Cambiano, in Italia, le politiche dell’esecuzione penale. L’internamento in carcere si va evidenziando come dannoso sia per l’autore del reato sia per la società. La pena scontata sul territorio non va intesa come premio. Ma abbatte la recidiva e afferma diritti. Di colpevoli e vittime. Lucia Castellano è direttore generale dell’esecuzione penale esterna del Ministero della Giustizia (articolo ripreso da Italia Caritas LI(2018)5, 13-17).
Il nostro paese vive un periodo di grandi cambiamenti rispetto alle politiche dell’esecuzione penale. Il primo decennio del nuovo millennio è stato, infatti, caratterizzato da un approccio che proponeva il carcere come prima scelta del legislatore; le attuali politiche dell’esecuzione penale, viceversa, sono caratterizzate da una totale inversione di tendenza nella costruzione delle risposte alla violazione del patto sociale.
Oggi, la consapevolezza che l’internamento carcerario sia dannoso non solo per l’autore del reato, ma anche per i consociati, si è tradotta in una serie di provvedimenti, legislativi e amministrativi, fondati sul presupposto che la detenzione non abbatte i tassi di recidiva e non produce, conseguentemente, sicurezza sociale. Ci si è allontanati dall’inquadramento della pena detentiva come la prima delle sanzioni da infliggere.
L’abrogazione di una serie di norme, come quella (legge 251/2005) che puniva in modo esponenziale i recidivi (con la conseguenza di precludere loro l’accesso alla misure alternative anche per reati minori), o la Fini Giovanardi legge 49/2006 (che inaspriva molto severamente il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti con la conseguenza di aprire le porte del carcere ai tossicodipendenti), ha fermato la tendenza al continuo aumento della popolazione detenuta. Inoltre, la condanna inflitta all’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per «trattamenti disumani e degradanti» nei confronti dei detenuti (sentenza Torregiani, 8 gennaio 2013), ha imposto una riflessione sulle politiche di esecuzione penale, da cui sono scaturite norme che riducono i flussi in ingresso, aumentando quelli in uscita dal carcere.
Non solo: le normative internazionali ci inducono a disegnare un sistema in cui il probation, la «prova» fuori dalle mura del carcere, sia la regola, mentre il ricorso al carcere viene invocato solo nei casi marginali e di maggiore pericolosità. Ancora, la recente introduzione della «messa alla prova» (legge 67/2014) prevede la sospensione del processo agli imputati per reati minori (fino a 4 anni di pena) che accettino di svolgere lavori di pubblica utilità, a favore dello stato o di altri enti, pubblici e privati, aventi finalità sociali.
Con l’estensione agli adulti di questo nuovo istituto, prima ammissibile solo per i minori, può dirsi definito il percorso di costruzione di modelli di esecuzione penale che restituiscono alla pena il valore che la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo le assegnano, relegando la detenzione a ultima ratio.
Costruire sicurezza
Le sanzioni cosiddette «di comunità» sono misure che, pur mantenendo la fisionomia della sanzione, devono essere funzionali all’accompagnamento del soggetto nella società, rafforzando, nel contempo, la dimensione riparativa della giustizia penale.
È evidente che soprattutto l’implementazione della messa alla prova, ma anche le altre sanzioni alternative al carcere, chiamano a raccolta le istituzioni, pubbliche e private, superando la tendenza all’autoreferenzialità della risposta punitiva. I percorsi di «presa in carico», attuati insieme alle istituzioni locali e al terzo settore, nella realtà sono però complessi e diversificati, a causa soprattutto delle differenze tra i territori del nostro paese. (…)
Negli ultimi 10 anni in Italia è diminuito nettamente il numero dei detenuti (che dal 2016 però è in risalita, ndr), mentre è aumentato quello delle persone che scontano la pena nei territori. Nonostante questa inversione di tendenza, non si assiste però a un aumento della commissione dei reati, che hanno invece un andamento costante nel tempo: questo dovrebbe far riflettere sugli strumenti più idonei a prevenire la recidiva e a costruire sicurezza sociale. Sicuramente, il carcere non è tra questi.
No alla cultura trattamentale
L’Italia è dunque oggi chiamata a una sfida epocale: costruire contenuti alle sanzioni di comunità, tali da renderle davvero efficaci a combattere la recidiva. In sostanza, bisogna evitare ogni rischio di confusione con la mera decarcerizzazione, che aumenterebbe la diffidenza, nell’opinione pubblica, riguardo alle alternative al carcere.
