In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio. Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano (papa Francesco, dal messaggio per la celebrazione della 51ª giornata della pace, 1° gennaio 2018).
Apostrofare un cittadino straniero con espressioni del tipo «che vieni a fare in Italia?» o «devi andartene via», può far scattare l’aggravante dell’odio razziale nella commissione di un reato in danno di cittadini extracomunitari.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con una recente sentenza,[1] nel condannare in via definitiva un 45enne di Gallarate (Varese), che, nel 2010, in concorso con un altro cittadino italiano, anch’egli condannato in appello e non ricorrente, ha colpito con un manganello e preso a pugni due bengalesi che, assieme ad alcuni connazionali, si erano ritrovati nei pressi di un circolo frequentato da stranieri.
La quinta sezione penale della Suprema Corte, ribadendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, afferma che la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale e razziale è configurabile in espressioni che rivelino la volontà di discriminare la vittima in ragione della sua appartenenza etnica. Essa non ricorre solo allorché l’espressione riconduca alla manifestazione di un pregiudizio sull’inferiorità di una determinata razza, ma anche quando la condotta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio etnico, e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori.
La pronuncia della Corte di Cassazione offre l’occasione per una breve disamina delle disposizioni penali che puniscono le manifestazioni di discriminazione e odio razziale, etnico e religioso. Ma, a motivare detta disamina, sono anche le inquietanti manifestazioni di razzismo, xenofobia e odio del diverso che oggi sembrano essere uscite dai bar per trovare spazio anche tra esponenti di pubbliche istituzioni.
Evoluzione normativa
Nell’ambito del nostro ordinamento interno, le disposizioni penali che puniscono le manifestazioni di discriminazione razziale prendono le mosse dalla ratifica della Convenzione di New York del 7 marzo 1966,[2] intervenuta con la legge 13 ottobre 1975 n. 654 (la c.d. «legge Reale»).
Con la Convenzione di New York gli Stati firmatari, nell’impegnarsi a realizzare una politica tendente ad eliminare ogni forma di discriminazione razziale e a favorire l’intesa tra tutte le razze, assunsero l’obbligo di:
a) non porre in opera atti o pratiche di discriminazione razziale verso individui, gruppi di individui o istituzioni e fare in modo che tutte le pubbliche attività e le pubbliche istituzioni, nazionali e locali, si uniformino a tale obbligo;
b) non incoraggiare, non difendere e non appoggiare la discriminazione razziale praticata da qualsiasi individuo o organizzazione;
c) adottare efficaci misure per rivedere le politiche governative nazionali e locali e per modificare, abrogare o annullare ogni legge e ogni disposizione regolamentare che abbia il risultato di creare la discriminazione o a perpetuarla ove esista;
d) vietare e porre fine con tutti i mezzi più opportuni – provvedimenti legislativi compresi – alla discriminazione razziale praticata da singoli individui, gruppi o organizzazioni;
e) favorire le organizzazioni e i movimenti integrazionisti multirazziali impegnati ad eliminare le barriere che esistono tra le razze nonché a scoraggiare quanto tende a rafforzare la separazione razziale.
Un successivo organico intervento legislativo a carattere antidiscriminatorio fu operato 18 anni più tardi con la cosiddetta «Legge Mancino» del 1993,[3] che modificò le pene comminabili ed estese la sanzione penale alle discriminazioni religiose, introducendo una specifica circostanza aggravante riguardante la discriminazione razziale. Altre modifiche sono state apportate nel 2006[4] e nel 2016.[5]
I delitti contro l’eguaglianza
Oggi, a seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 1° marzo 2018 n. 21,[6] i reati in tema di discriminazioni razziali, etniche, nazionali e religiose sono disciplinati dagli articoli 604 bis e 604 ter del codice penale e sono inseriti all’interno di una nuova sezione dal titolo Dei delitti contro l’eguaglianza.[7]
I due nuovi articoli del codice penale sono rubricati, rispettivamente “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa” e “Circostanza aggravante”.
Analiticamente, l’articolo 604 bis c.p. punisce, salvo che il fatto costituisca più grave reato:
- chiunque propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (reclusione fino ad un anno e 6 mesi o multa fino a 6.000 euro);
- chiunque, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (reclusione da 6 mesi a 4 anni);
- chiunque partecipa o presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (reclusione da 6 mesi a 4 anni);
- chiunque promuove o dirige organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (reclusione da 1 a 6 anni).
Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda, ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra.[8]
Di fondamentale importanza, soprattutto per la potenziale estensione a numerose fattispecie di reato, è la circostanza aggravante della finalità di discriminazione razziale o di odio etnico prevista dall’art. 604 ter c.p., esplicitata nei termini che seguono:
- per qualsiasi reato – ad eccezione di quelli per i quali è previsto l’ergastolo – commesso per le finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena viene aumentata fino alla metà;
- in caso di concorso di circostanze, il giudice non può ritenere le attenuanti equivalenti o prevalenti rispetto all’aggravante della discriminazione e le eventuali diminuzioni di pena devono essere calcolate sulla pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante;
- tale ultimo principio non opera rispetto all’attenuante della minore età.[9]
Discriminazione razziale
Quando si parla di discriminazione fondata sulla razza, ci si riferisce a un sentimento immediatamente percepibile come connaturato all’esclusione delle condizioni di parità,[10] ovvero al pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza.[11] In sede dottrinaria, si è da più parti evidenziato come, a circoscrivere la nozione di discriminazione rilevante ai fini che qui interessano, si adoperi spesso il richiamo al sentimento di superiorità della razza di appartenenza e, specularmente, di inferiorità della razza o dell’etnia cui la condotta è rivolta.
Secondo l’articolo 1 della Convenzione di New York, la nozione di discriminazione «sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica».
Nell’ordinamento italiano, una nozione di discriminazione pressoché identica viene fornita dall’articolo 43 del Decreto legislativo 28 luglio 1998 n. 286, sia pure in esclusiva correlazione alla normativa in cui tale disposizione è collocata: «Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».
La nozione di discriminazione è stata successivamente meglio puntualizzata nella «direttiva dell’Unione Europea 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, sull’attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica», introdotta nel nostro ordinamento con il Decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215.
In base a tale direttiva si ha discriminazione diretta quando, a causa della propria razza o origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra persona in una situazione analoga.
Si ha invece discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza e origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
Le pene accessorie in caso di condanna
Anche dopo il restyling della normativa ad opera del D.Lgs. n. 21/2018, rimangono in vigore le pene accessorie,[12] a carattere sostanzialmente rieducativo, in caso di condanna per uno dei delitti previsti dagli articoli 604 bis e 604 ter c.p., e cioè:
- obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità, secondo determinate modalità;[13]
- obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro un’ora determinata e di non uscirne prima di altra ora prefissata, per un periodo non superiore ad un anno;
- sospensione della patente di guida, del passaporto e di documenti di identificazione validi per l’espatrio per un periodo non superiore ad un anno;
- divieto di detenzione di armi proprie di ogni genere;
- divieto di partecipare, in qualsiasi forma, ad attività di propaganda elettorale per le elezioni politiche o amministrative successive alla condanna, e comunque per un periodo non inferiore a tre anni.
Disposizioni di prevenzione e bene giuridico protetto
Rimangono altresì in vigore[14] le sanzioni penali per:
- chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori o ostenti emblemi o simboli di tipo razzista, o basati sull’odio etnico, nazionale o religioso propri o usuali delle organizzazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (reclusione fino a 3 anni e multa da 103 a 258 euro);
- chiunque acceda ai luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche con gli emblemi o i simboli sopra citati (arresto da 3 mesi ad un anno).
Secondo dottrina e giurisprudenza maggioritarie, il bene giuridico protetto dalle norme che puniscono la discriminazione razziale è la dignità umana.[15]
L’aggravante della finalità di discriminazione razziale: casistica
La notizia della sentenza, di cui si è detto all’inizio e che ha severamente condannato con l’aggravante della finalità di discriminazione razziale il cittadino di Gallarate per il reato di lesioni commesso ai danni di due bengalesi, ha fatto scalpore ed è stata ampiamente pubblicizzata dai media.
Purtroppo, decisioni analoghe della Corte di legittimità sono numerosissime, come dimostra la seguente nuda e parziale casistica.
