In queste ultime settimane c’è stato uno scambio di lettere, pubblicate su Communio (n. 6/2018) tra il papa emerito Benedetto XVI e il Gran Rabbino Arie Folger, di Vienna. Le lettere si ricollegano alla riflessione di Benedettio XVI sul rapporto tra Chiesa cattolica ed ebraismo pubblicata sempre su Communio (n. 4/2018) col titolo “Gnade und Berufung ohne Reue” (Grazia e vocazione senza pentimento). Ne sono seguite tante polemiche, fino a far dire a qualcuno che quelle tesi costituivano “la fine del dialogo” tra ebrei e Chiesa cattolica.
Benedetto XVI ha ripreso l’argomento e ha scritto una lettera esplicativa, lo scorso agosto, al rabbino Arie Folger, il quale ha risposto il 4 settembre. Sono due lettere chiarificatrici – peraltro molto rispettose – in cui vien posto l’accento sui seguenti tre punti: 1) il significato della promessa messianica, 2) l’interpretazione della promessa della terra e l’attuale Stato d’Israele, 3) il rapporto tra ebrei e cristiani sul tema “morale e culto”.
Pubblichiamo i due testi in una nostra traduzione.
Lettera di Benedetto XVI (23 agosto 2018)
Illustrissimo sig. Rabbi Folger,
il professor Tück dell’Università di Vienna mi ha inviato il suo contributo “Gefahr für den Dialog” (Pericolo per il dialogo) e non posso che ringraziarla di cuore per questo contributo importante che di fatto fa progredire il dialogo.
Lei ha anzitutto spiegato il genere del mio testo. È un documento per la discussione teologica tra ebrei e cristiani circa la giusta comprensione delle promesse di Dio ad Israele: il cristianesimo esiste solo perché, dopo la distruzione del tempio e in seguito alla vita e alla morte di Gesù di Nazaret, si è formata attorno a lui una comunità, convinta che la Bibbia ebraica nel suo insieme trattasse di lui e fosse da interpretare in relazione a lui.
Questa convinzione non è stata tuttavia condivisa dalla maggioranza del popolo ebraico. È sorta così la discussione se fosse giusta l’una o l’altra spiegazione.
Purtroppo, da parte dei cristiani, questa disputa non è stata condotta, spesso o quasi sempre, con il dovuto rispetto verso l’altra parte. Si è sviluppata, invece, la triste storia dell’antigiudaismo cristiano che, alla fine, è sfociata nell’antigiudaismo – anche anticristiano – del nazismo, il cui triste apice sta davanti a noi con Auschwitz.
Nel frattempo è importante che il dialogo sull’autentica interpretazione della Bibbia del popolo ebraico possa continuare tra le due comunità, la cui fede si basa su questa interpretazione. Un’importante base metodologica per questo dialogo è costituita dal documento della Pontificia commissione biblica Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana del 24 maggio 2001, che io presuppongo nella mia esposizione.
Secondo le previsioni umane, questo dialogo, nel procedere del corso della storia, non porterà mai a una unità delle due interpretazioni: è un fatto che riguarda Dio alla fine dei tempi.
Nel frattempo ambedue le parti hanno il compito di lottare per la retta conoscenza e di rispettare il punto di vista di ciascuna parte. Il contenuto centrale del dialogo sono le grandi promesse di Dio ad Israele, che io nel mio contributo ho riassunto nelle seguenti parole chiave: la speranza messianica di Israele, la terra, l’alleanza; l’ordine etico e l’autentica adorazione di Dio.
Mi consenta, la prego, di accennare ancora brevemente a ciò che ho cercato di esporre nel mio contributo circa la comprensione cristiana di questi argomenti.
- Naturalmente la promessa messianica rimarrà sempre controversa. Tuttavia, credo che ci potranno essere dei progressi nella reciproca comprensione. Io ho cercato di ri-esprimere l’insieme delle promesse messianiche nella loro molteplicità e di comprendere in maniera nuova il “già e non ancora” della speranza nella loro intima compenetrazione. La forma dell’attesa messianica basata sulla figura di Davide rimane valida, ma è limitata nel suo significato. Per me, la forma decisiva della speranza è Mosè di cui la Scrittura dice che ha parlato con il Signore faccia a faccia, come ad un amico. Gesù di Nazaret appare per noi cristiani la figura centrale della speranza, poiché egli sta a tu per tu con Dio. Da questo punto di vista, il tempo della Chiesa non appare come un tempo di un mondo già definitivamente riscattato, ma il tempo della Chiesa è per i cristiani ciò che per Israele furono i quarant’anni nel deserto. Il suo contenuto essenziale è pertanto l’esercizio di apprendimento della libertà dei figli di Dio, che non è meno difficile per i “popoli” di quanto lo sia stato per Israele. Se si accoglie questa nuova visione del tempo dei popoli, viene offerta una teologia della storia che gli ebrei possono non accettare in quanto tale, ma che forse può offrire un nuovo livello nella comune lotta per il nostro comune impegno.
