La crisi nei rapporti tra i patriarcati di Costantinopoli e Mosca si è aggravata in seguito alla decisione del primo di concedere lo stato di autocefalia (indipendenza ecclesiastica) alla Chiesa ucraina, che ne aveva presentato richiesta lo scorso aprile tramite il presidente Petro Porošenko. In un breve comunicato, apparso il 7 settembre 2018, la segreteria del Sinodo dal Patriarcato Ecumenico ha reso nota la nomina di due esarchi (delegati) in Ucraina con l’incarico di preparare le relative procedure canoniche.
Attualmente, in Ucraina esistono tre comunità ecclesiastiche parallele: una Chiesa autonoma sotto la guida del Patriarcato di Mosca; il cosiddetto «Patriarcato di Kiev» (che ha fatto la richiesta di autocefalia), tuttora non riconosciuto dalle Chiese ortodosse; la «Chiesa autocefala ucraina», più piccola demograficamente. Si stima quindi che la missione degli esarchi sia quella di ricucire le lacerazioni interne dell’Ortodossia ucraina, che ha coinvolto vari segmenti politici e sociali, e trovare una soluzione che riconcili le diverse componenti.
Autocefalia
Storicamente, il concetto di autocefalia non ha costituito un problema per l’Oriente cristiano. Fin dai primi secoli si sono formati diversi baricentri ecclesiastici in Asia Minore (Costantinopoli), in Egitto (Alessandria), in Siria (Antiochia), in Palestina (Gerusalemme) e a Cipro. Tale policentrismo è stato sancito dalla legislazione canonica del primo millennio, che ha assegnato a ciascuna di queste sedi un proprio ambito giurisdizionale, conservando solo per il Patriarcato di Costantinopoli – detto «ecumenico», appunto perché dell’«ecumene», ovvero dell’Impero – delle prerogative sui territori oltre i confini di Bisanzio, cristianizzati direttamente da emissari bizantini. Si trattava, in ogni caso, di soggetti ecclesiali dal profilo multietnico che non hanno alimentato spinte separatistiche.
Più promiscua è invece la tipologia delle autocefalie moderne, nate in seno agli impulsi nazionalistici che hanno interessato i Balcani e l’Est Europa nell’Ottocento e nel Novecento, di cui l’Ucraina rappresenta l’ultimo anello della catena cronologica. Tali processi sono legati ai risorgimenti nazionali, in cui le emancipazioni statali sono andate di pari passo con quelle ecclesiastiche. In quel contesto ideologico è emersa l’idea di «panslavismo», che ha portato nel 1870 la Chiesa bulgara a creare delle esarchie per i soli fedeli di origine bulgara. Immediata è stata la condanna del nazionalismo religioso (il cosiddetto filetismo) quale eresia ecclesiologica da parte di un Sinodo interortodosso tenutosi nel 1872 a Fanar.
Le ragioni di Costantinopoli
La decisione del Patriarcato Ecumenico di occuparsi della questione ucraina è stata assunta sulla base di prescrizioni canoniche che consacrano alla sede di Costantinopoli una posizione di precedenza (primato d’onore) tra le Chiese ortodosse e stabiliscono le sue prerogative sulle eparchie da essa elevate allo stato di autocefalia (canone 28 del Concilio di Calcedonia).
Pertanto, i poteri di Costantinopoli sul territorio ucraino in qualità di «Chiesa-madre» sarebbero legittimati da precisi eventi storici, che vanno dalla cristianizzazione dei Rus’ di Kiev nel X secolo in seguito a un trattato con l’imperatore bizantino Basilio II, fino alla creazione di una Metropolia a Kiev dipendente da Costantinopoli (esistente fino al XIII secolo) e alla concessione, nel 1589, dello stato di autocefalia alla Metropolia di Mosca per mano del patriarca ecumenico Geremia II.
