A distanza ravvicinata, Torino ha vissuto, quest’anno, due eventi sindonici di totale novità.
In preparazione dell’incontro a Roma dei giovani italiani, un gruppo di circa duemila di essi, provenienti dalle diocesi del Piemonte, il 9 di agosto si recarono nel duomo di Torino a venerare la Sindone, eccezionalmente esposta per loro.
Poco più tardi, al termine di una sofferta stagione di restauri e ricuperi, il 27 settembre venne inaugurato il ripristino della cappella “sindonica” del Guarini, che era stata preda dell’incendio scoppiato nella notte fra l’11 e il 12 aprile 1997.
Ambedue gli eventi, in modo diverso, causarono un risveglio nella città. Ma la seconda volta non si vide la Sindone; ciononostante, l’accorrere della gente, fino al grande concerto finale in duomo, faceva pensare alla ressa abituale nelle ostensioni pubbliche della Sindone.
E tornava la solita domanda: che cos’ha di così singolare la Sindone? Certo, c’è una città che si riconosce in questa presenza, ma c’erano pure americani, cinesi e giapponesi che facevano ressa con tutti gli altri.
Alle grandi iniziative messe in atto per la riapertura della cappella guariniana non si poteva cogliere nessuna frangia di contestazione e anche amici notoriamente indifferenti al fatto religioso manifestavano un entusiasmo superiore a ogni riserva. Sapevamo di polemiche risollevate contro la Sindone in varie parti d’Italia, ma nessuna ebbe la forza di turbare quell’armonia. Si coglieva allora la domanda: ma è la Sindone o è il Guarini la causa di questa euforia?
Intrigante singolarità
Guarino Guarini era un prete teatino che metteva genio e competenze (matematico, filosofo, teologo, architetto) a servizio di un messaggio che le sue competenze gli davano la possibilità di diffondere con efficacia unica. Il culmine delle sue realizzazioni lo raggiunse proprio con questa famosa cappella. Non ne fu l’iniziatore, perché, quando ne ebbe l’incarico, la sua storia era già iniziata.
La Sindone era giunta a Torino, per volontà di Emanuele Filiberto di Savoia (che voleva trasferire da Annecy nella nuova capitale quella “reliquia” che era considerata il palladio della dinastia) nel 1578 e, da subito, era sorto il problema della sua destinazione.
I primi tempi videro molti movimenti nel collocamento del Telo sindonico, con progetti vari, fin quando si impose quello di Bernardino Quadri per una cappella circolare posta tra gli edifici del palazzo ducale e il coro della cattedrale (gli edifici cioè del potere civile e del potere religioso).
Nel 1668 l’incarico passava a Guarino Guarini (morto nel 1683), che nel 1682 giungeva praticamente a conclusione dell’opera, dandoci «una spettacolare architettura diafana con sei livelli di archi sovrapposti, ruotati gli uni rispetto agli altri, che si riducono man mano che salgono a convergenze nella stella/sole in pietra, al cui centro spicca la colomba dello Spirito Santo».
Guarini muore un anno dopo, a Milano, lasciando a Torino altri edifici di suggestività unica: la chiesa di San Lorenzo e Palazzo Carignano, che costituiscono il culmine del barocco torinese e forse mondiale.
Mario Labò scrive che, nella nostra cappella, «assolutamente originale è il suo senso plastico monumentale, francamente ribelle alla metrica in uso… Certe affinate virtuosità geometriche non potevano essere concepite che da uno scienziato pari suo, matematico e astronomo».
Il pavimento della cappella è al livello del primo piano del Palazzo Reale, dal quale si accede ora per le visite. Inizialmente e fino alla grande interruzione del 1993 (quando iniziò quel primo restauro, che terminava malauguratamente nel grande incendio) i fedeli accedevano dalle due grandi scale in marmo nero provenienti dal duomo. Sarà necessario trovare l’alternanza di apertura e chiusura di questo accesso, per non privare i visitatori del senso della salita dal buio della condizione puramente terrena alla luminosità mediata dalla vittoria di Gesù sulla morte. Certo le esigenze del raccoglimento dell’azione liturgica in duomo esigono momenti in cui questa esperienza è sospesa.
Il telo e i marmi
Attualmente manca un elemento giunto nella cappella solo nel 1694: l’altare progettato da Antonio Bertola. Centrale nell’area del sacrario, l’altare ha due facciate, verso il Palazzo Reale e verso il duomo, e termina con un’elevazione che reggeva in alto il contenitore della cassa in cui era conservata la Sindone. Da questo contenitore la cassa fu allontanata nel 1993, quando si rese necessario il primo restauro (a seguito della caduta di un frammento di arco marmoreo, che fortunatamente non colpì nessuno dei presenti), e non vi tornò più.
Studi molto accurati hanno appurato che la condizione ideale per la conservazione della Sindone non dovesse essere quella arrotolata bensì quella distesa, come accade ormai a partire dall’ostensione del 1998. Nonostante questo impedimento, l’altare del Bertola verrà ricostruito nei prossimi mesi (finora non era possibile per il grande ingombro del cantiere della cupola) come l’aveva voluto il suo ideatore e avrà una destinazione che recuperi almeno in parte il suo significato.
La Sindone, distesa nel nuovo contenitore, giace a distanza ravvicinata, nella cappella del transetto del duomo, in perdurante scambio di messaggi.
Il pubblico accorre nuovamente ad ammirare il grande capolavoro, con la vaga consapevolezza dell’immane lavoro che è stato compiuto in questo ventennio, a partire dalla messa in sicurezza della struttura e delle superfici, dalla catalogazione delle migliaia di frammenti residui dell’incendio, con la realizzazione di un sistema informativo per individuare e ricollocare i frammenti stessi.
La brillantezza dei marmi, nello splendore ricuperato nel grigio (con tutte le difficoltà per il reperimento di nuovo marmo idoneo), il consolidamento delle strutture in elevazione della cappella, il restauro e la finitura di tutte le superfici interne ed esterne si offrono in umile servizio a un messaggio che un’architettura frutto di geniale concettualità e acribia ha voluto suggerire in uno slancio di fede e di passione, nella contemplazione del mistero della redenzione: a partire dal buio del sepolcro per giungere allo splendore della gloria celeste del Risorto.
Di questo grande mistero la Sindone è testimone silenzioso ed efficace, pur in una presenza un po’ meno sensibile.