Padre Federico Lombardi, gesuita, per lungo tempo responsabile della Sala Stampa vaticana, offre alcuni criteri del perché e di cosa comunicare: per unire le persone, per affermare la verità, per diffondere il bene attraverso le «buone notizie», per scoprire e coltivare la bellezza. La relazione che qui riprendiamo è stata tenuta da padre Lombardi a Rovereto (Trento), presso la Fondazione Opera Campana dei caduti, il 25 maggio 2018.
La comunicazione, nei tempi recenti, è diventata una dimensione sempre più importante della nostra vita e della vita della società moderna. Grazie allo sviluppo rapidissimo delle nuove tecnologie, le forme e le possibilità di comunicazione si sono allargate e moltiplicate. Quasi tutti noi, anche senza rendercene conto, viviamo ormai permanentemente connessi con i dispositivi mobili da cui non riusciamo più a staccarci.
Ma io non intendo intrattenermi con voi sugli sviluppi della tecnologia. Con il passare del tempo il tema delle tecniche con cui comunicare mi è apparso sempre meno importante rispetto a quello – spesso sottovalutato se non talvolta addirittura dimenticato – del «perché» e del «che cosa» comunicare.
1. Comunicare per l’unione
La prima riflessione è questa: comunicare per l’unione. Si può comunicare per unire e si può comunicare per dividere. Si può comunicare per stabilire un dialogo, per arrivare all’incontro con l’altra persona e, in questo modo, per costruire insieme comunione nella società, nella famiglia dei popoli, nella Chiesa. Oppure si può comunicare per dividere, per offendere, per diffondere l’odio, per umiliare l’altro e metterci al disopra di lui, per sostenere gli interessi di una parte contro l’altra.
La propaganda di guerra ha sempre inculcato l’odio per condurre i popoli ad uccidersi. Nel 1994, mentre da pochi anni lavoravo nella radio, mi resi conto come il genocidio del Rwanda veniva incoraggiato con terribile efficacia dalla famigerata «Radio delle mille colline», sistematica seminatrice di odio. Non l’ho mai dimenticato.
A volte si teorizza che la comunicazione è più efficace, interessante e dinamica, proprio se è conflittuale, se vive di contrapposizioni e di lotte. Si esalta l’aggressività di certi conduttori o commentatori. Il tono e il linguaggio aggressivo sono spesso considerati una dote. Moltissime trasmissioni televisive, talk show, dibattiti, che vediamo ogni sera, sono impostati e condotti a partire dall’esclusione programmatica dell’ascolto, della benevolenza nell’interpretare ciò che l’altro dice. Le accuse si moltiplicano anche senza una verifica della loro fondatezza. Ma quale società potremo mai costruire insieme su queste basi?
Finalmente ora si discute più intensamente del modo in cui la Rete è usata per diffondere il terrorismo, per catalizzare e canalizzare l’odio verso sempre nuovi obiettivi deleteri per la pace nella società e nel mondo. Anche senza arrivare a queste punte di criminalità, si comincia a riconoscere quanto sia grave il rischio della diffusione nella Rete dello hate speech, del linguaggio che ispira e semina odio. Perciò ho trovato molto positiva la notizia di una community trasversale di oltre 1.000 persone tra giornalisti, manager, docenti e comunicatori che si è riunita a Trieste un anno fa per riflettere sugli stili comunicativi, sul fenomeno della violenza online, sull’influsso delle parole nella società e sull’importanza di sceglierle con cura in un tempo in cui si diffondono tante notizie false, tanti contenuti offensivi e discriminatori, tante provocazioni e accuse infondate.
I lavori sono stati seguiti da quasi 4 milioni di persone su Facebook e Twitter e si sono conclusi con la formulazione di un manifesto votato in rete da 17.000 persone, che contiene un decalogo di semplici principi che si propongono di «rendere il web un luogo migliore». Ne cito solo tre: «Prima di parlare bisogna ascoltare. Nessuno ha sempre ragione, neanche io. Ascolto con onestà e apertura»; oppure: «Le idee si possono discutere, le persone si devono rispettare. Non trasformo chi sostiene opinioni che non condivido in un nemico da annientare»; ancora: «Gli insulti non sono argomenti. Non accetto insulti e aggressività, nemmeno a favore della mia tesi» (cf. F. Occhetta, «Tempo di post-verità o di post-coscienza?», in Civiltà Cattolica 2017, II, 222-223). Qui siamo sulla buona strada, ma perché il web diventi veramente migliore la strada è molto lunga, le iniziative come questa si devono moltiplicare.
