Riprendiamo volentieri l’articolo del benedettino Ghislain Lafont pubblicato il 27 agosto 2018 nel suo blog Des moines et des hommes. In esso, a partire dalla Lettera al popolo di Dio di papa Francesco (20 agosto 2018), il teologo esorta a riprendere la riflessione postconciliare sull’identità e sul ruolo del prete e sul terreno da cui nasce la mala pianta del clericalismo. La traduzione italiana è di Emanuele Bordello.
La questione dei preti pedofili ha assunto una rilevanza mondiale.
Papa Francesco ha riconosciuto tanto le colpe commesse quanto la carenza di reazioni forti da parte dei vescovi, che hanno facilitato l’estensione di questa piaga, e la necessità di venire in aiuto seriamente alle vittime, di guarire il danno che esse hanno subìto. Senza considerare la domanda forse più importante, poiché riguarda il futuro: come evitare i casi di recidiva. E non bisogna dimenticare la misericordia, che papa Francesco ha messo in esergo di tutto il suo ministero apostolico.
Nella sua ultima Lettera indirizzata a tutti i cattolici, papa Francesco ha messo in guardia contro il clericalismo, che sarebbe alla radice dei mali che denuncia, una sorta di corruzione della vocazione sacerdotale che si è lasciata distogliere dal suo senso apostolico ed evangelico, e attirare verso ciò che il papa chiama altrove la mondanità, alla quale faceva allusione già nell’omelia che rivolgeva ai cardinali nell’eucaristia all’indomani della sua elezione nel 2013.
Vorrei riflettere ancora su tale questione del clericalismo, della mondanità. Fratel MichaelDavide, nel suo recente libro Preti senza battesimo?,[1] lo ha detto con forza: «dietro questi episodi disastrosi c’è una questione più profonda, essenziale: che cos’è in definitiva il sacerdozio presbiterale?».
Per rispondere alla questione, penso che sia ora di prendere davvero sul serio un’altra strada, che mi sono permesso di formulare già da tempo, ma che attende tuttora una risposta: in certi ambienti ecclesiali, ci si domanda se non sarebbe opportuno ordinare dei viri probati, traduciamo degli uomini che hanno passato delle prove. D’altronde, è ciò che si fa quando si tratta di chiamare un cristiano al diaconato.
Ecco allora la questione: possiamo considerare come viri probati dei giovani che, appunto, non hanno ancora vissuto delle prove: né quella di una vita coniugale seria, né quella di una vita professionale solida, né quella di impegni nella città sul piano politico, sociale, associativo? Per dirla altrimenti, essi vengono ordinati soltanto sulla base di una formazione ricevuta in seminario, che si vuole oggi (ma solo oggi) attenta alle dimensioni umane della personalità.
Ma una formazione non fa un uomo formato: è soltanto il tempo che permetterà di sapere se l’uomo è davvero formato. Ci sono eccellenti percorsi formativi che, per ragioni diverse, hanno fallito e questo o quell’uomo non corrisponde in definitiva alle speranze legate alla qualità della formazione.
Perché dovrebbe essere diverso per il presbiterato? Non sarebbe meglio ritardare l’ordinazione fino al momento in cui il vir (non più lo juvenis) si sia rivelato probatus?
Altrimenti, che cosa succede? In molti casi, per fortuna, si hanno dei buoni preti; non è necessario descriverli qui: ciascuno di noi ne conosce molti. Ma ci sono anche casi meno felici, che rientrano in ciò che papa Francesco chiama il clericalismo, che può conoscere delle derive più o meno forti, queste ultime per fortuna rare.
Ho avuto in passato l’opportunità di insegnare in due Università romane e mi sono accorto che, in alcuni casi, il clericalismo era già presente e si manifestava negli uomini: meno legati ai loro studi, meno desiderosi di santità… molto semplicemente, forse, perché il loro avvenire era assicurato: a meno di colpe gravi o di controindicazioni evidenti, sarebbero diventati preti, avrebbero avuto la loro parrocchia, i loro compensi… dunque una sicurezza di base.