- Un’interpretazione adeguata della promessa della terra è oggi, per ambedue le parti, di importanza vitale nel contesto della nascita dello Stato d’Israele. Senza ripetere tutto ciò che ho detto nel testo, vorrei ribadire alcuni argomenti importanti, non solo per i cristiani, che lo Stato d’Israele in quanto tale non può essere classificato teologicamente come il compimento della promessa della terra, ma in sé è uno stato laico che ha indubbiamente dei fondamenti religiosi. Per i Padri dello Stato d’Israele – Ben Gurion, Golda Meir… – era del tutto evidente che lo Stato che essi hanno creato, doveva essere uno Stato laico –, anche perché solo così poteva sopravvivere. Credo che lo sviluppo dell’idea di Stato laico si debba in sostanza anche allo Stato ebraico, in cui laico non significa antireligioso. La Santa Sede ha potuto stabilire relazioni diplomatiche soltanto a questa condizione. E la disputa con gli arabi, come anche la ricerca di una pacifica convivenza con essi, dipendono da questa concezione. Credo che non sia difficile vedere che nella nascita dello Stato d’Israele si possa riconoscere, in maniera misteriosa, la fedeltà di Dio ad Israele.
- In fatto di morale e di culto, a mio parere, oggi possiamo riconoscere una consonanza assai maggiore tra Israele e la Chiesa rispetto a prima. Dall’inizio dei tempi moderni, l’intero argomento è stato offuscato dal pensiero antigiudaico di Lutero, per il quale il no alla legge fu essenziale a partire dall’esperienza della Torre (Turmerlebnis, quando ebbe l’intuizione della “sola fides”, ndt). Questa esperienza, che per lui ebbe un carattere vitale, si è collegata con il pensiero di Marcione e ha prodotto un marcionismo pseudoreligioso, con il quale la disputa non è ancora stata realmente iniziata. Mi sembra che proprio su questo punto ci siano delle importanti opportunità per un rinnovato dialogo con l’ebraismo.
Pregiatissimo sig. Rabbi, sono stato troppo lungo e le chiedo scusa.
Con un mio rinnovato ringraziamento per il suo scritto,
suo Benedetto XVI
Lettera del Rabbino Arie Folger (4 settembre 2018)
Eminenza,
la ringrazio per la sua lettera del 23 agosto 2018, che mi è giunta il 30 del mese per e-mail attraverso mons. Georg Gänswein e il prof. Jan-Heiner Tück. L’ho letta con grande interesse con gli argomenti che contiene.
Più che il suo articolo su Communio – che sia lei che io di comune accordo riteniamo un documento intercristiano – la sua lettera contiene degli argomenti che, nel dialogo ebraico-cristiano, possono essere effettivamente una guida.
1. Innanzitutto vorrei esprimere il mio pieno accordo con il suo terzo punto. Sì, gli ebrei e i cattolici in questo tempo sono chiamati a impegnarsi insieme per la salvaguardia degli standard morali in Occidente. L’Occidente diventa sempre più laico e, mentre una crescente minoranza prende nuovamente sul serio la propria religione e i doveri religiosi, la maggioranza diventa sempre più intollerante verso la religione, le persone religiose e la pratica della religione.
Su questo possiamo e dobbiamo più spesso intervenire insieme. Insieme possiamo essere più forti che non da soli.
Inoltre, abbiamo dei valori comuni e ambedue teniamo in gran conto la Bibbia ebraica. Anche se interpretiamo diversi passi in maniera diversa, abbiamo qui un fondamento comune.
Ancora, ambedue rappresentiamo delle confessioni religiose che manifestano e appoggiano politicamente una grande tolleranza. Naturalmente in ogni confessione ci sono anche degli estremisti, ma come membro della Conferenza dei rabbini d’Europa, della Conferenza dei rabbini di Germania e del Rabbinical Council d’America – tutte organizzazioni ebraiche-ortodosse ben note – posso confermare che da parte nostra è importante impegnarci per una società tollerante, al punto che siamo sempre sconcertati quando un fanatico dalle nostre file si esprime e si comporta diversamente. Credo che lo stesso valga per la Chiesa cattolica. Perciò spetta a noi, capi religiosi, e ai nostri colleghi lavorare per una società plurale e tollerante, che rispetti le persone religiose, i loro problemi e le convinzioni religiose affinché possano avere voce nel discorso pubblico.
2. Considero importante il suo secondo punto per il dialogo ebraico-cristiano. Come abbiamo scritto tra le righe nel nostro documento, tra Gerusalemme e Roma ci rendiamo conto che è stato più facile per la Chiesa stabilire rapporti diplomatici con lo stato laico di Israele. E sembra anche più facile venire a dei compromessi con i palestinesi se lo Stato si comprende come laico.
Ma lei stesso scrive che anche uno Stato laico non è escluso dalla benedizione di Dio e che Egli conferma l’alleanza eterna con il popolo ebraico. Pertanto la distanza tra le nostre rispettive posizioni è sicuramente diventata minore.
Qui vorrei sottolineare che la struttura dello Stato democratico di Israele è una struttura realmente laica profana – come Lei scrive – ma che, in seguito al massiccio ritorno di ebrei da tutto il mondo a Sion, non può essere religiosamente insignificante.
