Si è spento a novant’anni, il 10 luglio, dopo essere stato colpito domenica 8 da un ictus. Mai avrei pensato di trovarmi per caso davanti alla sua bara esposta nella cattedrale del Buon Pastore di San Sebastián mercoledì 11 luglio, quando si sono celebrate le esequie presiedute dal suo successore mons. Munilla, che continua a non gradire la figura di José María Setién, di cui si è scritto – il giorno stesso della sua morte – che aveva fatto della politica la sua religione e della religione la sua politica. Uno stereotipo vergognoso.
Il “Tarancón” dei Paesi Baschi
Lo incontrai tante volte e mi rilasciò non poche interviste soprattutto sull’autodeterminazione del popolo basco e l’attività dell’ETA. José María Setién: acuto, razionale, ironico, legato alla sua terra basca e, nel contempo, capace di visione universale. Figura unica nella Conferenza episcopale spagnola fino alle sue dimissioni, date prima del tempo, rese note nel gennaio 2000. Lo chiamavano il «Tarancón» dei Paesi Baschi. Ogni suo intervento suscitava interesse e innescava discussioni a non finire. Uomo di grande erudizione soprattutto nel campo del diritto. Veniva da una famiglia liberale, il padre era architetto, aveva un curriculum di studi di notevole rilievo, l’insegnamento universitario nella celebre Salamanca e un’oculata attività pastorale.
Vescovo ausiliare di San Sebastian nel ’72, divenne titolare nel ’79. Affrontò la questione basca con una connotazione tipica del suo carattere e sulla scorta di profondi studi giuridici. La «razionalizzazione» dei problemi era il suo punto di partenza e il suo obiettivo. Non ha mai legato la «questione basca» al sentimentalismo, ma alla sua valenza culturale, sociale e politica. Non che gli mancasse il sentimento, ma richiedeva a se stesso e agli altri principi e metodi di lavoro severi, che a taluni davano fastidio. Bersaglio di critiche anche da parte del mondo ecclesiastico ed ecclesiale. La sua gente gli voleva bene e tanto.
Tutte le volte che lo incontravo a San Sebastian avevo la sensazione che fosse per davvero la figura di riferimento nei Paesi Baschi. Lo testimonia il suo ex vicario generale, il teologo José Antonio Pagola, che a stento trattiene la commozione.
Alla notizia delle dimissioni, giornali come ABC e La Razón fecero salti di gioia. Mi confessò: «Le reazioni contrarie alla mia persona non sono state per me una grande novità, né mi hanno causato alcuna sorpresa. Non sono apparse solo sui giornali. In alcune trasmissioni radiofoniche si è arrivati a estremi insoliti. Il direttore di una radio importante, statale, mi ha chiesto scusa per iscritto e mi ha promesso che obbligherà il responsabile di qualche trasmissione a chiedermi pubblicamente scusa. Non so se lo faranno. In ogni caso, mi hanno interessato il fatto della mia sostituzione e i suoi effetti prevedibili più che le reazioni dei mass media».
Il 14 gennaio del 2000, El Mundo uscì con un titolo a tutto tondo: «La logica sostituzione di mons. Setién per il bene della Chiesa di San Sebastian». Era in riferimento alla «questione basca».
Me lo commentò con sottile ironia: «È importante porre i problemi se vogliamo trovare la soluzione adeguata. La divisione del popolo è una realtà che precede il comportamento di un vescovo, chiunque egli sia. Pensare che gli attuali contrasti tra i nazionalisti baschi e gli spagnolisti siano frutto del comportamento di un vescovo supporrebbe un’inspiegabile cecità e perfino una malafede. Se, a questo, aggiungiamo che tra coloro che si dicono cristiani, dell’uno o dell’altro schieramento politico, e nelle questioni che li dividono vi sono implicazioni etiche davanti alle quali il vescovo non può tirarsi indietro, è evidente che le divisioni socio-politiche necessariamente toccano l’esercizio del ministero pastorale. Il problema può essere anche nel vescovo, però, in ogni modo, gli è anteriore e sta nel sapere se tutti sono disposti ad accettare le conseguenze dei giudizi etico-religiosi del pastore al di sopra degli interessi politici, cosa difficile da credere, o se, per evitare questo giudizio, preferirebbero che egli si mantenesse al di fuori e in silenzio per non interferire in una politica che divide. Il problema deve porsi là dove è, senza deviarlo in modo interessato su altre rotte».
Un vescovo scomodo
Negli ultimi anni del suo ministero pastorale gli era certamente venuto a mancare l’appoggio dell’arcivescovo di Madrid e presidente della Conferenza episcopale, il card. Rouco Varela, notoriamente uomo del Vaticano e molto influente su Giovanni Paolo II.
In certi settori politici Setién era chiamato il «vescovo rosso» e lo si poteva leggere a caratteri cubitali sui muri della città. Glielo ricordai e rise sonoramente: «Forse la mia risposta può sembrare eccessivamente semplice, se non addirittura apologetica. È noto che la classificazione delle persone, fatta attraverso l’attribuzione di una determinata denominazione di contenuto, non facilmente definibile, suole essere interessata o, se si vuole, funzionalmente utile. Penso che qualcosa del genere possa essere successo con me. Mi è difficile accettare di poter rientrare in ciò che sembra significare la parola “rosso”, almeno per quanto conosco la parola italiana. Mi sembra più esatto dire che ho cercato di applicare quella che ho creduto essere la dottrina della Chiesa in rapporto alla giustizia nella sua dimensione pubblica e sociale, al di là di una comprensione privata o privatistica dei rapporti di giustizia che devono esistere tra i cittadini. Naturalmente questo è un campo molto delicato nel quale è impossibile soddisfare tutti e sempre. Tuttavia, la molteplicità delle angolazioni dalle quali uno può essere criticato rende proprio più difficile che possa essere catalogato con una sola parola, per quanta elasticità si voglia dare alla medesima».
Setién ha sempre voluto servire il vangelo dentro la Chiesa con una disposizione di spirito non da tutti condivisa e accettata, certamente meditata e sofferta: «I valori evangelici devono rivestirsi di storicità, perché si possa dire che sono valori umani. Non v’è dubbio che, se si raggiunge questo obiettivo, l’annuncio del vangelo può avere una innegabile novità, cosa che deriva dalla sua attualità o capacità di risposta alla novità di ogni momento storico cangiante».
È il testamento di un grande della Chiesa spagnola e non solo.