La Chiesa è una realtà complessa, difficile, se non impossibile, percepirla attraverso un unico sguardo. Per comprenderla come corpo vivente può essere utile accostarsi a essa in obliquo, cogliendone un aspetto intorno al quale si coagulano alcuni dei suoi tratti portanti. Volenti o nolenti, nel cristianesimo occidentale il ministero rappresenta una sorta di crocevia nel quale si intersecano molte delle questioni che decidono del traghettamento della fede in una stagione inedita non solo per l’attuazione della Chiesa, ma anche per la sua stessa auto-comprensione.
Questo non vuol dire ritenere irrilevanti altri modi del vivere cristiano, dai quali proviene comunque anche quello del prete. Un vissuto che egli non si lascia alle proprie spalle, ma è chiamato a integrare ogni giorno nell’esercizio stesso del suo ministero. Né tantomeno vuol dire rendere dipendenti dal ministero ordinato tutte le altre forme di vita cristiana.
Crocevia dei vissuti cristiani
Cogliere il ministero come crocevia significa, semplicemente, che esso rappresenta il luogo in cui le molte forme di vissuto della fede transitano, si incontrano e, talvolta, si scontrano. Nella configurazione cattolica della fede, il darsi di un vissuto credente implica il ministero ordinato – fosse anche solo nel modo della sua assenza. Quando questo accade, e in molti paesi europei è la condizione quotidiana del vissuto cristiano, non ci si può non chiedere quale sia quella figura di cristiana che ha alla fin fine funzionato come cura ministeriale sulla fede altrui.
Non è questa però la prospettiva sulla quale voglio soffermarmi ora, teniamola semplicemente all’orizzonte di queste riflessioni come una domanda aperta che le attraversa. Una questione che, forse, può aiutarci a disegnare in maniera costruttiva i tratti del ministero nel suo esercizio, nel suo essere una pratica singolare della fede fra molte altre.
Singolare perché, fin dall’inizio e strutturalmente, non è mai pensata per riferimento a se stessa; anche se è possibile solo grazie alle abilità particolari del credente che la esercita a favore di altri. Il ministero rende evidente il fatto che la fede che circola nella Chiesa non si esaurisce in essa, ma ha senso solo in quanto si destina a un oltre, a un altrui, che non è determinabile – e non coincide mai con quella circolazione della fede che fa il corpo comunitario della Chiesa.
Parlare del ministero come crocevia, vuol dire accostarsi a esso a partire dalla sua collocazione. Cercare di comprendere cosa è, e come dovrebbe essere, muovendo da un luogo, e pensarlo poi per riferimento a quei innumerevoli luoghi altri che sfuggono a questa collocazione del suo esercizio.
Il ministero e il transito
Si potrebbe dire che il ministero sta tra la forma della comunità cristiana e la ministerialità della Chiesa. Con ministerialità si intende qui l’inaggirabile destinazione della Chiesa – oltre e al di fuori di se stessa. La ministerialità è quindi ciò che impedisce alla Chiesa di esaurirsi in sé, da un lato, e di pensarsi unicamente a partire da sé, dall’altro. Una Chiesa che si limita alla coltivazione dei «suoi», e che immagina questo come l’ideale a cui ricondurre tutti gli altri, è una Chiesa senza destinazione; a cui non rimane altro che la consunzione in un processo di autocombustione, perché essa riceve sempre la forza della sua ragion d’essere da un altrove su cui non può disporre né decidere.
Sull’altro lato, mettere in forma la comunità cristiana ha sicuramente un risvolto estetico che sfugge a qualsiasi procedura gestionale dell’organizzazione della stessa comunità. Dobbiamo ancora imparare a distinguere fra il dare forma e il fare cose, per quanto queste ultime possano essere importanti. E lo sono nella misura in cui intendono contribuire alla forma concreta della comunità cristiana (e non a riempire le chiese o le opere parrocchiali).
La forma della comunità
Ossia, quando le «cose» del cristianesimo sono disponibili a riconoscere che la bontà della loro generazione, e anche del loro stesso essere fatte, risiede in una sana inoperosità che non ha alcun risvolto funzionale. Questo è esattamente quello che la celebrazione liturgica tiene fermo nel cuore della comunità cristiana, come luogo-tempo inoperoso, funzionalmente inutile, della sua messa in forma.
