È fin troppo facile polemizzare con le posizioni sulla democrazia e sul Parlamento ultimamente rilanciate dal giovane Casaleggio e dall’attempato Grillo.
Il primo impulso è dettato dalla difficoltà di prendere sul serio l’idea di un progressivo superamento delle assemblee rappresentative per effetto del prevalere, oggi teoricamente possibile, di una “democrazia digitale” che fa coincidere il potere di legiferare con il diritto di cittadinanza.
Se la tecnologia consente ad ogni cittadino di interloquire istantaneamente sulla redazione e sull’approvazione/rigetto di una legge, non c’è più bisogno di un apparato di regole e procedure come quelle oggi esistenti e, a maggior ragione, di un ceto di specialisti politici dedicati all’esercizio del potere legislativo.
E la “centralità” del Parlamento?
Fin qui Casaleggio. Quanto a Grillo, il suo consueto modo di sfidare il paradosso lo porta alla soglia delle estreme conseguenze: se quello descritto è il quadro giusto, se cioè tra i cittadini vige il principio dell’“uno vale uno”, perché mai si dovrebbe continuare a spendere per eleggere i componenti delle camere: non sarebbe sufficiente affidarsi al caso, cioè al sorteggio, visto che la funzione da esercitare per il “nuovo” Parlamento sarebbe solo quella di dire sì a proposte espresse dall’iniziativa popolare?
Il discorso, viceversa, non va banalizzato. A portarlo avanti, infatti, non sono i personaggi stravaganti di una fauna politica in formazione ma soggetti qualificati di un’entità – il Movimento 5Stelle – che il 4 marzo scorso ha preso il potere in Italia (in compagnia del populismo destrorso della Lega) e ha inserito nel “programma-contratto” di governo un paragrafo sulla democrazia diretta che fa capo ad un apposito ministero con relativo ministro. Il quale, per il momento, parla soltanto di ampliamento dell’area del referendum e delle leggi di iniziativa popolare, ma non si sottrae all’idea di collocare tali istituti nella prospettiva di evoluzione dell’intero sistema politico.
Più prudente sembra, per completare il quadro, la posizione dell’onnipotente Di Maio il quale, bontà sua, sembra offrire al Parlamento una chance di sopravvivenza a condizione che sappia guadagnarsela, nel senso di raggiungere da solo gli obiettivi di efficienza, rapidità e concretezza insiti nella visione dinamica della “Terza repubblica”.
Più sfocato – e, in definitiva, ritardato – l’atteggiamento del presidente della Camera, Fico, che nel suo discorso di insediamento ha decantato la «centralità del Parlamento» senza che, nei passaggi successivi, se ne vedessero le conseguenze. Ché, anzi, il tran-tran parlamentare è proseguito senza che si percepisse un segnale di novità sul fronte del “vecchio” come su quello dell’ipotetico nuovo.
Democrazia in congedo?
Bene hanno fatto dunque coloro che hanno dato fondo alle riserve dell’ironia politica per segnalare il carattere improprio e dannoso nel new deal democratico delineato dal duo Casaleggio-Grillo, dimostrando che, al fondo di esso, vi sarebbe un vero e proprio congedo della democrazia.
Così, Sabino Cassese ha domandato a Grillo se, nel panorama uniforme della cittadinanza diffusa, fosse implicito che anche la scelta dell’… idraulico fosse affidata alla sorte.
Più in profondità, Ezio Mauro ha osservato che «quanto più dovesse crescere il meccanismo della democrazia diretta attraverso le piattaforme digitali del modello Rousseau, nascerebbe il problema del controllo di quei dati, del loro utilizzo, della garanzia della privacy politica degli utenti, del potenziale politico e commerciale»… che quel sistema acquisirebbe.
E così, infine, Pierluigi Battista ha denunciato che la predicazione di Casaleggio «si fonda, malgrado la sua patina di novità tecnologica, su una concezione mistica del popolo visto come un’entità indivisa e con una sola voce», mentre «la democrazia rappresentativa vuole appunto rappresentare un popolo che non è un mostro omogeneo ma è diviso per interesse, opinioni, idee, classi, orientamenti religiosi»; differenze che si rispecchiano nelle rappresentanze parlamentari.