In questo senso va inteso l’appello della recente Sinassi dei metropoliti del Patriarcato Ecumenico (1-3 settembre 2018) alla «cessazione delle divisioni» e «all’unità del popolo ucraino», che ha «ricevuto la fede e il battesimo dalla Chiesa-Madre di Costantinopoli». Sulla stessa onda Bartolomeo ha sottolineato che «la più grande tentazione del secondo millennio è stata la moltitudine dei regimi giurisdizionali». All’origine di questo problema giace il filetismo, le aspirazioni espansionistiche e l’inosservanza dei termini stabiliti dai Tomi patriarcali (documenti di concessione dell’autocefalia). Il Trono ecumenico, ha continuato Bartolomeo, «ha la responsabilità canonica di risanare le anomalie giurisdizionali», poiché è l’unico ad aver ricevuto dai concili ecumenici «tale elevato ed eccezionale dovere».
Sulla sponda russa
Dal canto suo, il Patriarcato di Mosca ritiene che la sua autorità su tutte le Russie (inclusa l’Ucraina) sia insita nell’autocefalia concessagli e quindi sarebbe irrevocabile. Da qui l’immediata reazione degli ambienti russi appena ricevuta notizia della nomina degli esarchi. È stata contestata una «interferenza illegittima» del Patriarcato Ecumenico negli affari interni della Chiesa russa, la «falsa interpretazione dei fatti storici» e l’assenza di qualsiasi previo accordo con Mosca. Qualcuno ha addirittura visto nelle ultime mosse il tentativo di introdurre una specie di «papismo ortodosso».
Il resto del mondo ortodosso non si è ancora pronunciato apertamente in merito, ad eccezione del patriarca di Serbia, Ireneo, che ha trasmesso una lettera a Bartolomeo, invitandolo a non dare seguito a pressioni politiche che spingono verso la moltiplicazione delle autocefalie e che potrebbero compromettere l’unità dell’Ortodossia.
Ireneo ha ragioni per essere preoccupato: la cosiddetta «Chiesa ortodossa macedone», dopo essersi autoproclamata autocefala nel 1967, si è sottratta dall’autorità della Chiesa serba. Il Patriarcato Ecumenico, su appello della «Chiesa macedone», ha deciso di risanare questo scisma. La stretta identificazione della gerarchia del piccolo stato della ex Jugoslavia col governo locale potrebbe forse spiegare il timore di Ireneo, preoccupato che la conferma di quest’autocefalia possa incoraggiare analoghe aspirazioni indipendentiste in Montenegro, anch’esso sotto la giurisdizione di Belgrado.
Difficile fare previsioni
Allo stato attuale è difficile ipotizzare come evolverà la crisi. Non è del tutto improbabile che la nomina degli esarchi farà sì che il Patriarcato russo interrompa provvisoriamente la comunione con Costantinopoli.
Secondo alcuni analisti, si profila un’inevitabile spaccatura tra l’Ortodossia ellenofona e quella slava. Si parla persino del pericolo di un imminente scisma, che trascinerebbe le altre Chiese ortodosse davanti al dilemma di doversi schierare, a seconda degli interessi di ciascuna, con uno dei due blocchi. A questo proposito, va ricordata la non partecipazione dei patriarcati di Antiochia, Mosca, Bulgaria e Georgia ai lavori del Concilio panortodosso di Creta, l’esempio delle quali potrebbero ora seguire altre Chiese dell’area slava (Polonia, Rep. Ceca e Slovacchia).
C’è invece chi crede che il blocco «greco» (Alessandria, Gerusalemme, Cipro, Grecia e Albania) non abbandonerà Fanar. Risulta più prudente la posizione del Patriarcato di Romania, secondo il quale la risoluzione del nodo ucraino deve includere tutte le comunità ortodosse presenti nel luogo.
Ortodossia indebolita?
Si teme dunque che l’esito della diatriba lascerà un’Ortodossia indebolita dai conflitti interni e forse irrimediabilmente frammentata. Eppure, chi guarda alla crisi ucraina come a un braccio di ferro tra Costantinopoli e Mosca circa l’esercizio del primato nell’Ortodossia – dibattito spesso carico di significati più geopolitici che ecclesiali – corre il rischio di fare una lettura ideologica del mondo ortodosso, il cui compito primario è l’annuncio del vangelo nelle complesse circostanze del mondo globalizzato e postetnico di oggi.
