In regime di biolatria

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biolatria

Sull’astronave dell’affascinante film disneyano Wall-E, il «cibo» non è più un presupposto necessario alla vita ma è il suo punto di arrivo. Molte delle nostre feste non hanno più nel “mangiare” un accessorio, ma il nome e il fine; in nome del cibo si fanno battaglie culturali ed esposizioni universali.

Come diceva già Kierkegaard gli anni quaranta del XIX secolo, la nave è in mano al cuoco di bordo, «e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». Che significa tutto ciò? È forse una traccia del modo in cui ma nostra epoca vede le prospettive ultime dell’agire singolare e collettivo?

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Un piccolo esercizio di carattere storico porta a comprendere alcune costanti e alcune variabili delle vicende umane. La (rozza) scansione che propongo passa attraverso cinque «festività», con le quali gli uomini e le donne degli ultimi due secoli e mezzo hanno cercato di esprimere l’oggetto del loro impegno e della loro venerazione, l’orizzonte di senso nel quale iscrivevano se stessi e la loro storia:

  • la festa della Ragione, nata dalla Rivoluzione francese nel 1793 (per quanto essa abbia avuto scarsa fortuna in quanto tale, il culto della Ragione è stato al centro di svariate fedi filosofiche almeno per tutto l’Ottocento);
  • le feste della Nazione, legate ad anniversari di battaglie vinte, liberazioni, compleanni di re ed eroi, tipici momenti di celebrazione del mito di fondazione di una comunità nazionale che è o vuole farsi Stato (e che, attraverso quelle feste, dichiara il proprio essere a credito con la Storia);
  • la festa del Lavoro, nata nell’alveo del movimento operaio negli anni ottanta del XIX secolo, espressione della fede nel lavoro come strumento di umanizzazione dell’uomo e del suo mondo;
  • la giornata della Pace, nata nel 1968 da un’iniziativa di papa Paolo VI, espressione di un clima culturale e politico che temeva il confronto nucleare globale; grazie alla poliedricità del termine (non privo di ambiguità, come prova la difficoltà di tradurlo), la “Pace” è stata per decenni il centro di una vasta attività di carattere politico e sociale che l’ha indicata come orizzonte ultimo di azione;
  • la giornata della Vita: per quanto per molti versi «settoriale» (è stata promossa dalla Chiesa cattolica italiana nel 1979, in riferimento alla discussione sulla legge sull’aborto) mi pare che essa sia il sintomo di qualcosa che a livello ben più ampio è oggi al centro dell’attenzione. Chi festeggia oggi la Ragione, la Nazione, il Lavoro o la Pace ha infatti la nettissima percezione di officiare un «culto di minoranza», rispetto a quella che oggi è la nuova divinità di massa.

Faccio notare che a queste cinque feste corrispondono cinque idee di «povertà», di situazioni nelle quali è moralmente doveroso agire: nell’era in cui si venera la Ragione, il povero è l’ignorante (e bisogna intervenire con la scuola e la cultura); nell’età in cui si venera la Nazione, il povero è colui al quale viene impedito di vivere quelle dimensioni – lingua, tradizioni – che lo fanno sentire appartenente alla comunità di destino (e la soluzione è l’indipendenza della nazione); nell’era in cui si venera il Lavoro, il povero è l’operaio alienato (per cui vanno resi pubblici i mezzi di produzione); nell’era in cui si venera la Pace, il povero è chi si trova in situazione di guerra (e ne vanno allora combattute le cause che la generano); nell’era in cui si venera la Vita, il povero è chi si trova in una situazione-limite, che gli fa rischiare di perdere la vita stessa, biologicamente intesa.

E vi corrispondono anche cinque immagini di «cattivo»: l’oscurantista; l’imperialista-oppressore; il capitalista; il guerrafondaio-trafficante di armi; infine, oggi, tutte quelle figure che minacciano la Vita nelle situazioni-limite, in special modo se portano alla morte dei bambini e dei malati.

L’adorazione della Vita è una chiave interpretativa che spiega il legame tra fenomeni apparentemente diversi. Credo infatti che sia all’origine, da un lato, dell’enfasi sul cibo (non più strumento ma fine) e sul corpo (al punto che il suo disprezzo è divenuto osceno); dall’altro, è alla base dell’angoscia che ci coglie di fronte all’embrione e al malato terminale (angoscia che non ci coglie nella stessa misura di fronte all’ignorante, al patriota in esilio, al lavoratore sfruttato, a chi subisce una guerra).

Ho l’impressione che questo atteggiamento possa essere ricondotto complessivamente alla mancanza (o alla perdita) di prospettive all’azione umana che vadano oltre la conservazione o riproduzione dell’entità biologica. È svanito l’orizzonte del progresso segnato dal trionfo della razionalità; è confuso il destino dei corpi collettivi; è fallita la società che intendeva esaltare il lavoro; si è sfarinato il sogno della pace mondiale; è rimasta solo l’esaltazione del «vivente». La politica, l’economia, la società e persino la religione oggi si valutano e si auto-valutano in base alla loro capacità di servire questo non-progetto. Dopo aver rinunciato a costruire la cattedrale, tutto quel che si può e si vuole fare è dar da mangiare agli operai.

