XXIII Per annum: Apre gli orecchi per dischiudere il cuore

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Il verbo ascoltare ricorre 1159 volte nell’Antico Testamento e spesso è riferito a Dio che – assicura Isaia – non è sordo (Is 59,1). A differenza però degli uomini, che spesso chiudono gli orecchi al grido del povero che implora aiuto e subito li tendono non appena odono elogi e complimenti, il Signore è attento solo alle preghiere, al pianto, ai lamenti del suo popolo. “Se egli grida a me – garantisce – io l’ascolto, perché sono pietoso” (Es 22,26). In nessun testo dell’Antico Testamento si afferma che egli ascolta le lodi che gli vengono rivolte.

Sono sensibilità d’udito molto diverse.

Nel libro del Deuteronomio e sulla bocca dei profeti torna insistente l’invito: “Ascolta Israele” (Dt 6,4); “Udite la parola del Signore” (Mic 2,4). La sordità a questa voce è il grande peccato.

Zaccaria rivolge un’accusa pesante al suo popolo: “Hanno indurito gli orecchi per non sentire, hanno indurito il cuore, come un diamante, per non udire” (Zc 7,11-12) e Geremia definisce Israele “popolo stolto e privo di senno, che ha orecchi, ma non ode” (Ger 5,21). Il Signore chiede al suo popolo la docilità e l’adesione alla sua parola, ma la risposta che riceve è deludente: “Tu abiti in mezzo a una genìa di ribelli – confida a Ezechiele – hanno orecchi per udire, ma non odono, perché sono una genìa di ribelli” (Ez 12,2).

La sordità, nella Bibbia, è l’immagine del rifiuto della parola di Dio, raffigura la condizione dell’uomo sedotto da voci ingannevoli. È una condizione drammatica, una patologia grave, ma il Signore ha promesso di curarla.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Dammi, Signore, un cuore che ascolti la tua parola”.

Prima Lettura (Is 35,4-7)

4 Dite agli smarriti di cuore:
“Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”.
5 Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
6 Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto,
perché scaturiranno acque nel deserto,
scorreranno torrenti nella steppa.
7 La terra bruciata diventerà una palude,
il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua.

Il profeta si rivolge agli israeliti, esuli a Babilonia e promette loro un futuro radioso: “Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì! Canti con gioia e con giubilo” (Is 35,1-2). Con queste immagini dolcissime viene annunciato l’imminente intervento del Signore in favore del suo popolo. Poi c’è l’esortazione alla speranza: “Coraggio! Non temete; ecco il vostro Dio viene a salvarvi!” (v. 4) e la descrizione del rinnovamento causato dalla venuta del Signore: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un capretto e griderà di gioia la lingua del muto” (vv. 5-6).

Nella Bibbia, la cecità, la sordità, la paralisi, il mutismo sono spesso riferite a Israele, “popolo cieco, che pure ha occhi, sordi, che pure hanno orecchi” (Is 43,8), popolo che – come ripetono spesso i profeti – chiude gli orecchi alla voce del suo Dio e, non avendo udito la sua parola, è incapace di annunciarla.

Il Signore però – assicura il profeta – sta per intervenire in favore d’Israele. Tutte le sue debolezze e infermità saranno curate. Presto apparirà la luce della salvezza e i deportati si incammineranno verso la terra dei loro padri; le loro ginocchia vacillanti saranno rinvigorite, ascolteranno e proclameranno le meraviglie del loro Dio.

Da questo oracolo è sorta in Israele la convinzione che, alla sua venuta, il messia avrebbe operato una straordinaria trasformazione del mondo. Realizzando questi segni, Gesù si è presentato come l’atteso messia.

La lettura si chiude (vv. 6-7) con l’annuncio di un cambiamento anche della terra che accoglierà gli esuli che ritornano da Babilonia: “Il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua” e i luoghi, prima abitati da animali selvatici, diverranno campi fecondi e giardini irrigati. Non solo gli uomini, ma tutto il creato parteciperà alla salvezza del Signore.

Seconda Lettura (Gc 2,1-5)

1 Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria. 2 Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. 3 Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: “Tu siediti qui comodamente”, e al povero dite: “Tu mettiti in piedi lì”, oppure: “Siediti qui ai piedi del mio sgabello”, 4 non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?
5 Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano?