Il ministero, dunque, sta tra destinazione e inoperosità; abita un luogo paradossale ed è chiamato a coltivarlo per tutti. Tra forma della comunità e ministerialità della Chiesa, il ministero si ritrova quindi fra due figure più ampie di sé, che non può né risolvere né inglobare nel suo esercizio. L’inoperosità della liturgia, che non produce nulla e non mira ad alcun effetto causale al di fuori di sé, mette in forma la comunità cristiana generando lo stile della sua destinazione.
La celebrazione liturgica, dunque, è tutto tranne che il palcoscenico del ministero: è, piuttosto, quell’inattualità in cui anch’esso prende forma, perché così è di tutta la comunità cristiana.
La forma della comunità, messa in atto dalla liturgia, è sempre determinata: spazio e tempo concorrono costitutivamente, e non accidentalmente, a essa. Creando così un fecondo effetto di trascinamento delle condizioni della destinazione della Chiesa all’interno del prendere forma della comunità. Rispetto a quelle condizioni, essa non è mai immune, né completamente estranea. Se così fosse, come spesso accade, la forma della comunità sarebbe semplicemente una realtà virtuale parallela che ha perso ogni porosità con le condizioni della sua destinazione.
Si potrebbe dire che il ministero si riceve, sempre di nuovo, all’interno della polarità dialettica e mutevole che scorre tra la forma della comunità cristiana e la ministerialità della Chiesa come destinazione. Il ministero, dunque, è segnato, quasi sacramentalmente, dalla determinazione storica di entrambi i poli della dialettica.
Questi, poi, non sono né auto-referenziali né si pongono da sé, ma rimandano a un tratto esogeno, a un’esteriorità, mai prevedibile a priori. Ossia non possono essere (pre)determinati né dalla forma della comunità né dalla ministerialità della Chiesa. In quest’ottica, il ministero potrebbe essere visto come una sorta di non-luogo: un transito incessante tra il prendere forma della comunità, la ministerialità della Chiesa e le condizioni di questa loro reciproca destinazione.
Per questo il ministero è, inevitabilmente, figura sempre aperta verso i vissuti umani concreti e le forme della configurazione culturale della comunità socio-politica del consorzio umano.
La comunità e l’apprendimento
Il ministero è «ordinato» a una concreta comunità cristiana che, nel contesto occidentale, lo precede e quindi contribuisce a plasmarne il modo di esercizio. Questo legame fra ministero e comunità è ragione intrinseca all’esistenza di un ordo particolare nella Chiesa. In altre parole, il ministero non esiste per sé stesso, e il suo esercizio non si risolve nella biografia del prete – anche se questa non deve venire trascurata rispetto alle abilità della fede che la caratterizzano.
Se la generazione alla fede rimane dono indisponibile della grazia, la sua declinazione nella comunità cristiana si incrocia sempre con l’esercizio del ministero. Quest’ultimo non ha però il compito di tenerla sotto tutela, ma quello di permetterne il pieno dispiegamento in vista di una destinazione che eccede i confini della stessa comunità cristiana. In questa intersezione, il ministero è generato al suo esercizio proprio nel quotidiano di una particolare comunità cristiana, da un lato, e dalle condizioni della destinazione della fede di tutti coloro che ne fanno parte a un altrove e un altrui che non coincidono con essa.
Il ministero, come fede in esercizio, non può attuarsi, né immaginarsi, a prescindere dalla forma della comunità cristiana e dalla tradizione che essa porta con sé in vista della sua destinazione, all’interno di condizioni storicamente determinate e culturalmente mutevoli. Non si può quindi scomporre comunità cristiana, da un lato, e ministero, dall’altro – pena mancare la giusta collocazione dell’ordo presbiterale all’interno della più ampia destinazione della fede.
Questa scomposizione finirebbe col separare il ministero dalla sua stessa genesi, producendo da ultimo una traditio dell’ordine presbiterale che si risolverebbe in una sorta di auto-conservazione della razza. È però solo nella pratica del ministero che si può verificare la sua giusta corrispondenza alla dinamica che lo genera nella e dalla comunità cristiana. Quando questa manca manca, o rimane sostanzialmente irrilevante, si deve allora mettere in questione l’idea e l’immagine di ministero veicolate dalla Chiesa; e, quindi, sottoporre a dovuta verifica anche la teologia del ministero a esse sottostante.