Io ho sempre considerato tutto ciò un aspetto fondamentale di ogni forma di comunicazione, e ho sempre invitato i miei collaboratori ad assumere con decisione il motto: «Comunicare per unire, comunicazione per costruire comunione».
Sono convinto che questa non è affatto una considerazione astratta, ma concretissima. Si tratta dell’atteggiamento con cui si affronta ogni giorno un problema controverso di attualità, del modo in cui viene condotta un’intervista o un dibattito, della vera disponibilità ad ascoltare gli interlocutori, alla fine anche dell’espressione del nostro volto, del tono della nostra voce, che è un potentissimo identikit della nostra personalità, delle disposizioni della nostra anima.
Cultura dell’incontro
Papa Francesco ha inserito nell’uso comune una bellissima espressione, di cui ho compreso solo dopo diverso tempo la ricchezza e il valore. Egli parla continuamente della «cultura dell’incontro», che naturalmente si oppone alla «cultura dello scontro».
Cultura dell’incontro vuol dire: cercare sempre di entrare in una relazione positiva e costruttiva con l’altro, con gli altri, anche con tutte le persone diverse per origine, cultura, formazione, orientamento. Cercare sempre il dialogo, esprimendo ed esponendo noi stessi con autenticità, fiducia, coraggio, per offrire noi stessi all’altro e per accogliere l’altro e ciò che ci può dare. Il nostro atteggiamento di apertura invita l’altro ad aprirsi. Così potremo tutti e due ricevere reciprocamente un dono nuovo, fare un passo avanti rispetto al punto in cui eravamo prima. E papa Francesco parla anche volentieri di «empatia», di quella simpatia benevola e ottimistica con cui ci sintonizziamo sulle frequenze della personalità dell’altro e diventiamo disposti alla sorpresa positiva, duttili nei confronti di ciò che l’altro potrà veramente dire e testimoniare.
Ho detto molte volte ai miei collaboratori che la comunicazione con la radio non va dalla bocca all’orecchio, e neppure solo dal mio cervello a quello dell’ascoltatore. Certamente passa attraverso il cervello, la bocca, il microfono, le onde elettromagnetiche, il ricevitore, l’orecchio, il cervello dell’altro… ma all’inizio e alla fine deve partire dal cuore e dalla coscienza e arrivare al cuore. Quelle che comunicano sono persone umane, con tutta la loro profondità. Noi scriviamo, parliamo, inviamo immagini per farle incontrare, e perché dal loro incontro scocchi la scintilla che le mette in cammino insieme.
2. Comunicare per la verità
E poi, comunicare per la verità. Un mio antico professore di liceo ci ripeteva: «La parola è fatta per la verità», e questo ha continuato a girarmi per la testa. Anche questo può sembrare un principio astratto, ma non lo è per nulla. Ci sono molti modi di violare la verità nel campo dell’informazione: a cominciare dal diffondere una verità parziale che, proprio perché non è completa o equilibrata, conduce sulla strada sbagliata. Ciò avviene spesso per un disegno intenzionale e manipolatore, che nasce da interessi di persone o di gruppi, per il potere o per il vantaggio economico. Peggio ancora se vi è poi addirittura la diffusione voluta delle falsità per ingannare.
La buona informazione è la base per vivere in modo responsabile nella società, esercitare la partecipazione democratica nella comunità. Per questo giustamente si parla del «diritto all’informazione» e si deve combattere per un’informazione libera e pluralistica, in modo che la varietà dei punti di vista ci difenda dalla manipolazione di un’informazione unilaterale.
La cattiva informazione vuole strumentalizzare gli altri per i propri interessi, negando la loro libertà e dignità di farsi un proprio giudizio adeguato sulla realtà.