Giustifica l’applicazione dell’aggravante della finalità di discriminazione razziale:
- diffamare una cittadina italiana con origini africane e aggredirne la reputazione, pubblicando nel profilo di un noto social network l’espressione «se ne torni nella giungla dalla quale è uscita» e inserendo nel profilo Facebook le parole pronunciate da un senatore della Repubblica che paragonavano la stessa persona ad un «orango» (Cass. penale sez. V, sent. n. 7859 del 19 febbraio 2018);
- pronunciare frasi pesantemente offensive («negro puzzolente, sporco negro, ti spedisco a casa in scatola, ti spacco la testa negro») nei confronti di un cittadino camerunese vittima dei reati di ingiuria, minaccia e violenza privata (Cass. penale, sez. V, sent. n. 49503 del 27 ottobre 2017);
- rivolgere ad una donna africana il dispregiativo epiteto di «negra puttana» da parte di due cittadine italiane condannate per i reati di ingiuria e di lesioni personali (Cass. penale, sez. V, sent. n. 13530 del 20 marzo 2017);
- rivolgersi con le espressioni «marocchino di merda» e «immigrati di merda» ad un cittadino del Marocco vittima dei reati di minaccia, ingiuria e percosse con utilizzo, da parte di una donna italiana, di corpo contundente (Cass. penale, sez. V, sent. n. 43488 del 28 ottobre 2015);
- stalkizzare (spruzzandole addosso deodorante o insetticida al suo passaggio per le scale, sputandole in faccia, colpendola con il manico della scopa, parcheggiando la propria autovettura dietro quella della vittima in modo da impedirle l’uso per recarsi al lavoro, cagionandole un perdurante e grave stato d’ansia e ingenerando un fondato timore per l’incolumità dei figli minori) una donna africana, rivolgendosi a lei con espressioni del tipo «scimmie andate nella giungla», «vai via di qui che puzzi» (Cass. penale, sez. V, sent. n. 25756 del 18 giugno 2015);
- utilizzare l’espressione «sporco negro», in quanto idonea a coinvolgere un giudizio di disvalore sulla razza della persona offesa, in relazione ai reati di lesione e di ingiuria commessi in danno di un cittadino africano (Cass. penale, sez. V, sent. n. 41635 del 6 ottobre 2014);
- schernire e fare oggetto di sputi un ragazzo nigeriano, compagno di classe, apostrofato abitualmente nel corso dell’anno scolastico con espressioni quali «negro di merda» da un gruppo di minori in relazione ai reati di ingiuria continuata e violenza privata (Cass. penale, sez. V, sent. n. 25870 del 12 giugno 2013);
- aggredire, col chiaro intento di allontanare da una determinata zona frequentata da connazionali, due cittadini di origine maghrebina, ricorrendo a frasi come «sporco negro» o «stronzo negro» in relazione al reato di lesioni personali (Cass. penale, sez. V, sent. n. 30525 del 15 luglio 2013);
- utilizzare l’espressione «sporco negro» nel contesto di una tentata rapina compiuta ai danni di un cittadino africano (Cass. pen. Sez. II, sent. n. 2798 del 21 luglio 2010);
- apostrofare uno straniero con l’epiteto di «selvaggio» in relazione ai reati di ingiuria e lesioni compiuti ai suoi danni (Cass. penale, sez. V, sent. n. 5302 del 1° febbraio 2008);
- compiere violenza privata nei confronti di persone di colore utilizzando espressioni, come «schiaccio il negro», dal chiaro tenore sprezzante (Cass. penale, sez. V, sent. n. 2745 del 7 ottobre 2008);
- utilizzare, nel commettere il reato di ingiuria, la locuzione «sporca negra» che implicitamente e inequivocabilmente risulta connessa ad una connotazione negativa della persona (Cass. penale, sez. V, sent. n. 9381 del 17 marzo 2006);
- utilizzare l’appellativo «marocchino» per rivolgersi con spregio ad una persona avente tale nazionalità, in luogo del suo nome e cognome, accompagnando il tutto con atteggiamenti di scherno e derisione integranti il reato di ingiuria (Cass. penale, sez. V, sent. n. 19378 del 20 maggio 2005).
[1] Cassazione, sez. V penale, sent. n. 32028 del 12 luglio 2018.
[2] Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 21 dicembre 1965, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966.
[3] Decreto Legge 26 aprile 1993 n. 122 convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 1993 n. 205.
[4] Cf. articolo 13 della legge 24 febbraio 2006 n. 85.
[5] Cf. articolo 1 della legge 16 giugno 2016 n. 115 (che ha introdotto il reato di negazionismo).