Per far fronte adeguatamente a questo epocale mutamento di rotta, l’amministrazione della giustizia ha modificato (con vari decreti, a partire dal 2015) il proprio assetto organizzativo, articolandolo in 90 uffici di esecuzione penale esterna, organizzati con una presenza capillare nel territorio nazionale e una forte autonomia gestionale, che supera il principio gerarchico che ha finora connotato i rapporti tra le strutture. In buona sostanza, con la riforma ciascun ufficio viene messo in grado di diventare, gradualmente, una vera e propria agenzia di probation di stampo europeo: a questi uffici è affidata la regia dell’azione delle altre strutture territoriali coinvolte (agenzie per il lavoro, la casa, la formazione professionale, servizi per le tossicodipendenze ecc.). In tal modo si è in grado di offrire, a ciascun condannato, sanzioni con contenuti tali da ridurre davvero la possibilità che si torni a delinquere.
L’esecuzione penale esterna abbraccia dunque anche il sociale, discostandosi dalla mera dimensione giudiziaria. La professionalità dell’assistente sociale si configura come quella di un probation officer, ossia il regista di una macchina complessa che reperisce, in coordinamento con il welfare territoriale, soluzioni alloggiative, lavorative e di sostegno, che diano senso e contenuto alla pena.
È indispensabile, dunque, rendere le misure di comunità sempre più caratterizzate da contenuti effettivi e controllabili, costruendo così una credibilità del sistema, capace di modificare la diffusa percezione secondo la quale l’unica pena possibile è quella che conduce le persone in carcere. La capacità di organizzare un ventaglio di sanzioni commisurate all’entità della violazioni commesse implica una cultura della pena basata sul rispetto della dignità e dei diritti degli autori di reato e della loro capacità di scelta.
Viene progressivamente abbandonata la cultura «trattamentale», che premia i più meritevoli, concedendo loro di scontare la pena fuori dal carcere. Dobbiamo convincerci che le sanzioni di comunità non sono un premio per chi si comporta meglio, ma vere e proprie pene. Ci si deve lasciare definitivamente alle spalle la dicotomia tra sicurezza e trattamento, alla quale il sistema di esecuzione penale è ancora troppo ancorato.
Organizzazione a cascata
A valle della riorganizzazione normativa, come si muove la macchina organizzativa? L’obiettivo del Dipartimento è favorire l’implementazione delle misure, territorio per territorio. A livello centrale, si lavora per indirizzare gli uffici territoriali verso la progettazione congiunta con gli enti locali, il carcere e le istituzioni pubbliche e private, al fine di produrre opportunità e formulare programmi.
Il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità sta realizzando un’operazione di traino istituzionale delle articolazioni territoriali, nella direzione della specializzazione sulle tre macroaree in cui si sostanzia il lavoro dell’Uepe, ossia l’implementazione delle misure alternative alla detenzione, il rafforzamento delle relazioni con gli istituti penitenziari e lo sviluppo dell’istituto della messa alla prova.
Questo significa, in buona sostanza, chiedere agli uffici locali di costituire il volano per convogliare le risorse territoriali dei servizi verso un sistema integrato di interventi, in modo da ottimizzare i progetti di reinserimento socio-lavorativo dell’utenza e da monitorarne l’andamento. E significa anche, da parte dei Dipartimento, interloquire, a livello centrale, con gli enti, le associazioni, il terzo settore, le organizzazioni di categoria, con lo scopo di implementare, attraverso lo strumento dei protocolli d’intesa e delle convenzioni, la rete di offerta dei servizi, che viene poi concretizzata e ritagliata sulle diverse esigenze locali ad opera degli Uepe locali.
È una modalità organizzativa «a cascata», che vincola le articolazioni territoriali a recepire, sul territorio, opportunità alloggiative, lavorative e formative che vengono proposte con gli accordi centrali. L’obiettivo è rendere omogenea in tutto il paese l’opportunità di scontare la pena all’interno della comunità sociale. Si è consapevoli, infatti, della disomogeneità attuale dell’offerta.
Non solo assistenti sociali
Ancora, l’amministrazione della giustizia ha proceduto alla rimodulazione delle strutture degli uffici di esecuzione penale esterna. Significativo è l’impegno, assunto con l’ultima legge di bilancio, di provvedere all’assunzione di 296 funzionari di servizio sociale. In tal modo, oltre a far fronte all’esiguità di personale, si assicura anche il ricambio generazionale, fornendo linfa vitale all’ambizioso progetto riformatore (l’ultimo concorso di settore risale, infatti, al 2001).
L’intenzione è lavorare al superamento della monoprofessionalità del funzionario di servizio sociale, in favore dell’apertura ad altre figure, che possano contribuire allo sviluppo del lavoro nel territorio. Sono stati recentemente immessi negli Uepe funzionari dell’area pedagogica, psicologi convenzionati con l’amministrazione; ci si avvale, inoltre, del prezioso apporto di 48 volontari del servizio civile per l’anno in corso. Il Dipartimento ha partecipato al bando per il reclutamento anche per il 2019, contando di aumentare il numero di queste risorse giovani, motivate e preziose.
