Abramo è senza figli. Cioè senza futuro, senza una prospettiva che dia un senso alla sua vita, al suo impegno, al suo vagare. «Io me ne vado senza figli e l’erede della mia casa è Elièzer di Damasco». Eleva a Dio il suo lamento: «A me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede» (Gen 15, 2.3). Non si riconosce in chi gli succederà: Elièzer non è parte del suo sangue, del suo clan; non proviene da Ur dei Caldei; forse non crede nemmeno nello stesso Dio. Impossibile, per Abramo, pensare che il senso della propria vita passi attraverso di lui.
Tre risposte davanti alla morte
Il singolo uomo è mortale, il nostro destino biologico è segnato; quando la morte ritarda, l’attesa di essa è accompagnata da un decadimento che non fa ritenere di per sé desiderabile un protrarsi indefinito dell’esistenza. Nella storia umana la ribellione a questo limite si è diretta in tre direzioni, e l’opzione è stata inestricabilmente connessa alla propria visione del mondo, ne è stata condizionata e l’ha condizionata a sua volta.
La prima risposta è la negazione: la ricerca di piaceri, di palliativi, di obiettivi ravvicinati che oscurino la mèta e tacitino – fin quando possibile – l’angoscia. La sete di immortalità è placata negando la sete.
La seconda via è quella delle persone, dei popoli e delle culture che credono in una prospettiva «altra», in un mondo «al di là» che non conosce il limite della corporeità, nel quale la dimensione più profonda e personale di noi stessi ritrova, dopo la morte, nuova esistenza e nuove possibilità.
La terza direzione è quella seguita dalle persone, dai popoli e dalle culture che, partendo dal presupposto dell’unitarietà del reale (senza prospettive trascendenti delle quali possiamo far parte), trovano una risposta alle proprie angosce nella continuità, attraverso le generazioni, dei contenuti vitali (linguistici, culturali, politici, artistici) che il singolo vede permanere in chi gli sopravvive.
Il nostro mondo, da due o tre secoli, come l’antico Israele cerca di placare la sua sete di immortalità in questa terza direzione. La fede in un aldilà sembra confinata in settori minoritari o prende la forma di cascami esoterici che non sembra siano in grado di condizionare davvero le scelte collettive. Dio è chi mi promette una discendenza, una continuità; è il Gruppo (di volta in volta: la Nazione, la Razza, la Classe, la Cultura…) nel quale mi riconosco, perché in esso trovo quegli elementi che mi permettono di credere che ciò-che-mi-rende-me-stesso non vada a scomparire con la mia morte. Sono consolato dalla consapevolezza che il mio vivere e il mio morire trovano senso nel fatto di aver dato vita (biologicamente o culturalmente) ad altri esseri che mi somiglieranno, che saranno altri me stessi.
Ci stiamo estinguendo
Da qualche decennio una parte rilevante del mondo più arricchito, e il nostro Paese in particolare, vive una peculiare situazione di implosione demografica. A partire dalla metà degli anni Settanta il tasso di fecondità è bruscamente calato, fino a dimezzare il numero delle nascite rispetto all’epoca immediatamente precedente. Com’è facilmente intuibile, per conservare numericamente una popolazione dovrebbero nascere due figli per donna. Nel 1964 in Italia la fecondità era a quota 2,7; tra 1974 al 1981 passò da 2,4 a 1,6. Dopo un ulteriore calo negli anni successivi – con una punta minima nel 1995, a 1,19 – il numero di figli per donna si è assestato, in Italia, attorno a 1,3-1,4, in una “fascia bassa” che comprende anche Germania, Spagna, Portogallo, Grecia, Giappone, Polonia, Corea del Sud. Un po’ più sopra, con tassi che stanno tra 1,5 e 1,8 (comunque ben al di sotto del livello che conserva stabile la popolazione) stanno Cina, Iran, Brasile, Russia. Poco sotto 2 sono Vietnam, USA, Gran Bretagna e Francia; poco sopra Turchia, Bangladesh, Messico, India, Indonesia e molti stati del Nordafrica. Su livelli più alti stanno le Filippine (3,0), l’Egitto (3,3), il Pakistan (3,5); la Nigeria, l’Etiopia e svariati altri paesi africani stanno tra 4 e 6 (la media mondiale, nel 2015, era a 2,45; nel 1950 era quasi 5).
Le conseguenze sono chiare, anche se sembra che generalmente vengano collocate più sul versante del welfare e delle politiche pensionistiche che su quello dell’identità collettiva e delle risposte alle angosce esistenziali. Gli europei in generale e quelli del Sud (con gli italiani) in particolare – se non si dovesse invertire rapidamente la tendenza; e non si vede come ciò potrebbe avvenire – stanno estinguendosi. Ogni generazione successiva non potrà – al netto dei fenomeni migratori – che essere due terzi di quella precedente. Gli europei, che nel 1950 erano più di un quinto dell’umanità, nel 2007 sono diventati un decimo e nel 2050 non saranno più del 5-6% di un mondo di dieci miliardi di persone. Nel giro un secolo o due l’italianità, la portoghesità, la polacchicità e chissà quante altre identità che si pretendono eterne diventeranno poco più di reperti archeologici, da mettere in vetrina accanto a quelle degli ittiti e dei sarmati. Quali che siano i motivi sociali, economici (o medico-biologici) che lo stanno determinando, questo è il fatto.