Le donne, al contrario, non avevano un avvenire in qualche missione della Chiesa se non manifestavano un buon livello, e dunque era loro necessario mettersi alla prova (mulieres probatae!).
Tutte queste considerazioni mi fanno pensare che è tempo oggi per la Chiesa di prendere sul serio ciò che la Lettera a Tito dice del candidato all’episcopé.[2]
L’onestà mi costringe anche a dire che la Santa Sede mi sembra in parte responsabile di questa deriva, poiché essa non ha mai favorito una riforma in profondità di quanto viene chiamato il sacerdozio cattolico.
Il Concilio aveva, non senza difficoltà, posto alcune basi in questo senso. Alcuni teologi del post–concilio, in vari Paesi, sono entrati in quest’apertura e hanno pian piano delineato una figura di prete coerente con le altre grandi intuizioni del Vaticano II sulla Chiesa in se stessa e nella sua missione di evangelizzazione. Un’immensa bibliografia potrebbe essere qui richiamata.
Ma le prese di posizione ufficiali non hanno dato seguito a questa linea.
Nel capitolo dedicato a Presbyterorum ordinis e a Optatam totius del volume L’Eglise catholique a-t-elle donné sa chance au Concile Vatican II?, Gilles Routhier conclude così la sua ricostruzione di quanto è avvenuto: «La riflessione [condotta sotto i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI] insiste sempre più sull’identità del prete e sulla sua spiritualità. Inoltre il presbiterato risulta concepito come uno stato di vita più che come un ministero. Tramite slittamenti successivi, si torna a considerare il presbiterato, che si designa sempre più a partire dalla categoria sacerdotale, come uno stato di perfezione. In quasi cinquant’anni, la prospettiva messa in opera dal Vaticano II è stata praticamente rovesciata».[3]
Che cos’è dunque che induceva a vedere il presbiterato come uno stato di vita? Forse due elementi che sembravano richiedere la più alta santità: 1) la gerarchia e 2) il potere sacro, entrambi orientati anzitutto non verso la Chiesa ma verso le celebrazioni sacramentali.
1) L’idea gerarchica, nel suo significato più alto, risale allo pseudo-Dionigi, questo teologo mistico che ha tentato di pensare il mistero cristiano con l’aiuto delle categorie elaborate nella teologia platonica scritta dal genio della scuola di Atene, Proclo: dalla pienezza indicibile dell’Uno innominabile, al di sopra di tutto, emanano per gradi le intelligenze che, a loro volta, sono all’origine del grado inferiore ad esse, e sono animate da un desiderio di ritorno verso la Sorgente che le supera. Questa figura riguarda al tempo stesso la gerarchia dei nomi divini e, sul piano cristiano, l’ordine delle gerarchie dei cori angelici e, nella Chiesa, delle diverse persone. Il vescovo è sulla terra l’emanazione più pura della santità, di cui il testo descrive l’attività simbolica e l’afflato contemplativo. In Occidente, dopo il Concilio di Trento, questa visione gerarchica ha caratterizzato maggiormente il prete.
2) Il potere sacro: è ciò che permette a chi appartiene all’ordine gerarchico di compiere atti propriamente divini – quelli che, nei sacramenti, fanno ciò che nessuna creatura può fare: operare la conversione eucaristica del pane nel corpo, del vino nel sangue di Cristo (eucaristia), far entrare un uomo nel corpo di Cristo, con il battesimo e la penitenza. Qui, lo strumento che permette di pensare tale mistero, non è più la teologia platonica, ma la metafisica di Aristotele.
Ora, entrambe queste componenti dell’interpretazione del presbiterato sembrano conferire una dignità alla misura della loro trascendenza, e costituiscono, al tempo stesso, un’esigenza immensa di santità sacerdotale – cosa che può spiegare, del resto, la reticenza opposta in altri tempi da numerosi santi al ricevere l’ordine, giudicato completamente al di là delle loro capacità.