[6] Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 22 marzo 2018 e in vigore dal 6 aprile 2018. Il decreto ha introdotto nel nostro ordinamento il principio della riserva di codice nella materia penale («Nuove disposizioni che prevedono reati possono essere introdotte nell’ordinamento solo se modificano il codice penale ovvero sono inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia»). Come si legge nella relazione illustrativa del detto decreto, la ratio della nuova disposizione è quella di razionalizzare e rendere, quindi, maggiormente conoscibile e comprensibile la normativa penale, ponendo un freno all’eccessiva e non sempre intellegibile produzione legislativa di settore. Nell’ottica di rendere più facilmente conoscibili i precetti e le sanzioni, il principio della riserva di codice nella materia pone al centro del sistema penale il codice, fissando così le basi per una futura riduzione dell’area dell’intervento punitivo. In linea con il nuovo principio, il decreto legislativo ha proceduto all’inserimento nel codice penale di talune fattispecie criminose (in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa), prima disciplinate da alcune disposizioni, ora abrogate, contenute in leggi speciali (nel nostro caso, l’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975 n. 654 e successive modificazioni; l’articolo 3 della legge 25 giugno 1993 n. 205).
[7] Ritagliata all’interno del Capo III (Dei delitti contro la libertà individuale) del Titolo XII (Delitti contro la persona) del Libro II (Dei delitti in particolare) del codice penale.
[8] Come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.
[9] Di cui all’articolo 98 c.p.
[10] Cassazione, sez. V penale, sent. n. 11590 del 25 marzo 2010.
[11] Cassazione, sez. V penale, sent n. 49694 del 28 dicembre 2009.
[12] Cf. articolo 1, comma 1 bis della legge 25 giugno 1993 n. 205.
[13] L’attività non retribuita a favore della collettività, da svolgersi al termine dell’espiazione della pena detentiva per un periodo massimo di dodici settimane, deve essere determinata dal giudice con modalità tali da non pregiudicare le esigenze lavorative, di studio o di reinserimento sociale del condannato. Possono costituire oggetto dell’attività non retribuita a favore della collettività: la prestazione di attività lavorativa per opere di bonifica e restauro degli edifici danneggiati con scritte, emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; lo svolgimento di lavoro a favore di organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, quali quelle operanti nei confronti delle persone disabili, dei tossicodipendenti, degli anziani o degli extracomunitari; la prestazione di lavoro per finalità di protezione civile, di tutela del patrimonio ambientale e culturale, e per altre finalità pubbliche. L’attività può essere svolta nell’ambito e a favore di strutture pubbliche o di enti e organizzazioni privati (Cf. articolo 1, commi da 1 quater a 1 sexies della legge 25 giugno 1993 n. 205).
[14] Articolo 2 della legge 25 giugno 1993 n. 205.
[15] Sembra utile ricordare che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000 e giuridicamente vincolante per il nostro Paese dal 1° dicembre 2009, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008 n. 190), pone la “dignità umana” tra i valori indivisibili e universali sui quali si fonda l’Unione. L’articolo 1 di questo importante documento, che costituisce la sintesi dei valori condivisi dagli Stati membri dell’Unione europea e riunisce per la prima volta in un unico testo i diritti civili e politici classici e i diritti economici e sociali, afferma che «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». L’effetto vincolante per il giudice italiano della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è stato per la prima volta affermato dalla Corte di Cassazione, sez. civ. III con sentenza n. 2352 del 2 febbraio 2010. Per Cassazione pen., sez. II, sent. n. 28658 del 21 luglio 2010 la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea «rappresenta certamente uno strumento di interpretazione privilegiata anche per il diritto interno che si deve presumere coerente con quei valori che gli Stati membri e gli organi dell’Unione hanno comunemente accettato», con la conseguenza che, nell’interpretare le leggi nazionali ci si deve conformare ai principi promozionali del Trattato di Lisbona, «il che implica una tutela e una protezione della dignità in campi ove questa è massimamente soggetta ad attentati e lesioni tra le più rilevanti e potenzialmente devastanti, secondo criteri oggettivi e di natura pubblica, certamente non derogabili attraverso accordi tra le parti». Cassazione pen., sez. II, sent. n. 28658 del 21 luglio 2010 afferma che «la filonomachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento del diritto comune europeo. Il che implica una tutela e una protezione della “dignità”, in campi ove questa è massimamente soggetta ad attentati e lesioni tra le più rilevanti e potenzialmente devastanti, secondo criteri oggettivi e di natura pubblica certamente non derogabili attraverso accordi tra le parti».
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