La buona informazione non solo cerca di dare una prospettiva obiettiva, ma aiuta anche ad allargare sempre più lo sguardo, a vedere le guerre e le povertà dimenticate, a dar voce a chi non ha voce, a renderci coscienti di ciò che si preferisce non vedere e non sentire, perché può turbare la nostra tranquillità e la nostra coscienza.
Oppure, si cerca di nascondere la verità o manipolarla per tutelare la propria immagine, evitando che vengano alla luce illegalità, scandali, comportamenti scorretti. Su questo, nella Chiesa, abbiamo fatto un’esperienza molto dura soprattutto con le vicende che riguardano gli abusi sessuali nei confronti di minori.
Voglio insistere che dovremmo aver imparato una volta per tutte che una cultura e un comportamento guidati dal principio del cover up, della copertura degli scandali, e del primato dato a un’immagine buona, ma falsa, di noi stessi e delle nostre comunità e istituzioni è fonte di incalcolabili sofferenze e tragedie. Dobbiamo essere più attenti alla verità che alla «cura dell’immagine».
Riconoscere la verità, diventare sempre più trasparenti nei suoi confronti e portarne il peso anche quando è doloroso, è l’unica linea da seguire nella comunicazione. Lo dico in base alla mia esperienza nella Chiesa, ma dovrebbe valere per tutte le istituzioni. C’è moltissimo da fare, perché la tendenza a nascondere ciò che danneggia la propria immagine o i propri interessi rimarrà sempre fortissima, in tutti. Perciò bisognerà sempre impegnarsi contro ogni forma di corruzione morale ed economica e contro ogni sua copertura, per costruire una comunità civile rispettosa della legalità, della giustizia e dei diritti delle persone. In questo anche la funzione di un buon giornalismo che ci spinga a crescere nella verità e nella trasparenza rimane fondamentale.
Oggi si parla sempre più frequentemente del problema delle falsità che circolano nella rete, delle fake news, che si diffondono molto rapidamente, di cui non si identifica l’origine e che non si riescono a controllare e a contraddire. A volte, diffondere notizie infondate poteva sembrare un gioco. Ma alla fine diventa un gioco tragico. È un problema molto grave, che mina il clima di fiducia che è necessario per la vita di una società sana, per un dialogo sereno alla ricerca delle soluzioni dei problemi comuni.
Giustamente si stanno sviluppando criteri di allerta e suggerimenti per difendersi dal fenomeno delle fake news. Ma il problema è più ampio. Paradossalmente, proprio la rete, che è stata salutata da molti come una nuova possibilità di libera espressione, di democrazia e di partecipazione, manifesta, allo stesso tempo, la sua ambiguità come possibile terreno di nuova e più insidiosa manipolazione. Il grande scandalo sulla violazione della privacy che ha coinvolto Facebook e lo ha portato sul banco degli accusati è il venire alla luce su scala globale di questi rischi.
Ciò che avviene oggi nelle grandi campagne elettorali o pubblicitarie ci aiuta ad intuire come grandi poteri economici, politici e ideologici hanno già imparato a usare i nuovi strumenti tecnologici di comunicazione a vantaggio dei loro interessi. Dobbiamo esserne consapevoli e cercare di smascherarli o tutelarci per quanto possibile.
Risultare credibili
Molte domande non hanno risposta, o non l’hanno ancora, o noi non la conosciamo ancora. Non dobbiamo aver paura di riconoscerlo. Anzi, solo se lo riconosciamo serenamente saremo credibili. Nel mio servizio alla Sala Stampa vaticana ci sono state moltissime occasioni in cui non avevo la risposta alle domande che i giornalisti mi facevano. A volte, perché non ero abbastanza informato, a volte, perché la risposta proprio non c’era, perché ciò che mi chiedevano non era stato ancora stabilito.
Non ho mai cercato di mascherare la mia ignoranza o di inventarmi delle risposte che non avevo. Dicevo che mi sarei informato per essere in grado di rispondere, o che avrei seguito attentamente gli eventi per dare appena possibile le informazioni attese.