Mi pare che questa mentalità generale della santità del prete ha governato le prese di posizione del magistero cattolico, anche dopo il Concilio. È su questa base immutata (in cui il celibato trova il suo posto, legato alla catharsis greca) che si sono innestate un certo numero di considerazioni più moderne di ordine psicologico e intellettuale.
Ma in definitiva, l’idea del prete resta estremamente elevata. Troppo elevata?
Ci si rende conto di ciò leggendo la Ratio fondamentalis institutionis sacerdotalis, recentemente pubblicata dalla Santa Sede con il titolo: Il dono della vocazione sacerdotale. È difficile immaginare una vocazione cristiana che sia superiore a quella tratteggiata in questo testo.
La domanda che può sorgere è allora: a quale realtà di prete corrisponde questo ammirevole programma?[4]
Da qui deriva la doppia questione che mi pongo: se è vero che il platonismo articolato di Proclo e la metafisica di Aristotele hanno fornito un tempo gli strumenti per la costruzione teologica del sacramento dell’ordine, quali sarebbero gli strumenti da utilizzare oggi che – senza rinnegare questo passato e assumendolo per quanto è possibile – permetterebbero di costruirlo altrimenti?
Se, d’altra parte, è vero che la concezione soggiacente al dono della vocazione sacerdotale è, da un lato, molto alta e, dall’altro, inadatta forse alla congiuntura culturale di oggi, non si rischia forse ogni sorta di devianze?
Quando il seminarista uscirà dal suo seminario, molto (troppo?) consapevole della situazione trascendente della sua vocazione, e si troverà a confrontarsi, da una parte, con la realtà di questo mondo difficile e, dall’altra, con la propria fragilità umana, non rischierà di vacillare e di non saper troppo come gestire la propria esistenza?
La grazia di Dio e l’aiuto degli uomini permettono certo alla maggior parte di combattere la buona battaglia. Ma non bisognerebbe riflettere più seriamente sui fallimenti?
Non soltanto la pedofilia, ma l’abbandono relativamente frequente del sacerdozio nel giro di qualche anno o, fatto meno grave e più frequente, l’autoritarismo dei preti e la loro maniera rigida di comportarsi con gli altri, o di gestire le questioni di denaro? Non è questo esattamente il clericalismo che condanna papa Francesco?
Questo non sarebbe dovuto al fatto che la formazione, così come è messa in opera, finisce per rivelare l’impasse in cui in realtà ha messo i giovani?
La vera questione è: che cos’è un prete? E non penso di essere presuntuoso, suggerendo di andare a cercare la risposta nei teologi che hanno lavorato su questo dopo il Concilio e le cui aperture, tanto misurate quanto belle, non hanno ancora scalfito la sicurezza dell’istituzione.
Nel 1971 c’è stato un Sinodo sui preti. E se nel 2021 potesse essercene un altro, partendo dall’idea di viri probati?
È la richiesta che volentieri indirizzerei umilmente a papa Francesco.
[1] Purtroppo l’editore francese non ha mantenuto il titolo provocatore, ma fondato, dell’originale italiano. Ho recensito la traduzione francese nelle Collectanea OCR, in corso di pubblicazione.
[2] Ho abbozzato qualche riflessione su questo punto nel mio ultimo libro Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, EDB, Bologna 2017, 83-91.
[3] Cahiers de la Revue théologique de Louvain n. 41, Leuven, Peeters 2016, 157-158.
[4] Mi ricordo qui di quanto mi diceva tanto tempo fa il compianto Philippe Delhaye, professore all’Università di Lovanio: “Nel Medioevo, si sono fatti di tutti i preti dei religiosi, e di tutti i religiosi dei preti”. Il Concilio avrebbe potuto far evolvere tutto questo.