Di Mario Agnes (6 dicembre 1931 – 9 maggio 2018), presidente nazionale dell’Azione cattolica dal 1973 al 1980, direttore dell’Osservatore Romano dal 1984 al 2007, storici, collaboratori, amici ed estimatori autorevoli hanno richiamato tanti aspetti: lo studioso, l’uomo della comunicazione, l’indefesso servitore della Chiesa, l’amico dei papi. Voci commosse ne hanno ricordato l’alta statura umana, l’intensa vita spirituale, la fede senza ombre e una dedizione assoluta alla Chiesa. Amata in tutte le sue componenti: dal popolo di Dio che la costituisce ai papi frequentati (da Paolo VI a Benedetto XVI).
L’uomo e il suo stile
Austero fino alla severità, impegnato in compiti ardui, come la successione a Vittorio Bachelet nella Presidenza nazionale dell’Azione cattolica durante la difficile stagione postconciliare, confrontato a situazioni drammatiche – l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, quella di Vittorio Bachelet nel 1980 –, Mario Agnes dirigerà per quasi un quarto di secolo l’Osservatore Romano con il rigore dello studioso ma, insieme, con una grande attenzione alla fragilità dell’uomo e alla sua perenne possibilità di rigenerazione.
Protagonista indiretto ma forte della storia della Chiesa nel Paese, integerrimo sui principi cristiani ma misericordioso nella loro incarnazione umana, non si è imposto alla coscienza dei lettori del giornale vaticano se non attraverso la testimonianza. Una testimonianza coraggiosa, che poteva giungere, per amore dell’uomo, a un’apparente durezza. Come quando, durante la prima “Guerra del Golfo”, lottò per la pace, dalle pagine del suo giornale, con passione impetuosa e coinvolgente.
Per consonanza femminile ho condiviso il confidente ricordo di Agnese Pellegrini, che dello storico e del giornalista ha richiamato aspetti di una umanità profonda e spesso nascosta, commovente per delicatezza e garbo. Agnese Pellegriini incontrò il professore a 23 anni, ma la sua toccante rievocazione è condivisibile anche da chi l’ha conosciuto nella maturità e dall’ambito particolare della vita monastica.
Non rammento come avvenne la prima telefonata e l’annuncio della amabile segretaria che «il direttore desiderava parlarmi». Mi si rivolgeva come ad una religiosa che avrebbe dovuto intensificare il modesto contributo al giornale vaticano di articoli e recensioni, anche se nei tempi lunghi della vita in monastero. Con mio stupore, mostrava di sapere che ero stata discepola dello storico Eugenio Dupré Theseider e che avevo fatto qualche piccola cosa per la Rivista di storia della Chiesa in Italia di mons. Michele Maccarrone. Gli interessava che chi collaborava sia pure occasionalmente al giornale fosse persona di forti convinzioni cristiane. Alle mie titubanze – la vocazione monastica è orientata al silenzio e la comunicazione della fede non passa abitualmente per la parola, della quale il monaco non è esperto – rispose deciso: «Per quanto la riguarda, questo lo lasci giudicare a me». Poteva sembrare una risposta dura, era invece un incoraggiamento.
Cominciò così un rapporto bello tra un Mario Agnes sempre amabile, modesto, delicato, e una monaca che gli inviava con ritmi lenti ma costanti un piccolo contributo di riflessioni bibliche e recensioni. Rapporto che coinvolgeva ovviamente altre religiose e comunità di vita contemplativa. Il giornale vaticano, in particolari ricorrenze liturgiche o nelle giornate dedicate alla preghiera per le monache di clausura, le invitava a una testimonianza che si sapeva gradita anche al papa.
Rispettosissimo dei ritmi della vita monastica, telefonava sempre negli orari stabiliti. Qualche volta per una richiesta, spesso per un rassicurante consenso. Mi abituai alla sua presenza invisibile e discreta, intuivo la profondo stima che nutriva per il monachesimo, era lieto di sapere che i suoi Acta diurna erano abitualmente letti in comunità, ci affidava il giornale, i collaboratori, i viaggi del papa.
Lentamente, nel rispetto della sua discrezione e della sua delicatezza, mi azzardai a porgli qualche domanda: i rapporti tra Chiesa ed ebraismo, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso… Mi suggeriva letture e testi, comunicava una visione della realtà ecclesiale ampia e serena, di un umanesimo profondo che condivideva con il suo amato Giovanni Paolo II: L’uomo via della Chiesa (RH 14), portatore e annunciatore di liberazione, in Gesù Cristo, da ogni angustia dello spirito e della storia.
Angelo Scelzo ricorda: «Era un uomo del Meridione, della verde Irpinia, e portava con sé, tutto intero, l’orgoglio delle origini: della terra e, soprattutto, della famiglia, la sua più grande scuola di vita. Era un uomo di parte. La verità, la fedeltà, l’amicizia, il rispetto per le persone, da un lato, e i contrari dal lato opposto, pur senza alzare i ponti levatoi di un dialogo mai al ribasso. Anche per questo non solo all’Osservatore è stato una guida forte».
Fiero del suo Sud, si compiaceva quando gli ricordavo che il pensiero filosofico italiano – da Giordano Bruno a Bernardino Telesio, da Vico a Campanella ad Antonio Labriola… – è nato soprattutto nel nostro caldo Meridione
Forse gli derivava dal suo lungo servizio all’Azione cattolica l’attenzione, che poteva sorprendere in un giornale dalle prospettive internazionali, alla cronaca, alla vita di Chiese, di luoghi minori che oggi diremmo di periferia. Ma era una preoccupazione relativa al suo amore alle realtà umane più profonde e costitutive dell’uomo: la famiglia, la città, «la piccola città» che spesso custodisce valori essenziali.