Già durante il concilio di Creta, l’arcivescovo di Tirana, Anastasios Yannoulatos, esperto missiologo e figura di grande prestigio dell’Ortodossia contemporanea, fautore della ricostruzione della Chiesa in Albania dopo le macerie lasciate dal regime hoxhiano, aveva definito l’egocentrismo nazionale e religioso «madre di tutte le eresie», in quanto «avvelena le relazioni umane». Se si accetta questa osservazione, è possibile affermare che la vera sfida dell’Ortodossia del nuovo secolo non si giocherà sul campo delle spartizioni geo-ecclesiastiche, né su quello dell’affermazione dei filetismi, bensì su quello che fa tesoro del valore unitivo del vangelo, che non racchiude la fede in prefissi nazionali e che evidenzia il respiro universale e la «diplomazia dell’amore» di Cristo.
Oltre all’Ortodossia di stampo etnocentrico, erede di una percezione quasi messianica del connubio tra nazione e religione, sta silenziosamente fiorendo una «nuova», possiamo dire, Ortodossia che riscontriamo anzitutto nelle aree della diaspora, in cui il confronto con le società pluralistiche e secolarizzate e la promozione del dialogo ecumenico diventa un elemento indispensabile della sua identità. Si pensi, ad esempio, al lavoro dei teologi russi che, recatisi a Parigi dopo la rivoluzione bolscevica, hanno esposto il loro bagaglio spirituale in maniera aperta e originale, che ha stimolato persino le ricerche di quella nouvelle théologie che ha lasciato la sua impronta sul Concilio Vaticano II. Anche il placet del Patriarcato ecumenico alle seconde nozze dei sacerdoti ha dato ascolto a delle esigenze pastorali, finora non affrontate, che interesserebbero soprattutto il clero della diaspora.
Vi sono inoltre le missioni ortodosse nelle diverse periferie globali; non è casuale la delibera del Patriarcato di Alessandria di ripristinare, dopo oltre un millennio, l’ordine delle diaconesse, che saranno impiegate proprio nelle esigenze missionarie dell’Africa. Nel frattempo, in Asia, emerge un’Ortodossia cui compito è di progettare l’inculturazione del vangelo in un continente che oggi rappresenta pressoché la metà della popolazione mondiale.
Segni di novità
Questi fermenti sono piccoli, ma importanti segnali della volontà di una certa Ortodossia di uscire da una mentalità isolazionista, che percepisce in maniera ieratica e immobile la tradizione e che si trova in un’apologia contro e non in cammino con e per il mondo.
Si tratta, in altre parole, di recepire l’insegnamento di Creta, ovvero l’appello di essere una «presenza vivente» che annuncia «una creazione nuova». Ciò cambia non di poco la prospettiva del modo di essere cristiani nel XXI secolo: chi si impegna nell’annuncio del vangelo non è vincolato alle dinamiche divisorie della storia (sociali, etniche, confessionali), bensì accompagna l’uomo nelle sue angosce spirituali.
In fondo, il vero quesito ucraino è proprio questo: chi sarà in grado di esercitare un ruolo da «primo» autenticamente ecclesiale, ossia che tuteli l’unità dell’Ortodossia nel segno della sinodalità? E in che misura le autocefalie nazionali interagiranno con quelle periferie ecclesiali che custodiscono il valore profetico del Vangelo?
Sull’argomento, vedi su SettimanaNews:
3 dicembre 2017 Mosca-Kiev: riconciliazione annunciata e smentita
30 dicembre 2017La geopolitica dell’Ortodossia
11 maggio 2018 Ucraina: il tomo e le Chiese
5 luglio 2018 Ucraina: Prima l’unità, poi l’autocefalia
6 luglio 2018 Ucraina incompiuta
21 luglio 2018 Ucraina: L’autocefalia per l’unità
3 agosto 2018 Francesco mediatore fra Mosca e Costantinopoli?
11 agosto 2018 A 1.030 anni dal “Battesimo della Rus”, più che mai divisi
7 settembre 2018 Kyrill e Bartolomeo: incontro al Fanar
11 settembre 2018 Ortodossia: tamburi di guerra
18 settembre 2018 La tunica lacerata dell’ecumenismo
Mi rattrista molto che i nostri fratelli abbiano tanti problemi di convivenza. Credo che dietro all’aspetto religioso ci sia una politica Putiniana molto violenta.
Saluti