Se non altro per chiedersi quali siano le ragioni per cui a un’eventuale buona teologia del ministero ordinato non corrisponde un suo esercizio capace di riconoscerne il continuo generarsi nel legame effettivo con la comunità cristiana. Legame, questo, che non è certo meramente causale; e che, però, non può nemmeno essere ridotto a semplice questione di amministrazione ecclesiastica della fede.
L’ombra lunga del Tridentino
È chiaro che i processi di nascita, configurazione ed edificazione della comunità cristiana sono profondamente cambiati rispetto al paradigma tridentino, sullo sfondo del quale si continua però a pensare sia la forma della comunità cristiana sia il ministero nella sua «ordinazione» a essa.
Questo scarto perdurante è, a mio avviso, uno dei nodi irrisolti che mettono in difficoltà il ministero e la sua pratica quotidiana: una sorta di trascinamento di un passato (immaginato e idealizzato) che appesantisce la possibilità di un nuovo e diverso immaginario della comunità cristiana e del ministero che la «ordina». Il tratto più evidente di questa permanenza del peso del passato lo si può cogliere nella sostanziale invarianza del seminario (separato dalla quotidianità della fede della comunità) come luogo/tempo di preparazione (sostanzialmente definitiva) all’esercizio al ministero.
Questo ha una ricaduta anche sul funzionamento del momento dell’ordinazione presbiterale rispetto al vissuto del prete e al prendere forma della comunità. Si può infatti osservare una sconnessione di fondo fra l’ordinamento sacramentale, come ingresso nell’ordo presbiterale, e la performatività liturgica dell’esercizio del ministero nella comunità come sua messa in forma.
Nel senso che il primo, quantomeno di fatto, può tranquillamente prescindere dalla seconda. Questo è l’esito inevitabile inscritto nell’impianto della sacramentaria che caratterizza la teologia neoscolastica, che nella pratica quotidiana continua a funzionare ben oltre il suo superamento conciliare. A essa si collega anche una tendenziale sacralizzazione del prete, che diventa un corpo separato dal resto della comunità.
Da questo punto di vista, ossia nell’ottica di favorire una rimessa in circolo del nesso su cui si impernia il ministero come sacramento e celebrazione, l’esito compiuto della teologia sacramentaria medioevale sembra essere capace di offrire suggestioni molto più attuali di quanto non abbia saputo fare il commento della scuola.
Per comprendere le potenzialità inscritte nella sistematizzazione medioevale del sacro nella forma sacramentale-liturgica dell’attuazione della Chiesa, basti pensare che fu proprio essa a favorire, e da ultimo a rendere possibile, l’emergenza di un ordine del mondo dinamico e storico, non più predeterminato da un fissismo cosmico a cui corrispondeva l’immobilità sia del corpo sociale sia del destino del singolo individuo.
La fine di un paradigma
Su questo sfondo si può comprendere meglio anche la genialità storica del modello tridentino per quanto concerne la forma della comunità cristiana e la pratica del ministero ordinato. Con esso si rispondeva, infatti, a quell’esigenza inedita rappresentata dalla modernità nascente. Da un lato, lo svilupparsi del vincolo fra potere politico e un determinato spazio territoriale (il germe di quello che diverrà poi lo stato-nazione), dall’altro la pretesa avanzata da questo potere di esercitarsi anche sulla coscienza del singolo individuo (e non solo su un indistinto corpo sociale).
La parrocchia e la cura d’anime residenziale sono il modo in cui la Chiesa cattolica fece fronte a questa nuova costellazione dell’Occidente europeo. In particolare, il ministero del prete venne concepito come disciplinamento delle anime e delle coscienze individuali in uno spazio-tempo ben delineato, coerente con la nuova organizzazione del corpo sociale e dell’esercizio del potere politico. Fu proprio tale coerenza a permettere una vantaggiosa assimilazione ecclesiale di fattori socio-culturali che, da ultimo, non coincidevano con l’attuazione interna della Chiesa.