Il card. Koch in una lettera (cinque rabbini gli avevano inviato una lettera aperta) tra l’altro ci ha proposto di incontrarci per discutere questo argomento, cosa che noi volentieri accettiamo. Abbiamo appena redatto una lettera al riguardo che riceverà. Se si presenterà l’occasione, io accoglierei con molto favore se potessimo incontrarci a Roma per un dialogo personale.
3. E ora circa il suo primo punto. Anche se io, come discepolo dei molti discepoli del Rabbino Joseph Ber Soloveitchik, provo sostanzialmente una maggiore propensione verso il suo terzo punto (impegnarci a promuovere le sensibilità morali della società e a proteggere meglio le persone religiose e la libertà religiosa) che non per il dialogo teologico (che Rav Soloveitchik piuttosto rifiutava), il suo invito mi sembra potenzialmente più efficace, perché mira ad uno scopo più modesto, in quanto non raccomanda un dialogo in cui noi cerchiamo di convincerci a vicenda, ma uno scambio per comprenderci meglio vicendevolmente.
Trovo particolarmente importante la sua affermazione: «Secondo le previsioni umane, questo dialogo nel corso della storia non porterà mai ad una unità delle due interpretazioni: è un fatto che riguarda Dio alla fine di tempi», perché in questo modo viene posto un segno che il dialogo deve promuovere la comprensione e l’amicizia e non è inteso a fare proselitismo o a trattare dei punti teologici.
Mi consenta, la prego, di riprendere un tema del suo articolo apparso su Communio, ossia l’alleanza non revocata. Come ho scritto nel mio contributo in Jüdische Allgemeine, capisco perfettamente che i cristiani vogliano rimanere fedeli ai cardini della loro fede. Per questa ragione la Commissione pontificia per i rapporti religiosi con gli ebrei ha definito l’alleanza mai revocata “un mistero”. Nel suo articolo lei cerca di spiegare l’ambito conflittuale di questo mistero. Qui io vorrei – non senza sorpresa – sottolineare quanto sia importante il principio dell’alleanza mai revocata in riferimento alla lotta contro l’antisemitismo. Nei secoli passati molti cristiani hanno giustificato la grande sofferenza inflitta agli ebrei proprio in nome dell’alleanza revocata.
Non pretendo di chiedere ad un’altra comunità credente di interpretare in un modo o in un altro le sue dottrine. Sulla reale sofferenza inflitta in passato per questa ragione agli ebrei dai cristiani devo far qui un’eccezione e per questo chiedere di rafforzare la tesi opposta accolta attualmente nella Chiesa, cioè l’alleanza mai revocata, un argomento che, secondo il suo punto di vista, non avrebbe mai dovuto essere messo in discussione.
Su Communio lei sostiene che la Chiesa non ha mai creduto alla teoria della sostituzione. Come grande interprete emerito della Chiesa cattolica lei può ragionare in questo modo. Ha un grande significato anche ancorare profondamente nel passato e nelle dottrine più antiche le attuali vedute, in parte storicamente nuove. Tuttavia i crimini del passato, commessi in nome del cristianesimo, anche se ora sono considerati qualcosa di cristianamente infedele, non devono essere dimenticati. Oggi le Judensäue (raffigurazioni popolari della scrofa, animale immondo nella religione ebraica, usata nel sec. 13° in segno di disprezzo nei riguardi degli ebrei, ndt) presenti in alcune chiese tedesche e le statue di Ecclesia e Sinagoga (Rappresentazione plastica della “Superbia dei Gentili”, ndt) sulla facciata della cattedrale di Strasburgo (e in molti altri luoghi), ricordano sia un passato oscuro sia anche le relazioni pacifiche e amichevoli attuali in contrasto con esso, e così dev’essere. Ciò che non deve accadere è dimenticare la storia e affermare che tutto in realtà andava bene, perché gli autori agivano presumibilmente in maniera teologicamente errata.
Non pretendo affermare che lei avrebbe ignorato la storia, “Dio me ne guardi!”. Ma per noi ebrei significherebbe molto, assieme alla sua tesi che la Chiesa non ha mai preteso di essere una sostituzione del popolo d’Israele, vedere anche riconosciuto, che in determinate epoche, molti cristiani si attenevano alla teoria della sostituzione (quindi contro la vera dottrina della Chiesa) giustificando così innumerevoli sofferenze.
Termino nella speranza che la nostra corrispondenza – e con “nostra” intendo anche i nostri rispettivi colleghi – contribuisca a rafforzare e ad approfondire il dialogo e che da ciò scaturiscano iniziative per una società migliore.
Fra pochi giorni noi festeggiamo il Rosch haShana hwe (capodanno, 9 settembre, ndt) che noi, tra l’altro, consideriamo il giubileo della creazione di Adamo, ossia come festa universale dell’umanità.
Con questo le auguro uno Shana towa umtuka, un buon e felice anno, per gli ebrei, i cristiani e per tutti gli uomini.
Con i migliori saluti,
Arie Folger, Rabbino capo di Vienna
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