Maggio 1940: la Germania nazista è riuscita a conquistare il Belgio, i Paesi Bassi e il Lussemburgo. In un’imprecisata stazione ferroviaria della Francia settentrionale, durante una notte limpidissima, due fratelli – entrambi soldati – stanno aspettando il treno che li riporterà al fronte. In quella stazione, dove hanno trovato temporaneamente riparo molti rifugiati provenienti dalle zone appena invase dall’esercito hitleriano, regna il disordine. L’occhio di Irène Némirovsky (1903-1942), la scrittrice ebreo-ucraina di lingua francese deportata e assassinata ad Auschwitz, si sofferma, fin dalle prime righe di questo racconto, su una situazione caotica nella quale si muovono – in preda all’angoscia – militari, civili, scout, infermiere, gendarmi, donne con bambini, che occupano ogni spazio disponibile, sistemandosi persino sul pavimento e sui carrelli dei manovali. Una descrizione particolareggiata, che costituisce la prima parte della narrazione.
La seconda, nella quale viene riportata una conversazione tra i due fratelli – Claude, il primogenito, e François, il minore –, contiene l’elemento inatteso del racconto, giacché al lettore viene rivelata l’identità di un soldato tedesco che è stato ucciso proprio da Claude durante uno scontro a fuoco. Una delle foto che il militare portava nel portafoglio – insieme alla dedica scritta dalla madre sul retro dell’immagine – non lascia adito a dubbi: l’uomo, ancora giovane, che era stato ritratto insieme a una donna dall’aria mite, era lo stesso dato per disperso nel maggio del 1917 e da allora creduto morto, mentre doveva aver disertato ed essere rimasto in Germania, dove si era evidentemente formato un’altra famiglia: si trattava, insomma, del padre dei due soldati francesi.
Questi ultimi allora si rendono conto di avere avuto un terzo fratello che non avrebbero mai conosciuto. E François osserva: «Non ci si pensa mai […], ma con i quattro anni dell’altra guerra, l’invasione, poi le nostre truppe sul Reno, dei fratelli hanno dovuto già trovarsi gli uni contro gli altri in campi nemici» (pp. 35 s). Considerata quindi la continua, sempre più accentuata mescolanza tra i popoli, sembra del tutto realistico ipotizzare come nei diversi eserciti schierati su fronti contrapposti vi siano stati fratelli che non sapevano di esserlo, ma che si sono combattuti in nome di un fanatismo nazionalista le cui conseguenze sono state spesso costituite dal dramma narrato così efficacemente da Irène Némirovsky.
Questo è un racconto che colpisce in primo luogo per la qualità della prosa, che richiama alla mente i romanzi più riusciti dell’autrice, come, per esempio, David Golder e I cani e i lupi. Una scrittura, egregiamente resa dall’attenta traduzione di Giovanni Ibba, che si caratterizza inoltre per l’asciuttezza, l’incisività, la magistrale aggettivazione, la capacità di delineare un intero mondo in poche pagine.
Tornando al profilo tematico dell’opera, Lo Sconosciuto parla di un passato che non passa: torna, al contrario, e pone questioni tanto angoscianti quanto ineludibili. Cosa decideranno di fare, dunque, una volta appresa la verità, i due fratelli? Sceglieranno probabilmente di non parlarne, giacché Claude, nelle ultime righe del racconto, afferma: «Ci sono cose che è meglio non dire» (p. 38). Decideranno, in altri termini, di farsi carico da soli del peso di un avvenimento così straziante, nella speranza che, a poco a poco, i suoi fantasmi finiscano col dissolversi.
Irène Némirovsky, Lo sconosciuto, Nota di lettura di Jean-Louis Ska. Traduzione di Giovanni Ibba, EDB, Bologna 2018, pp. 64, euro 4,99. Dal sito de La Civiltà cattolica (23 luglio 2018).