“Il ricco commette ingiustizia e poi alza la voce, il povero subisce l’ingiustizia e deve anche chiedere scusa” (Sir 13,3). È la constatazione amara di un pio israelita del II secolo a.C. ed è anche ciò che ognuno di noi verifica nella vita di ogni giorno. I ricchi e i potenti godono di privilegi, a loro sono riservati i posti d’onore, qualunque cosa dicano ricevono applausi e, se anche sbagliano, pochi hanno il coraggio di alzare la voce per condannarli. Nella nostra società questa discriminazione fra ricchi e poveri è accettata come normale; ma sarà lecito introdurla nella comunità cristiana?

Giacomo risponde a questa domanda con un esempio molto provocatorio: “Ammettiamo che entri nella vostra sinagoga qualcuno con un anello d’oro al dito… e un povero con un vestito logoro…” (vv. 1-4). La comunità che fa simili discriminazioni si adegua allo spirito del mondo dove il ricco è trattato in modo preferenziale e il povero non conta nulla. La comunità è stata invece costituita per dare un segnale opposto, per indicare le preferenze di Dio per i poveri; egli, infatti, “ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno” (v. 5).

Per poveri la Bibbia non intende solo chi è privo di denaro, ma anche tutti coloro che nella vita sono meno favoriti, coloro che, per qualunque ragione, tendono ad essere emarginati. È a costoro che la comunità cristiana deve prestare maggior attenzione, mostrando che i suoi criteri di giudizio sono opposti a quelli del mondo.

Nelle nostre chiese sono del tutto scomparse o stanno scomparendo le discriminazioni cui accennava Giacomo. Proviamo un istintivo disagio quando a qualche personaggio viene ancora riservato un posto d’onore. Si percepisce l’incongruenza, l’incompatibilità di un simile atteggiamento con la celebrazione eucaristica.

 Il problema oggi non si pone all’interno della chiesa, ma fuori. I seggi riservati alle autorità, ai benefattori insigni, ai dignitari non esistono più, ma le discriminazioni persistono all’esterno. Nella vita di ogni giorno è difficile rendere concreto il segno di fraternità e di uguaglianza che celebriamo quando siamo riuniti in santa assemblea per ascoltare la parola di Dio e per condividere il pane eucaristico.

Qualcuno accusa per questo le nostre comunità di ipocrisia, ma non è corretto. Come tutti gli uomini, anche i cristiani sono deboli e peccatori. Le nostre assemblee, riunite nel giorno del Signore, non celebrano tanto ciò che già sono, quanto ciò che devono diventare. L’eucaristia ci richiama come deve essere il mondo nuovo che siamo chiamati a costruire: un mondo in cui tutti, soprattutto gli ultimi, si sentono accolti e amati.

Vangelo (Mc 7,31-37)

31 Di ritorno dalla regione di Tiro, Gesù passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
32 E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
33 E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34 guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà” cioè: “Apriti!”. 35 E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36 E comandò loro di non dirlo a nessuno.
Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano 37 e, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!”.

Si rimane un po’ sorpresi di fronte ad alcuni dettagli piuttosto inconsueti presenti in questo brano. Gesù non cura l’ammalato, com’è solito fare, con la semplice parola, ma lo conduce in un luogo appartato, lontano dalla folla, gli mette le dita nelle orecchie, gli tocca la lingua con la saliva, alza gli occhi al cielo, emette un gemito, pronuncia una parola strana e, infine, proprio dopo aver slegato la lingua, impone il silenzio. Il suo comportamento richiama, molto da vicino, quello dei maghi.

Non deve stupire la singolarità di questa scena perché i terapeuti dell’antichità erano soliti accompagnare le loro azioni risananti con gesti misteriosi. Cercavano di creare un’atmosfera arcana, mantenevano segrete le loro pratiche esorcistiche e le loro ricette, ricorrevano all’imposizione delle mani e proferivano formule esoteriche. Gesù si adegua alla mentalità della gente del suo tempo, compie i gesti usuali dei guaritori, ma, come vedremo, conferisce a questi gesti un significato nuovo.