Quella stagione si è definitivamente esaurita, per l’Europa come per la Chiesa cattolica occidentale. Da qui la necessità di immaginare un modello altro, capace di raccogliere la migliore eredità di quello tridentino nel momento stesso in cui prende congedo definitivo da esso.
Ancora una volta, non si può ripensare il ministero ordinato nella sua pratica quotidiana senza mettere mano alla forma della comunità cristiana – e viceversa. La restituzione della celebrazione liturgica alla forza inoperosa che mette in forma entrambi è, a mio avviso, una chiave di volta intorno a cui articolare adeguatamente la destinazione della Chiesa, ossia la sua ministerialità complessiva – di cui vorrei ora delineare alcuni tratti.
La familiarità con Gesù
Nella comunità cristiana l’introduzione alla familiarità quotidiana con Gesù, all’interno di legami fraterni che la coltivano come pratica condivisa di vita, si dà sempre in vista della sua destinazione verso un altrove e a favore di chiunque. Il ministero è «ordinato» alla cura di questa familiarità, non solo per quelli che fanno parte della comunità cristiana ma per tutti, ovunque essi si trovino nei territori dell’umano vivere.
Nel suo esercizio, quindi, il ministero non si può limitare esclusivamente ed esaurirsi nell’attenzione dedicata ai «suoi»; esattamente perché quest’ultima ha senso solo in vista di una destinazione che eccede continuamente la comunità che essi compongono. Quest’ultima potrebbe essere dunque pensata e praticata come possibilità di allargamento, virtualmente senza limiti, di quella familiarità con Gesù che non si identifica mai esclusivamente con il gruppo «sociologico» dei suoi.
Il modo in cui la comunità cristiana pratica e condivide l’allargamento della familiarità con Gesù, così da rendere possibile a molti il suo accesso e la sua frequentazione, è ciò che potremmo chiamare la ministerialità complessiva della Chiesa. È questo che la destina a un altro indispensabile e, al tempo stesso, ad altro da sé.
All’interno di questa destinazione della Chiesa trova il suo senso anche il ministero ordinato: in particolare, come rammemorazione in esercizio, a favore dell’intera comunità cristiana, della ministerialità complessiva della Chiesa; senza con questo risolverla mai nella propria «ordinazione».
In questo gioco aperto della destinazione della Chiesa, il ministero funziona nella misura in cui intercetta e s’interseca con la multiforme ministerialità che scorre nella comunità fraterna che coltiva una quotidiana familiarità con Gesù. Questo consente al ministero, da un lato, di non dover essere onnipresente (estenuandosi), e con ciò anche di dismettere ogni senso di onnipotenza e, dall’altro, di accettare con serenità i propri limiti di competenza, cosa che alleggerisce poi dalla sensazione di dover arrivare dappertutto (stremando le abilità specifiche della fede del prete).
La virtuosità di questi intrecci possibili nella ministerialità della Chiesa può produrre anche una sana tranquillità; quella che deriva dal fatto di sapere che, comunque, un fratello o una sorella nella fede coltiva assiduamente e presidia un ambito della destinazione della Chiesa che il ministero non può o non riesce a raggiungere. La forza del ministero risiede proprio nella liberalità con cui riesce a riconoscere tutto ciò, autorizzandolo come qualcosa che non è irrilevante rispetto al buon esercizio della propria «ordinazione».
L’autorità del ministero sta e cade dunque con questa sua abilità di autorizzare una ministerialità della fede altra dalla sua, a lui impossibile o impraticabile di fatto (magari anche solo per ragioni contingenti). Il limite e il limitarsi possono diventare così principio di un’autorità riconoscibile e riconosciuta nel tessuto delle relazioni fraterne dell’assidua familiarità con Gesù.
Resistenze
Il vantaggio che in tal modo potrebbe risultare per un sano esercizio del ministero è di un’evidenza quasi immediata, eppure la virtuosa articolazione della ministerialità complessiva della Chiesa fatica a realizzarsi come pratica quotidiana del ministero e della comunità cristiana.