I gruppi però non sono entità oggettive: che lo vogliamo o no i nostri figli e i nostri nipoti, biologici o culturali, si rimescoleranno e potranno essere il lievito di un mondo ricco, grande e complicato. Ma si tratta di una prospettiva che, quando viene esposta, lascia sgomenti la grande maggioranza degli interlocutori – anche perché molti di essi figli e nipoti in cui riconoscere la propria continuità non ne hanno. La reazione più frequente è quella della negazione, della fuga, del divertissiment qui e ora (nel cibo o nel sesso: che, a loro modo, sono pure promesse di sopravvivenza).
Coloro che invocano soluzioni drastiche a difesa della discendenza (in modo razzista: che sia razzismo culturale o razzismo biologico poco importa) sembrano (e si sentono) persino più responsabili, giacché prendono sul serio il problema.
Xenomania
Si dice che la xenofobia (la paura del diverso) sia sempre più diffusa. Mi si permetta di dubitarne. Per cominciare, perché non è vero che abbiamo paura della diversità: noi la cerchiamo. Cerchiamo di individuarla nell’altro per poterlo qualificare come diverso da noi.
Avete presente quei film di fantascienza in cui una pericolosa specie aliena (o un’elaborata forma robotica) giunge sulla terra e riesce a mimetizzarsi, assumendo sembianze umane? Quando l’alieno prende l’aspetto dei tuoi cari e minaccia di prendere il tuo? Guai se l’uguaglianza fosse totale: dobbiamo cercare le orecchie a punta, gli occhi arrossati, la reazione anomala alla domanda banale (si pensi alla prima scena di Blade Runner). Solo grazie a quella differenza possiamo distinguere “noi” e “loro”: perché “noi” vogliamo, anzi dobbiamo (come si usa dire sbagliando il verbo modale) avere un futuro e “loro”, invece, vanno lasciati fuori del perimetro di chi merita di vivere.
Le differenze che intercorrono tra i singoli esseri umani sono, se guardate con metri oggettivi, minime. Acquistano un qualche significato solo nel momento in cui sono funzionali a creare una barriera. Basta un errore di pronuncia, come in Giudici 12, per disconoscere la fratellanza. Di quell’errore siamo in cerca (altro che xeno-fobia! si tratta invece di xeno-mania) per distinguere tra “noi” e chi potrebbe minacciare di sostituirci. Quella minima differenza è il motore di tante forze politiche la cui esistenza terminerebbe ben presto se non riuscissero a suscitare e mantenere in noi la paura dell’altro: se c’è quella paura, qualunque altro problema politico (e qualunque reale possibilità di affrontarlo) diventa, agli occhi di chi è stato spaventato, irrilevante.
La sostituzione: la vera angoscia
Oggi la nostra cultura vive dunque la paura della sostituzione: temiamo un futuro in cui non ci saremo noi, non ci sarà la nostra biologia, non ci sarà la nostra lingua, non ci sarà la nostra cultura. O, per lo meno, pensiamo che non ci saranno, perché – da perfetti xenomani – rifiutiamo di guardare con sim-patia alle similitudini tra noi stessi e quelli che verranno dopo di noi (l’Idolo del Gruppo non ammette che veneriamo altri che lui).
Che risposta dare a questa angoscia?
Riesco a formulare una risposta solo in termini ultimativi: nessuno spazio, nessuna comprensione, nessuna pietà. L’angoscia della sostituzione è un demone che va combattuto, delegittimato, ripudiato. Non si può venire a patti con lui, non si può pensare di farne un uso strumentale: né per convenienza politica, né per autocompatimento.
Ma è un demone di grande forza, e lo si può combattere solo su un piano: quello esistenziale e religioso. Ogni altro piano è inclinato e scivoloso e ci porta dall’angoscia alla paura, dalla paura alla rabbia, dalla rabbia all’odio. Davvero vogliamo che tutto questo – angoscia, paura, rabbia, odio – sia quel che lasciamo, accanto al nostro cadavere in decomposizione? Se non lo vogliamo dobbiamo smetterla di ragionare col demone, dobbiamo semplicemente respingerlo. Non sarà e non è un combattimento facile. È quello che Kierkegaard chiamava il “salto nella fede”.
Abramo ebbe da Sara l’atteso erede. Ma ci fu un altro momento in cui egli temette di perderlo. L’episodio del “sacrificio di Isacco” è noto, ma di solito ci si pensa tenendo conto, contemporaneamente, di come la vicenda si risolse: con la “restituzione” di Isacco e il pieno adempimento della promessa. Eppure la conseguenza scandalosa e incomprensibile dell’azione di Abramo, obbediente all’ordine di Dio, poteva essere il rientro in scena di Eliézer di Damasco, o di qualche altro erede in cui Abramo non si riconosceva.
Ma il patriarca era disposto, uccidendo Isacco, ad accettare quel destino. Da quella accettazione nacque non solo una discendenza ma anche la benedizione per «tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gen 22,18).
Emanuele Curzel (1967) è docente di Storia Medioevale presso l’Università di Trento; nelle sue ricerche si è occupato principalmente delle istituzioni ecclesiastiche. Ha pubblicato tra l’altro Sintesi di storia della Chiesa. Date, nomi, eventi (Ancora, 2007). È direttore della rivista Studi Trentini. Storia. L’articolo («Come Abramo di fronte a Elièzer di Damasco») è stato pubblicato sulla rivista Il Margine 37(2017)8.