Questo avvenne molto spesso dopo la rinuncia di papa Benedetto, poiché la situazione era del tutto nuova. Ebbene, ricordo che un giorno fui sorpreso nel leggere un articolo del giornale francese Le Monde che commentava molto favorevolmente questo mio comportamento. Diceva che il Vaticano inaugurava un nuovo stile perché il portavoce, quando non sa una cosa, lo dice subito e chiaramente e non cerca di mascherarlo. Questo era considerato uno stile nuovo, originale e positivo. Si vede che la cosa non era così ovvia come sembrava a me. Effettivamente, questa linea non mi ha creato la fama di essere onnisciente, ma in fondo ha giovato alla mia credibilità. Essere credibili è fondamentale per meritare fiducia, che è la base per un dialogo e un cammino comune.
Ma quando parlo di «comunicare per la verità» non penso solo all’informazione sulla verità dei fatti nel suo significato oggettivo. Penso anche alla dimensione esistenziale della verità. La verità della lettura più in profondità del senso delle cose e degli avvenimenti, la verità delle persone.
Questa è una verità che non è immediatamente evidente, ma che va cercata con curiosità e con pazienza, che va svelata gradualmente quando non si vuol rimanere alla superficie degli eventi, o lasciarsi ingannare dalle maschere dietro a cui molte persone si nascondono coscientemente o incoscientemente.
Questo senso della progressività nella ricerca della verità mi sembra la giustificazione più profonda del modo davvero coraggioso con cui il papa Francesco si è mostrato gradualmente sempre più disposto a dialogare e a farsi intervistare. È una testimonianza del fatto che la verità delle risposte che si riferiscono alla vita non è data in astratto in formule precostituite, ma va cercata con un cammino, un itinerario che si approssima alla risposta grazie alla dinamica del dialogo, e a volte non raggiunge “l’ultima parola”, quella definitiva, ma indirizza verso la necessità di un cammino ulteriore, come quando ci si avvicina alle domande più grandi sulla vita e sulla morte, sulla sofferenza degli innocenti e sul senso della storia.
Dobbiamo essere in cammino insieme verso lo svelarsi della verità nelle situazioni concrete della vita e della storia. E a volte dobbiamo anche riconoscere di non avere la risposta.
Ma attenzione. Questo senso di dinamica nella ricerca della verità che ho cercato di esprimere non va in nessun modo confuso con il relativismo, con il regno della post-verità, in cui non è più possibile distinguere il vero dal falso e il bene dal male, anzi ne è esattamente l’opposto.
I talk show in cui tutte le posizioni vengono giustapposte e si esalta la libertà individuale di dire e fare ciò che si vuole e di affermare qualsiasi posizione; il moltiplicarsi all’infinito dell’esibizione di opinioni ed esperienze soggettive nel mare sconfinato della rete, ci portano a considerare sempre più normale di poter fare a meno della verità. È un gioco immensamente rischioso.
La parola è fatta per la verità, non per la falsità e l’inganno. Il dialogo è fatto per aiutarci a vicenda ad avvicinarci alla trasparenza della verità dei fatti e per scoprire l’autenticità, la verità vissuta delle persone. Per gli informatori e i comunicatori su questi punti non ci possono essere compromessi di alcun genere. La verità dobbiamo affermarla quando la conosciamo, dobbiamo cercarla con pazienza e coraggio, metterla in luce con la trasparenza e la testimonianza nella vita.
3. Comunicare per il bene, per la bontà
Terzo punto: comunicare per il bene, per la bontà. La presenza del male nel mondo è una realtà terribile, pervasiva e potentissima. La violenza dei conflitti armati, delle stragi, degli attentati omicidi; le forme di oppressione, di sfruttamento e traffico di persone; la corruzione che invade e corrompe le istituzioni e la vita politica ed economica in grandi regioni del mondo… tutto questo arriva continuamente fino a noi ed entra nella nostra vita attraverso i media, con notizie e immagini sempre più impressionanti.