Consideriamo anzitutto il luogo in cui è ambientato l’episodio. Siamo nella Decàpoli (v. 31), la regione in cui Gesù ha scacciato da un ossesso una legione di demoni che poi sono entrati nei porci e si sono precipitati in mare (Mc 5,1). Siamo dunque in terra pagana e questa collocazione geografica, messa volutamente in risalto dall’evangelista, ha un indubbio significato teologico.

Il malato da guarire è un sordomuto o, più esattamente, un sordo che parla a fatica, che si esprime in modo disarticolato e incomprensibile. Il termine greco moghilálos, con cui l’evangelista definisce l’infermità, è molto raro. Nella Bibbia, ricorre solo nel nostro racconto e nel brano di Isaia che ci è proposto come prima lettura. È evidente che impiegandolo, Marco intende fare riferimento alla profezia e proclamarne l’adempimento.

Per Isaia, sordo-balbuziente era il popolo d’Israele, ma il malato che viene presentato a Gesù, essendo un pagano, come abbiamo appena rilevato, rappresenta la condizione di ogni uomo che non ha ancora incontrato Cristo.

 Il sordo è incapace di udire ciò che gli viene detto e, di conseguenza, non può nemmeno comunicare… ciò che non ha udito; vive isolato, chiuso nel proprio mondo.

Al tempo di Gesù tutte le malattie erano considerate un castigo di Dio, ma la sordità era addirittura una maledizione perché impediva di ascoltare la parola del Signore proclamata nelle sinagoghe.

Nel vangelo di Marco il sordo-balbuziente è l’immagine di chi non ha mai avuto l’opportunità di incontrare Cristo e ascoltare il suo vangelo, indica anche chi, volutamente, chiude le proprie orecchie e non permette alla parola di salvezza di penetrare nel suo cuore.

Chi è affetto da “sordità spirituale” e non aderisce alla fede non può nemmeno celebrare la salvezza perché non ne ha ancora fatto l’esperienza: “Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,9-14).

Curando il sordomuto Gesù proclama l’inizio di un nuovo dialogo fra il cielo e la terra. Agli uomini, giudei e pagani, vengono aperte le orecchie e il cuore; tutti possono ascoltare il vangelo, accoglierlo nella fede e annunciarlo ai fratelli.

L’opera risanante di Gesù segna anche l’inizio di rapporti nuovi fra i popoli, le religioni e le culture; è il segno dell’incontro, del dialogo, della comprensione. È sordo e muto chi non si confronta, chi è incapace di dialogare con gli altri, chi rimane chiuso nel proprio mondo, convinto di possedere già tutta la verità e di non avere più nulla da imparare.

La parola di Cristo apre gli orecchi e scioglie la lingua anche nelle nostre famiglie, nelle comunità cristiane, negli ambienti sociali dove spesso, più che comunicare, ci si aggredisce perché si è incapaci di prestare ascolto alle ragioni e ai bisogni dell’altro.

In questo episodio – lo abbiamo rilevato all’inizio – diversi dettagli assumono un significato simbolico e in essi si trovano espliciti riferimenti al rito del battesimo.

Cominciamo con l’evidenziare il fatto che il sordomuto non si presenta a Gesù da solo, ma viene accompagnato da alcune persone. Di per sé avrebbe potuto muoversi da solo, non si trovava, infatti, nelle condizioni del cieco di Betsaida che aveva bisogno di essere condotto per mano (Mc 8,22-23). Se Marco sottolinea questo particolare, apparentemente superfluo, vuol dire che in esso è presente un messaggio. Per giungere a Cristo e udire da lui la Parola che guarisce, è necessario essere accompagnati da qualcuno, da chi ha già conosciuto il Maestro e ha fatto l’esperienza del potere salvifico della sua parola.

Nella chiesa primitiva, coloro che per primi si accostavano a un uomo ripiegato su se stesso, lontano da Dio, chiuso al dialogo con i fratelli e lo prendevano per mano, gli parlavano di Cristo e lo conducevano da lui, nel giorno del battesimo fungevano giustamente da padrini del neofito.