Un’osservazione – quest’ultima – che sembra presente al ragionamento di Grillo quando avverte che il sorteggio degli eligendi avverrebbe su una platea “campionata” nel senso statistico del termine, sicché il sorteggio elettorale avrebbe la figura di un gigantesco sondaggio a sfondo corporativo.
Il dibattito giustamente continuerà ed è bene che i concetti vengano approfonditi anche nelle loro conseguenze. Ma forse gli spunti offerti dal pensiero grillino su temi così impegnativi possono attivare un itinerario diverso e più legato alla realtà delle cose per ricentrare – come è necessario – la funzione delle assemblee elettive.
Al Governo la funzione legislativa
Per chi scrive, l’approccio che sto per evocare non è nuovo. Ricordo di averne parlato tanti anni or sono già sul finire della mia esperienza parlamentare.
A me sembrava che il Parlamento – Camera e Senato – stesse già allora (1987-1992) perdendo la sua funzione essenziale di luogo di elaborazione delle leggi. Formalmente queste venivano presentate e votate da Camera e Senato ma, nella sostanza, il loro riferimento genetico era il Governo, al quale facevano capo tutti i terminali degli interessi e delle culture del paese.
La riprova di ciò era nel fatto che solo le leggi proposte dal governo avevano la garanzia di essere esaminate e votate. Osservavo anche che le fonti normative in concreto si erano fortemente diversificate per effetto della creazione delle Regioni e della presenza sempre più penetrante dell’Unione Europea.
Di qui una proposta alquanto radicale: prendere atto dello stato delle cose riconoscendo al Governo la funzione legislativa che esso già svolge, in particolare con i decreti-legge, e trovare per il Parlamento (una o due camere a scelta) un altro mestiere pur esso utile e necessario.
Si trattava – e si tratterebbe – di una dilatazione del potere di controllo politico dell’operato dell’esecutivo a partire dall’atto più semplice di sindacato ispettivo (l’interrogazione parlamentare) alle procedure più complesse delle inchieste parlamentari, alle quali conferire anche con atti formali (il giuramento di chi depone, ad esempio) un conveniente connotato di solennità.
Debbo aggiungere che il disegno era più ambizioso di una semplice riallocazione di competenze. Il recupero della funzione del controllo politico voleva estendersi ben oltre il Parlamento, per acquisire una dimensione estesa quanto gli ambiti della partecipazione popolare.
Immaginavo un sistema di controllo e di verifica capillare in cui la delega dell’eletto venisse continuamente messa alla prova da una realtà popolare in grado di farsi un’idea dei problemi e di esprimere su di essi un’opinione ponderata. Nel presupposto che tutto avrebbe funzionato meglio se gli eletti del popolo avessero dovuto misurarsi, giorno dopo giorno, con un’opinione pubblica in grado di pronunciarsi non solo sugli obiettivi immediati (le buche sulle strade del quartiere o lo smaltimento dei rifiuti locali) ma anche sugli aspetti generali delle scelte da compiere e sui ragionamenti politici sottostanti alle sintesi dell’esecutivo.
Non, dunque, un popolo passivo chiamato saltuariamente a cantare un sì o un no su uno spartito predisposto da terzi, ma una capacità di crescita politica del corpo sociale nella quale un ruolo fondamentale era riservato all’educazione civile alla responsabilità.
Erano, per me, i riflessi di un’esperienza compiuta nelle Acli nel tentativo di dar vita a quello che chiamavo «un movimento della società civile per la riforma della politica» che ebbe solo parziali riscontri nell’ambito dei partiti e fu presto sommerso dal prevalere delle scelte di riforma dall’alto, figlie della visione per cui nuove istituzioni creano nuova società. Con gli esiti ben noti sui quali il compianto non serve se non è accompagnato da idee e propositi di superamento.
La via della dilatazione della funzione parlamentare del controllo politico non è certo l’unica praticabile. Ma può servire ad un duplice fine: non lasciare ad un solo soggetto politico il monopolio delle idee di riforme e, di conseguenza, costringere tutti ad una riflessione dal vivo e dal vero sulle condizioni presenti della democrazia in Italia (e in Europa) per mettere in campo quelle «nuove idee ricostruttive» (uso non a caso una formula cara a De Gasperi) di cui hanno bisogno le istituzioni parlamentari e con esse il paese di cui vogliono essere espressione.