Anche se manifestiamo il nostro orrore e la nostra condanna, sentiamo sempre più frequentemente un senso di impotenza di fronte al male che genera in noi passività, scoraggiamento, alla fine diciamo pure disperazione. Giustamente papa Ratzinger ha detto più volte che la potenza del male nel mondo è la sfida più difficile per la fede e la speranza dei credenti: Dov’è Dio? Dove la giustizia? Recentemente, rivolgendosi agli operatori delle comunicazioni sociali, papa Francesco diceva: «Credo che ci sia bisogno di spezzare il circolo vizioso dell’angoscia e arginare la spirale della paura, frutto dell’abitudine a fissare l’attenzione sulle «cattive notizie»… dobbiamo oltrepassare quel sentimento di malumore e rassegnazione che spesso ci afferra, gettandoci nell’apatia, ingenerando paure e l’impressione che al male non si possa porre limite» (Messaggio per la 51ª Giornata mondiale comunicazioni, 24.1.2017).
Come sappiamo, generalmente le dinamiche della comunicazione portano a dare particolare evidenza e peso alle notizie più cattive, ai disastri, ai conflitti, agli scandali; la sofferenza viene trasformata in spettacolo, senza alcun limite di rispetto e senso di compassione… ma così l’oscurità del male diventa sempre più fitta e incombente sul nostro orizzonte quotidiano.
Queste cose purtroppo sono vere, e sarebbe molto grave se noi non dessimo conto con realismo della gravità dei problemi, delle sofferenze e dei rischi che l’umanità sta correndo. Quindi è assolutamente necessario parlarne obiettivamente, per condannarle e per richiamare alle responsabilità, dato che la gran parte delle cause del male risiede proprio nel cuore dell’uomo e nel cattivo uso della sua libertà.
Ma quello che ora voglio dire è che il male non è la verità tutta intera. Nel mondo opera anche il bene. È più discreto del male, generalmente è meno evidente, ma c’è. Bisogna aprire gli occhi per vederlo, gli orecchi per imparare a sentirlo e, se siamo comunicatori, dobbiamo anche aiutare gli altri a vederlo e sentirlo.
Permettetemi alcuni esempi. Tutti ricordiamo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 come l’attentato più impressionante e orribile dell’inizio del terzo millennio; ma dobbiamo ricordare che è stato anche il giorno in cui decine, centinaia di pompieri e soccorritori hanno esposto e dato eroicamente la loro vita per salvare le vittime. Tantissimo odio, ma anche tantissimo amore. Quando in Italia i terremoti hanno distrutto molti villaggi, vi è stato un ampio movimento di solidarietà, in gran parte volontario e gratuito, che è durato per mesi. Anche ai drammi dei migranti e dei rifugiati, che tornano continuamente sui nostri schermi, si sono accompagnati moltissimi gesti e atteggiamenti meravigliosi di compassione e accoglienza generosa.
La sofferenza suscita e chiama amore, generoso, ricco di creatività, superiore alle attese: quante belle sorprese vediamo se apriamo gli occhi! Anche nelle tragedie non mancano segni di un’umanità più vera, e bisogna sviluppare lo sguardo e la sensibilità per coglierli.
Le buone notizie
Questo discorso vale per moltissimi problemi della nostra società. Durante il Grande Giubileo del 2000, nelle trasmissioni della Radio Vaticana che allora dirigevo avevamo iniziato una rubrica quotidiana intitolata “Da Gerusalemme a Gerico”, ispirandoci alla parabola del Samaritano, per raccontare ogni giorno un’esperienza concreta, un’iniziativa o un’istituzione di solidarietà, di carità… Ci eravamo detti: cominciamo, e quando fra qualche settimana avremo finito, cambieremo rubrica… Ma poi andammo avanti per 365 giorni e la catena non finiva mai e il campo si allargava sempre: un’esperienza buona ne faceva scoprire un’altra all’infinito!
Giustamente le associazioni dei giornalisti cattolici italiani organizzano sempre più frequentemente dei Premi di giornalismo intitolati: «Le buone notizie», per promuovere la scoperta e la diffusione della conoscenza del bene. Ma bisogna lavorare di più in questa direzione. Oggi per fortuna questo viene capito non solo nel mondo cattolico, ma da molti comunicatori di buona volontà.