Le ragioni sono molteplici, mi interessa qui solo indicare alcune di quelle legate al dinamismo della storia dell’Occidente europeo. Nella dialettica della modernità, e come via per separarsi da essa marcando un territorio di sovranità esclusiva, durante il XIX secolo il cattolicesimo (ma anche le comunità della Riforma) si «socializza»; ossia diventa un corpo sociologicamente organico, a sé stante e separato.
Questa idealità organizzativa del corpo ecclesiale continua a riprodursi anche quando, a partire dal primo decennio del XX secolo, a essa non corrisponde più l’effettività sociale della convivenza umana. Questo ha finito col creare, per il medesimo credente, una sorta di schizofrenia fra attuazione della fede e partecipazione alla vita civile. Inoltre, la sociologizzazione del cattolicesimo ha prodotto, di fatto, anche un assorbimento pressoché completo della ministerialità complessiva della Chiesa all’interno del solo ministero ordinato.
Questo perché nella comunità cristiana come corpo organico a sé stante e separato non si dà alcuna destinazione oltre se stessa. Il cristianesimo diventa sostanzialmente questione di trasmissione «genetica» del codice della fede, in ragione della nascita biologica all’interno di un gruppo sociologicamente ben delimitato.
L’esito di questa dinamica, di cui paghiamo ancora oggi il prezzo, è il venire meno di un punto di intersezione reale tra la comunità cristiana, intesa come genetica sociologica del credere, e la socialità umana diffusa, ossia il modo effettivo del vivere degli uomini e delle donne.
L’orizzonte della destinazione
Oggi, mentre da un lato si tiene in vita artificiosamente l’identificazione sociologica della comunità credente, che cerca di generare in vitro cristiani a venire intercettando fin dalla culla i cuccioli d’uomo per tenerli poi legati a sé attraverso una catechesi a vita (senza peraltro riuscirci), dall’altro la destinazione effettiva della ministerialità della Chiesa esplode – spargendosi su uno spettro prismatico della socialità umana di ampiezza inusitata, davanti alla quale siamo del tutto impreparati.
Pensare di ricorrere solo al ministero ordinato per far fronte a questo allargamento epocale della destinazione della Chiesa nella sua ministerialità, vuol dire decretarne di fatto la fine per sovra-determinazione delle possibilità del suo esercizio.
Quando a cavallo fra il XIX e XX secolo, nella Francia repubblicana e laica, p. Dehon immagina la destinazione della sua nascente Congregazione religiosa come attestazione del Sacro Cuore nella società umana, ingiungendo ai suoi che è oramai giunto il tempo di «uscire dalle sacristie», non intende affatto riproporre il modello (medioevale) di una cristianità coesa e diffusa, né tantomeno la sua riedizione tardo-moderna di un cattolicesimo sociologico organico in sé stesso e separato dalla socialità umana comune a tutti; ma rappresenta piuttosto l’intuizione geniale dell’esaurimento di ogni sua plausibilità, come dell’insufficienza del modello a «orto concluso» a cui essa è approdata nel corso dell’Ottocento.
A distanza di un secolo, l’imperativo dell’«uscita», ossia il recupero deciso della destinazione come principio fondamentale della Chiesa, è esigenza affermata con persuasione dallo stesso ministero petrino, indice della piena consapevolezza che un lungo paradigma storico si è oramai concluso per sempre e che la Chiesa ne deve trarre le debite conseguenze.
La rimessa in gioco della destinazione, fortemente accentuata da papa Francesco, unita a una comprensione del ministero come prossimità effettiva alla quotidianità dei molti modi di vivere la familiarità con Gesù nella comunità cristiana, da un lato, e all’affermazione della pietà popolare come sovranità del popolo di Dio rispetto al clericalismo quale forma mentis dell’apparato ecclesiastico (preti o laici che si sia), dall’altro, autorizza a un immaginario del ministero ordinato capace di raccogliere il meglio dalla stagione che ci siamo lasciati alle spalle, lasciando contemporaneamente cadere scorie e sovrastrutture che rischiano di soffocarlo e renderlo inadatto al tempo attuale della destinazione della Chiesa. A meno di questo, si finirà col trascinare con sé, volenti o nolenti, anche le forze migliori che circolano ancora nelle nostre comunità cristiane.