Vale la pena citare, in questo processo di cambiamento progressivo, l’accordo di collaborazione con la Conferenza nazionale volontariato e giustizia (cui aderisce anche Caritas Italiana, ndr), sottoscritto il 9 giugno 2017 e finalizzato a favorire, in tutto il territorio nazionale, la stipula di convenzioni per lo svolgimento, da parte di soggetti sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, di attività non retribuite a beneficio della collettività, oltre che a promuovere programmi di accoglienza residenziale per persone che altrimenti non avrebbero la possibilità di accedere a misure e sanzioni di comunità.
Per la costruzione di sanzioni di comunità è necessario, lo si ribadisce, riconoscere come interlocutori dell’amministrazione della giustizia tanto il volontariato che il terzo settore; è una condizione indispensabile per implementare la presenza di assistenti volontari negli Uepe e rafforzare gli accordi con le agenzie del terzo settore per la costruzione di un’accoglienza all’esterno, che permetta di scontare la pena senza la mortificazione dell’esclusione e dell’isolamento, che sono conseguenza, troppo spesso, di condizioni esistenziali avverse, più che di un’effettiva pericolosità sociale.
Il terzo settore rappresenta un ausilio imprescindibile per lo svolgimento del lavoro degli assistenti sociali ed è, soprattutto, il prolungamento dell’istituzione nel territorio. Si pensi per esempio al rapporto da instaurare con i detenuti domiciliari, categoria considerata la più semplice, poiché meno bisognosa di essere seguita rispetto, per esempio, a quella degli affidati in prova al servizio sociale.
Eppure anche questi detenuti hanno esigenze a cui gli uffici, pur volendo, non riescono a far fronte, dal mero sostegno psicologico alla soddisfazione dei bisogni primari (spesa, visite mediche, ecc). Una rete territoriale, in proposito, può rendere più agevole il lavoro agli enti pubblici, ma soprattutto costituisce un aiuto imprescindibile per il raggiungimento dell’obiettivo istituzionale.
La casa dei doveri
La pena scontata sul territorio, lo si ribadisce, deve comunque connotarsi come pena. Non si può correre il rischio che sia confusa con la concessione di un beneficio. È prioritario evitare che nell’opinione pubblica si rafforzi la convinzione «meno carcere uguale meno sicurezza per i cittadini»: se nell’immaginario collettivo passa un’equivalenza di tale tipo, si crea un cortocircuito culturale che spingerà a chiedere sempre più carcere, condannando al fallimento qualsiasi politica di ampliamento delle sanzioni di comunità.
Occorre, quindi, che qualsiasi azione deflattiva del ricorso al carcere contenga una strategia per realizzare tale obiettivo senza dare l’impressione di spostare il reo dalla pena (carcere) all’area dell’impunità (sanzioni di comunità), a danno della sicurezza dei cittadini. La credibilità del sistema e il conseguente orientamento dell’opinione pubblica rispetto all’efficacia di tali misure passano da questa strada.
La riflessione, politica e amministrativa, sulla possibilità di far cambiare rotta alla risposta al crimine si sta dunque concretizzando in un’azione precisa, sostenuta non solo sul piano legislativo dalla riforma in corso, ma anche dall’impegno quotidiano dell’amministrazione, centrale e locale.
Il nostro paese sta modificando i propri standard per adeguarli a quelli europei, ma soprattutto per aumentare il livello di sicurezza sociale. Ed è evidente la difficoltà di trasformare un mondo che è incentrato, ancora, sull’esigenza di vendicare le lesioni al patto sociale, infliggendo sofferenza agli autori. Ma sappiamo quale portata devastante possa avere una giustizia che assomiglia a ciò che vuole combattere.
Diceva il cardinale Carlo Maria Martini, il cui pensiero è stato anticipatore delle grandi trasformazioni oggi in corso anche nel settore della concezione della pena: «Spesso mi domando: le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani, credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare? Ecco, spiace rispondere di no, non lo crediamo davvero. Nonostante gli insegnamenti religiosi e secolari, nonostante l’apparato normativo, la dottrina e la giurisprudenza». Oggi potremmo replicare che le istituzioni lo sanno, e il legislatore si sta attrezzando per rendere l’esecuzione penale degna di uno stato di diritto.
Le punizioni diventano più credibili, proporzionate all’entità della lesione creata. E, soprattutto, si incentrano sui diritti di chi le subisce e delle vittime delle azioni delittuose. «Chi è orfano della casa dei diritti difficilmente abiterà nella casa dei doveri», diceva ancora il cardinal Martini. Oggi il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità è impegnato a costruire «la casa dei doveri» sulle fondamenta del rispetto dei diritti umani, dei colpevoli e degli innocenti.