Sono stato colpito e incoraggiato perché il Corriere della Sera, ha cominciato a pubblicare un inserto settimanale gratuito intitolato appunto «Le buone notizie», tutto dedicato a reportage e informazioni su attività delle organizzazioni non governative per il servizio sociale, al mondo del volontariato – che in Italia è sviluppatissimo –, alle iniziative caritative e umanitarie, e così via. E si lancia l’appello a far confluire spontaneamente da ogni parte informazioni e notizie per allargare il fiume di questa informazione positiva. Si alimenta così un atteggiamento di fiducia: non solo il male, ma anche il bene può essere contagioso.
In questo modo si risponde alla disperazione e allo scoraggiamento, si nutre la speranza e si incoraggia il gusto di impegnarsi per il bene. Parlare di pace, di giustizia, di riconciliazione, di perdono, di crescita umana e spirituale, di solidarietà, di carità, di gratuità, di tenerezza… sempre, il più possibile.
Personalmente, posso dire che questo è stato in fondo il vero privilegio della mia vita: servendo i papi, che sono grandi messaggeri di tutto questo per l’umanità e parlano continuamente di questi valori positivi, anch’io ho potuto e dovuto lavorare per questo. Che cosa si può fare di più bello che annunciare il bene per i nostri fratelli e sorelle?
Durante il mio servizio, seguendo i papi con i giornalisti, ci sono stati dei momenti, soprattutto nei pontificati di Giovanni Paolo II e di Francesco, in cui ho avuto la sensazione che i colleghi giornalisti scoprissero davvero la gioia, la soddisfazione di parlare di messaggi grandi e belli. Erano contenti di non dover parlare sempre e solo di scandali, lotte di potere e di interessi politici ed economici, violenze e crimini, ma di poter dare eco a piena voce a messaggi di pace, di giustizia, di riconciliazione, di servizio, di perdono.
4. Comunicare per la bellezza
Infine, comunicare per la bellezza. Intorno a noi non c’è solo il male violento e omicida. Ci sono anche molte forme più sottili e insidiose di inquinamento dello spirito. C’è una volgarità diffusa, nel linguaggio e nelle immagini, che ci entra nelle orecchie e negli occhi e corrompe il nostro modo di parlare e il nostro sguardo. C’è un materialismo pesante, una curiosità morbosa che si intrattiene sulle perversioni e sugli scandali. E, anche se cerchiamo di difenderci e di reagire, ci sentiamo come assediati e invasi da questa sporcizia, al cui dilagare contribuisce oggi in modo nuovo la pervasività della rete. Ci sembra sempre più difficile avere uno sguardo limpido e un cuore puro, anche se ne sentiamo la nostalgia.
Papa Francesco ha usato parole violente, che sento pudore a ripetere, ma credo che sia giusto ricordarle. Ha parlato di «coprofilia» e «coprofagia», cioè della tendenza perversa a godere degli escrementi più immondi e di quella che porta addirittura a mangiarli… Ha ammonito i media e gli operatori dei media di resistere alla tentazione della coprofilia: cioè di cercare ed esibire continuamente le cose più brutte per attirare l’attenzione e per vendere; e ha ammonito tutti noi a fuggire dalla tentazione morbosa di godere e intrattenerci nella curiosità verso ciò che è perverso e volgare nelle sue forme più varie. Non sto parlando di problemi teorici o astratti. Ad esempio, pornografia, esibizionismo, oggi sexting e sextortion… entrano sempre più profondamente nella vita quotidiana di innumerevoli persone, sempre più giovani.
Nell’ottobre scorso ho partecipato a Roma a un Congresso internazionale all’Università Gregoriana dedicato alla «dignità dei minori nel mondo digitale», a cui anche il papa ha rivolto un importante discorso conclusivo, e ho verificato con persone fra le più competenti a livello mondiale la gravità dei problemi. Attraverso la rete la diffusione della pornografia – e di una pornografia sempre più estrema, perché con l’abitudine la soglia di stimolazione si alza continuamente – raggiunge un’espansione immensa, immensamente più grande di quella che c’era in passato: coinvolge centinaia di milioni di persone e di minori che accedono alla rete.