L’uomo nascosto nel cuore
Angelo Scelzo ha rilevato quanto fosse difficile immaginare «quale oltre di umanità potesse riservare quel “professore”… così riservato e discreto, e così fuori dalla mischia».
Il suo garbo nativo, una serietà che poteva farlo apparire distaccato, nascondevano una carica di umanità tenera e finissima, che emergeva quando qualcuno gli chiedeva un consiglio o gli confidava una sofferenza. Quando gli chiesi aiuto per un amico che aveva bisogno di un ricovero all’ospedale Gemelli per un difficile intervento, si occupò immediatamente del caso e non volle ringraziamenti di sorta. Per una consorella addolorata per l’atteggiamento non corretto di un sacerdote di Roma ebbe parole di grande conforto e anche di un salutare umorismo. Non sminuendo la responsabilità dell’autore del gesto sbagliato, gli contrappose esempi positivi di uomini di Dio, misericordiosamente critici del confratello sbandato.
In queste occasioni il suo abituale pudore dei sentimenti trovava parole brevi, forti e delicate, capaci di consolare nel fondo: Mario Agnes assumeva un atteggiamento quasi paterno, che si sarebbe potuto definire sacerdotale.
È impossibile intuire il percorso spirituale di una persona schiva, ma l’agire umano ne lascia trasparire aspetti che parlano oltre ogni parola. La dedizione appassionata al lavoro, il servizio alla Chiesa, alla sua tradizione, al Magistero, vissuti nella modestia, rivelano la concretezza di un grande amore a Cristo.
Lo storico Giorgio Rumi ha richiamato di Mario Agnes la «fedeltà della mente e del cuore al pontefice (nella) naturalezza della sintonia». Una condivisione feconda, portatrice di comunione.
Benedetto XVI, nel toccante saluto allo storico direttore del giornale vaticano (20 agosto 2007), richiamando «le sue delicate ed esigenti mansioni» ne ammirava «le doti di intelligenza e di cuore», ribadendo il giudizio espresso già da Giovanni Paolo II in una lettera nel 1985, che elogiava «la sua competenza professionale (…) e, in modo particolare, il suo coerente impegno cristiano, il suo amore alla Chiesa e la sua esemplare fedeltà al Magistero»… Richiamando tutte le fasi del servizio ecclesiale di Mario Agnes, Benedetto XVI vi vedeva espressa «la sua testimonianza di credente».
Un commiato composto e sereno
Contribuendo con il suo impegnativo lavoro alla storia del cattolicesimo in Italia – la sua Serino lo ricorda «caparbio interprete del suo tempo (nello) stile della gente del Sud» –, Mario Agnes non ha cercato visibilità. Anche il distacco dal suo giornale è avvenuto in un silenzio composto, espressione di uno stile e di una grande dignità. A chi gli telefonava con gratitudine manifestava riconoscenza e una quieta serenità.
Una stagione storica ed ecclesiale diversa comportava cambiamenti profondi anche nella guida e nella composizione di un giornale. Agnes parlava con profonda stima del suo successore alla direzione dell’Osservatore Romano. Alludeva al suo lungo personale servizio senza nostalgie. Servo buono e fedele, grato di tutto, distaccato, orientato ormai a lidi diversi.
La testimonianza di fede dello storico direttore del giornale vaticano ha illuminato quietamente tutta la sua giornata. Dall’eucaristia mattutina prima di iniziare al lavoro all’affidamento di delicate missioni/o viaggi a seguito del papa alla preghiera di comunità monastiche, alla quotidiana recita sommessa dell’Angelus, un «piccolo rituale» delicatamente descritto da Francesco M. Valiante: «Agnes posava la penna sul tavolo, abbassava gli occhi e alzava la mano come se volesse fermare lo scorrere frenetico della giornata. Poi si segnava con la croce e restava assorto per qualche istante in preghiera. Lo guardavo e mi veniva in mente il celebre quadro di Millet, nel quale due contadini al tramonto, sospeso il lavoro dei campi e deposti in terra gli attrezzi del mestiere, sostano col capo chino a pregare l’Angelus».
Ho il rimpianto di non avergli espresso tutta la gratitudine che nutrivo per lui. Ma sono certa che la percepisse. Nel linguaggio breve la laconicità testimonia una densità che non ha bisogno di dirsi. Mario Agnes si esprimeva – come dice con finezza Agnese Pellegrini – in «piccole attenzioni ponderate e discrete», in una magnanimità che «si gioca nelle piccole cose, in ciò che sembra irrilevante» (Francesco, GE 169).
Nel mio piccolo, serbo una grata memoria di tante minime, a volte silenziose finezze, come il ricordo che inviava dai luoghi dei viaggi papali, manifestazioni minori di un amore alla persona che sa tutte le sfumature di un’umanità forte e tenera.
La lunga malattia e la solitudine, vissuta dopo la morte della cara sorella, affinarono lo spirito del grande credente. Mario Agnes, nella testimonianza di tutti gli amici, ha avuto piena consapevolezza della prossimità della fine e vi si è preparato con mitezza e pace.
Mons. Vincenza Paglia ha ricordato nella commossa omelia alle esequie: «A un amico aveva confidato di immaginare il momento della sua morte e del suo ingresso nel cielo pieno di gioia come il giorno in cui aveva fatto la prima comunione».
Solo a uno spirito grande è data la semplicità evangelica dei piccoli.