Il miracolo avviene lontano dalla folla (v. 33). La ragione è la stessa per cui, alla fine, viene dato l’ordine di non divulgare l’accaduto (v. 36). Gesù non vuole che si diffonda la notizia che è lui il messia. Nel vangelo di Marco viene richiamato spesso il “segreto” imposto da Gesù sulla sua identità. Fino alla Pasqua le folle non sono in grado di capire chi egli sia, sono continuamente esposte al pericolo di considerarlo un messia glorioso, un signore di questo mondo. Abbiamo ancora presente, perché lo abbiamo meditato poche domeniche fa, il fraintendimento delle folle di fronte al segno della “moltiplicazione” dei pani. Solo dopo la morte e risurrezione, i discepoli avranno le idee chiare e solo allora saranno inviati ad annunciare a tutti che Gesù è il Figlio di Dio.

Il particolare dell’allontanamento dalla folla potrebbe avere anche un altro significato: colui che nel battesimo viene curato dalla sordità e ascolta la parola di Dio non appartiene più alla moltitudine dei pagani, diviene un uomo eletto, “separato”, non fisicamente, ma per la vita morale completamente nuova.

Prima di compiere il miracolo, Gesù alza gli occhi al cielo ed emette un sospiro. Nell’antichità i guaritori compivano spesso simili gesti. Li facevano per concentrarsi, per lasciarsi compenetrare dalla potenza della divinità, prima di compiere il miracolo. Al taumaturgo si raccomandava: “Aspira in te, con tutta la forza, dal divino, l’alito dello spirito, guardandolo direttamente”.

Compiuti da Gesù, questi gesti divengono preghiera (Mc 6,41), sono segni della sua unione con il Padre e, per noi, un invito a stabilire un rapporto più profondo con il Signore prima di intervenire per aiutare un fratello. Solo dopo aver “inspirato” lo Spirito, l’alito di Dio, siamo in grado di comunicare questa forza vivificante a chi si trova in condizioni di morte.

Il gesto di porre le dita nelle orecchie è lo stesso che viene compiuto nella celebrazione del sacramento del battesimo. Il ministro tocca l’orecchio del battezzando con il pollice e prega: “Il Signore Gesù che fece udire i sordi e parlare i muti ti conceda il privilegio di ascoltare presto la sua Parola e di professare la tua fede”. Il cristiano non è solo colui che può ascoltare il vangelo, ma è anche colui che è abilitato ad annunciare il messaggio che ha udito.

Per capire il gesto di porre la saliva sulla lingua del muto va tenuto presente che, nella concezione popolare, la saliva era considerata una specie di concentrato dell’alito, una materializzazione del respiro. Toccando, con la sua saliva, la lingua del sordomuto, Gesù ha dunque inteso comunicargli il suo respiro, il suo Spirito. È quanto avviene nel battesimo: il cristiano riceve lo Spirito di Cristo che lo fa divenire suo profeta, messaggero del suo vangelo.

Effatà è una parola aramaica, la lingua parlata da Gesù, e significa “Apriti!”. Non è rivolta all’orecchio, ma all’uomo che prima non era in grado di udire. È l’invito a spalancare le porte del cuore e a lasciar entrare Cristo e il suo vangelo nella propria vita.

L’ultima parte del brano (vv. 35-37) riferisce, in modo dettagliato, il risultato dell’intervento curativo di Gesù e si conclude con un “coro finale”. La folla canta la propria gioia perché si è compiuta la profezia di Isaia: Dio ha fatto udire i sordi e parlare i muti (Is 35,5-6).

Questo grido riconoscente è la professione di fede della comunità che ha visto un altro uomo giungere alla salvezza. Ora questo fratello è in grado di partecipare all’assemblea che si raduna, nel giorno del Signore. Si unisce alla comunità per ascoltare la Parola e proclamare, non balbettando, ma in modo ben articolato e cosciente, le meraviglie di Dio. Ha fatto l’esperienza della potenza risanante che proviene dal contatto con Gesù e vede ripetersi, nei sacramenti, per sé e per gli altri, quei medesimi gesti che lo hanno salvato.

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2 Commenti

  1. giovanni 1 settembre 2021
  2. domenico 7 settembre 2018

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