Domenica scorsa passeggiavo per le vie di Chinatown a Toronto. Al viaggiatore appena un po’ impratichito salta subito all’occhio la somiglianza che scorre fra queste fette di «impero» cinese trapiantato nelle grandi città del Nord America. Un modello quasi seriale, fatto di negozi vari, ristoranti, banche, associazioni, servizi professionali (dalla consulenza fiscale alla sanità) e così via, alcuni dei quali destinati specificamente alla comunità cinese esportata nelle zone più rappresentative del modello di vita occidentale.
Chinatown
La prima impressione, che ho ogni volta di nuovo quando mi addentro per le vie di una delle tante Chinatown nord-americane, è quella di un contrasto paradossale. Da un lato, il senso di un allineamento quasi armonico della comunità cinese con il tessuto delle città in cui si è sedimentata: ne è parte integrante, attira turismo, fa circolare denaro (in maniera lecita e non), fino a diventare un pezzo della storia stessa di quelle città.
Quando si tratta di business, l’industriosa anima cinese sembrerebbe sentirsi a proprio agio, come se fosse a casa sua, nelle maglie frenetiche e spietate del capitalismo occidentale. Ma, d’altro lato, si avverte anche la sensazione che quella cinese rimanga una sorta di comunità chiusa, auto-sufficiente, senza alcun vero interesse di meticciare le proprie tradizioni con la cultura locale della città in cui vive quotidianamente.
Vedi anziani segnati dagli anni, dal lavoro e dai sacrifici fatti, camminare lentamente per strada appoggiandosi al bastone, oppure seduti a chiacchierare tra loro ai bordi di un parchetto. Questo mentre tutto intorno brulica a un ritmo che semplicemente non possono più tenere. Eppure sono lì, mattina dopo mattina, più resistenti del tempo che passa inesorabile. Poi, d’incanto e come se niente fosse, un giorno scompaiono – restituiti dalla morte a quell’invisibilità e anonimato che, in fin dei conti, è stata la condizione di tutta la loro vita al di fuori delle mura dell’«impero».
Cristianesimo evangelicale e comunità cinesi
Ma questa volta la passeggiata attraverso le vie della Chinatown di Toronto ha mostrato un’altra faccia della realtà cinese all’estero. Qualcosa che avevo già intuito negli ultimi anni, prevalentemente per via degli esterni dei palazzi, ma che in un’afosa domenica di inizio agosto si è palesato in tutta la sua evidenza.
Sarà stato anche per via dell’orario (tarda mattinata), ma questa volta le tante chiese evangelicali cinesi disseminate nei quartieri delle città nord-americane non sono restati solo dei semplici edifici, ma si sono trasformate in gente, comunità, praticanti, credenti, che si riversavano nelle strade al termine della celebrazione liturgica domenicale.
Non è solo il numero dei partecipanti alle varie liturgie evangelicali, insieme alla loro età media, che lascia sorpreso l’osservatore europeo – abituato a ben altri scenari a casa propria -, ma anche la quantità di edifici di culto cristiani che si possono trovare in uno spazio cittadino relativamente ristretto. Un semplice taccuino di viaggio non può che registrare qualche impressione, sapendo che deve fare ben attenzione a non generalizzarle.
Ma forse si può azzardare una qualche prima riflessione in merito, lasciando a voci più competenti il compito della verifica e dei debiti approfondimenti. Per le generazioni più giovani delle comunità cinesi esportate nelle grandi città nord-americane il cristianesimo evangelicale rappresenta un polo di attrazione personale e la forma di configurazione di una certa comunità «altra» all’interno della più ampia comunità cinese locale.
A prima vista, mi sembrerebbe possibile parlare di una sorta di frattura generazionale che si va delineando, all’interno delle comunità cinesi, lungo l’asse dell’appartenenza al cristianesimo evangelicale nelle città nord-americane. Una seconda pista di indagine, che potrebbe essere di un qualche interesse, riguarda il rapporto fra questo evangelicalismo cinese all’estero e le comunità cinesi in patria. Cosa circola tra questi due lembi dell’«impero», e come si organizzano tra loro i rapporti di potere e interesse?
La Cina e i cristianesimi
Dato che il cristianesimo evangelicale è tendenzialmente destrutturato, senza un’istanza gerarchica in grado di dare risalto istituzionale alla forza di attrazione che ha, da un lato, e al potere finanziario che smuove, dall’altro, può essere che si tratti di un fenomeno (religioso) che la burocrazia cinese e gli assetti più alti del partito non riescono a percepire nella maniera dovuta.
Ma questa difficoltà culturale di percezione adeguata potrebbe diventare un problema, neanche troppo lontano nel tempo, per il governo cinese, in quanto l’evangelicalismo rappresenta alla fin fine una forma di penetrazione «spirituale» di quel modello occidentale complessivo rispetto al quale la Cina si vuole immaginare come realtà altra di configurazione politica e culturale.
E qui si apre un terzo ambito, stante questo stato delle cose, che riguarda il rapporto fra la Cina e la Chiesa cattolica – colto qui a partire da una possibile prospettiva del governo cinese. Detto altrimenti: in questo momento, vista anche l’ampia diffusione del cristianesimo evangelicale nelle comunità cinesi all’estero, intessere rapporti ufficiali e cordiali con la Santa Sede non potrebbe rappresentare un interesse strategico a lungo termine per la Cina e il suo establishment politico?
Ossia, non vi sarebbe un qualche vantaggio per la Cina odierna a fare sponda, in un qualche modo istituita, sulla Chiesa cattolica per apprendere la grammatica religiosa del funzionamento, comunque già in atto, dei cristianesimi all’interno delle comunità cinesi (all’estero e in patria)?
E questa non potrebbe rivelarsi una buona mossa, anche se una simile strategia richiederebbe al governo cinese di concedere spazi e aperture alla Chiesa cattolica che sono per lui difficili da accettare poiché si attestano a un livello di forma mentis che gli rimane sostanzialmente estraneo e con cui ha poca familiarità?