia altrove. La unilateralità violenta di questa “ermeneutica dei puri residenti” insidia profondamente ogni “politica” e ogni “morale” nei confronti della migrazione. Determina così politiche e morali dalla memoria corta.
[7] Ho cercato di leggere in questo modo la “spiritualità cristiana” in A. Grillo, Per una spiritualità elementare (in dieci parole chiave), Assisi, Cittadella, 2011.
[8] Vi è una “affinità” strutturale tra la forma della accoglienza e la iniziazione cristiana. Su questo tema uno studio importante è stato fatto da C. Scordato, L’accoglienza nel RICA. Per una interpretazione teologica, in AA.VV., L’accoglienza nella comunità ecclesiale. Il RICA a vent’anni dalla promulgazione, Palermo, EDI OFTES, 1993, 177-211.
[9] N. Luhmann, Amore come passione, Milano, Bruno Mondadori, 2006, 1. Il titolo originale tedesco ha come sottotitolo (assente nella versione italiana): Sulla codificazione della intimità.
[10] Cf. J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, , Torino, SEI, 2001, 185ss.
Il pellegrino, per definizione: arriva, mangia, dorme e se ne va. Il “migrante” arriva, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme, mangia, dorme….
Linguaggio molto emotivo e narrazione accattivante. Domanda: Questa teologia serve all’emigrazione o l’emigrazione serve alla nuova visione della Chiesa? Stranamente la definizione dell’emigrante come alter Christus fa venire in mente la parabola della zizzania. Professore nella sua proposta tutto diventa bene e buono. Il credente capace di vedere l'”alter Christus” ed il migrante che è “alter Christus” per definizione. Mi sembra che le cose siano più complesse. Domanda: il migrante diventa “alter Christus” quando parte o quando arriva? So che questo modo di ragionare può apparire blasfemo. Ma il succo è che tutto il suo ragionamento è sbilanciato nel vedere solo il bene e nel trascurare l’identità personale e nazionale. Si vede solo il bisogno estremo di alcuni e si trascurano altre motivazioni, non sempre legate al bisogno. Tutti hanno diritto di migliorare ma questo avviene attraverso una contrattazione win-win, che sarebbe dignitosa per tutti. La narrazione che la migrazione sia l’unica soluzione, anche per i migranti economici, è falsa perché incompleta, presentata come esclusiva e risolutoria.