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Questa prospettiva – che ho descritto a tinte volutamente forti – potrebbe per la verità essere giudicata positivamente: in un certo senso è il trionfo del liberalismo. Non vi è più Stato, famiglia, collettività di qualsivoglia genere che pensa di poter o dover dare ai suoi membri indicazioni di carattere generale o una direzione all’agire. L’unico senso dello sforzo collettivo è quello di garantire la vita (o almeno la sopravvivenza) dei singoli, i quali sono dunque lasciati liberi di decidere la loro prospettiva di impegno esistenziale. Che cosa c’è di sbagliato, in tutto ciò?

Il fatto è che l’agnosticismo dei valori, ostentato dai corpi collettivi, ha ormai travolto anche i singoli individui, che vivono esistenze fine a se stesse, estranee a una prospettiva di impegno (gli arabi direbbero di jihad) che vada oltre la pura sopravvivenza del singolo (o al più della specie biologicamente intesa).

Sul piano politico ciò è reso evidente dalla «radicalizzazione» (nel senso di trionfo di determinate istanze del Partito Radicale) di tutti i principali schieramenti politici e culturali (chi si porrebbe oggi esplicitamente in contrasto con quelli che sono ritenuti i diritti individuali?). Sul piano sociale, si è giunti al paradosso secondo cui un reato commesso per soddisfare le pulsioni del singolo (per passione, per orgoglio, per desiderio di arricchimento, per qualunque motivo individuale) è dimenticato, se non perdonato, molto più rapidamente di qualunque reato commesso per una causa collettiva.

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Nella cultura attuale, dunque, la Vita è Dio (frase ben diversa da un’altra espressione, solo apparentemente sinonimica: «Dio è la vita»). Ed è la vita che conosciamo o pensiamo di conoscere, rispetto alla quale qualunque «alterità» radicale è esclusa. Un meccanismo simile a quello che aveva portato, in passato, a divinizzare altre dimensioni che «hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto»: la Ragione, la Nazione, il Lavoro, la Pace (le parole tra virgolette sono quelle della Mit Brennender Sorge di Pio XI, ed erano riferite alla razza, al popolo e allo Stato!).

In questa divinizzazione, in questa elevazione della Vita «a suprema norma di tutto» (è ancora Pio XI), si ripete, secondo me, quanto fatto dagli Ebrei nel deserto, quando si fecero un vitello di metallo fuso (Esodo 30). Aronne aveva pensato che il modo migliore di onorare il Dio che li aveva fatti uscire dall’Egitto fosse quello di rappresentarlo come un possente giovane toro, massima espressione della Vita. Come è noto, Dio non gradì. Il problema non stava nella forma della rappresentazione ma nella rappresentazione stessa, che esprimeva la volontà di «possedere» la divinità. Altre epoche vollero fare la stessa cosa, con simboli diversi. Certo, «ragione», «lavoro», «pace» e «vita» (così come «amore», «unità», «carità») sono certamente attributi divini: ma divinizzarli equivale a rifare il vitello d’oro.

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Il credente è dunque invitato a stare in allerta, a conservare una «riserva critica» rispetto a questi rischi di idolatria: Dio dà la vita, ma la Vita non è Dio. Ma vorrei andare oltre questa conclusione generica. Trovo infatti che la biolatria sia una forma di idolatria particolarmente subdola, per due motivi che provo a spiegare.

  • La Vita sfugge a caratterizzazioni più precise: che cosa non è la Vita? Quale azione politica, sociale, economica può davvero essere indicata come tale da andare contro la Vita? Se il rischio della strumentalizzazione degli ideali (e degli idoli) è sempre presente, la biolatria apre ampi spazi a chi sia in grado di controllare i mezzi di comunicazione e presentarsi come suo alfiere qualunque cosa faccia. Hitler non voleva forse per la Germania un Lebensraum, uno spazio vitale?
  • La Vita è il «punto zero» oltre (sotto) il quale non è possibile andare. Ma è un livello a partire dal quale altri idoli (e altri ideali) possono essere facilmente corrosi. Se la Vita è la prospettiva ultima, in nome di che cosa potrei essere tenuto a rinunciarvi? È fuor di dubbio che un Socrate biolatra sarebbe morto di vecchiaia. E Gesù Cristo non solo non sottrasse se stesso alla morte, e alla morte di croce, ma previde che coloro che avrebbero voluto essere suoi testimoni avrebbero subito la stessa sorte.

Vivere da uomini, vivere da figli di Dio, implica allora saper rinunciare alla biolatria, andare oltre il culto della Vita.

Il testo rappresenta una versione ridotta dell’articolo già pubblicato sulla rivista Il Margine 30(2010), n. 10.

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