La dipendenza dalla pornografia altera la personalità e la sua identità, arriva a condizionare pesantemente le relazioni fra uomo e donna, fino a distruggere famiglie. Io ho l’impressione che abbiamo troppa paura a parlarne, forse perché ne siamo anche noi un po’ coinvolti. Ma questa è una grande ipocrisia; c’è un diffuso atteggiamento di rimozione davanti a un problema imbarazzante e difficile da affrontare. Ma la cosa è assai più seria di quanto non si voglia riconoscere.
Diverse relazioni nel Congresso di cui parlavo hanno affrontato dal punto di vista neurologico il tema dell’impatto della pornografia sul cervello particolarmente malleabile dei minori. Quali immagini e quali pensieri abitano le nostre menti, le vostre menti, e abiteranno le menti dei giovani durante tutta la loro vita? Pensiamo ai duecentocinquanta milioni di minori che nella sola India nei prossimi due anni accederanno al mondo digitale: come e da chi potranno essere aiutati a sviluppare un atteggiamento di rispetto per il corpo e per la dignità dell’altro, dell’altra; con quali problemi dovranno confrontarsi a proposito della propria identità sessuale? La massima parte dei loro genitori non saranno certamente in grado di parlarne con loro.
Dobbiamo imparare a evitare le nuove forme di dipendenza e di schiavitù, di malattia spirituale che minacciano e invadono il nuovo mondo, il mondo digitale. Per questo dobbiamo noi per primi alzare lo sguardo, e aiutare anche gli altri ad alzare lo sguardo. Liberarci dalla volgarità e riuscire a cercare e amare la luce e a respirare spiritualmente.
Quando parlo di comunicare il bello, comunicare per la bellezza, non penso affatto a un godimento estetico fine a se stesso, a un lusso per privilegiati estetizzanti, ma penso al rispetto per la bellezza della dignità di ogni persona umana, al gusto per la profondità e il mistero della sua interiorità, che si può intuire nei suoi occhi e nella profondità dei suoi sentimenti…
Certo, questo può avvenire dando spazio alla comunicazione delle espressioni dell’arte, della poesia, di una musica capace di elevare e non di abbrutire. Infatti l’arte è manifestazione dello spirito, è trasparenza dello spirito nel nostro mondo, riesce a esprimere significati usando la materia, i suoni, i colori… Joseph Ratzinger diceva che, a volte, la bellezza ci colpisce al cuore come un dardo, una freccia, che ci apre lo sguardo verso il mondo dello spirito.
Ma la grande bellezza su cui volevo attrarre la vostra attenzione è in particolare quella delle testimonianze di vita che ci affascinano per la loro qualità morale. Per i credenti si tratta della santità, cioè delle persone in cui la fede vissuta attraverso l’amore si dimostra capace di trasformare e innalzare la vita umana a un livello superiore di armonia e di fascino, di attrazione potente al bene. Ma non ci sono solo i santi cristiani e i testimoni della spiritualità; ci sono figure laiche meravigliose di dedizione generosa, pura, coraggiosa e coerente al servizio degli altri e della comunità, medici, padri e madri, operatori sociali, educatori, anche servitori della sicurezza e della legge, anche politici… Non pochi hanno anche pagato con la vita il loro impegno in modo eroico. Sono modelli, esempi concreti che ci commuovono, toccano il nostro cuore in profondità e ci aiutano ad alzare lo sguardo dalla realtà e dall’abisso del male verso l’alto.
Dobbiamo impegnarci a trovarne e a raccontarne le storie, a far conoscere sempre meglio le meravigliose figure degli eroi e dei santi della nostra storia e del nostro tempo. Anche questo è comunicare per la bellezza. Scuotere le nostre coscienze per aiutare a far venire alla luce dalle profondità la grande e preziosa nostalgia, troppo soffocata, di purezza e bontà, di armonia della virtù, di gioia nella generosità dell’amore.
E così riscoprire il senso della dignità della persona umana, della sua mente e della sua anima, per ciò che ha di invisibile e di immortale, capace di scegliere, di generare, di edificare per amore…: una dignità così immensamente grande che la Scrittura e la fede cristiana ci hanno detto fin dall’inizio che la persona umana è «immagine di Dio».
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