L’Unione Europea si trova davanti a un’urgenza dalla quale dipende il suo futuro: lo scollamento sempre più marcato tra il quadro giuridico complessivo che regola la convivenza fra i cittadini, e i legami solidali fra gli stati che la compongono, e le forme diffuse della mentalità «civile» della gente nelle relazioni quotidiane – private e pubbliche. Oggi è drammaticamente evidente che il vivere-insieme fra molti e diversi non si nutre di solo diritto. Il suo debordare pervasivo in ogni ambito della vita umana ha di fatto indebolito la coscienza individuale e la responsabilità sociale dei cittadini europei.
L’implosione di un ethos condiviso e la tribalizzazione della socialità umana ne sono i segni più evidenti. Nessuna retorica politica è in grado da sé di invertire i processi in atto nel tessuto profondo della convivenza europea e nel sentire della gente. Il populismo, tribale più che nazionalista, e la guerra surrettizia dichiarata in molti modi alle generazioni più giovani non troveranno nessun argine in mere dichiarazioni di intenti, in appelli da parte di quello che rimane delle élite illuminate, né in richiami generici allo spirito delle leggi che regolano il nostro stare insieme o alle radici cristiane del nostro continente.
La ricostruzione di un ethos condiviso e l’educazione umanistica del sentire sono imprescindibili rispetto al futuro dell’Europa, in un tornante epocale in cui i «barbari» li abbiamo prodotti da noi senza dover subire alcuna invasione. Questi sono anche i tornanti che misurano la qualità civile e culturale del cristianesimo come parte integrante, e talvolta anche come unica «forza» rimasta, del progetto europeo.
Ma il cristianesimo sarà all’altezza del compito presente unicamente se sarà capace di smettere di occuparsi solo di se stesso, tutto ripiegato su di sé a commiserare il proprio declino (numerico) e la propria condizione di marginalità. Insignificanza e irrilevanza non lo devono preoccupare, sono le condizioni in cui il cristianesimo attua al meglio il proprio lavoro nella storia umana. Almeno questa era la convinzione di Gesù.
Salvaguardare la propria condizione attuale nei confronti delle istituzioni politiche, nel quadro organizzativo della società e nei modi della propria auto-comprensione, significa per il cristianesimo europeo decretare da sé la propria fine e segnarne l’ingresso fatale in una dimensione settaria del tutto corrispondente alla logica tribale che scompone il corpo sociale della cittadinanza europea.
Il perdere qualcosa nella contingenza storica in vista di un compimento complessivo della storia umana nella pace messianica di Dio, è imperativo sapienziale che muove il cristianesimo nella quotidianità dei giorni di tutti. Rinunciare ai propri privilegi per assumere la regia dell’articolazione della presenza delle religioni nello spazio pubblico, da un lato, e farsi carico dell’esigenza spirituale che circola anche nei vissuti più distanti dalle forme istituite della fede, dall’altro, sono due terreni nei quali si misurerà la capacità di futuro del cristianesimo stesso.
All’incrocio di essi sta la possibilità di una paziente messa in forma di un nuovo ethos comune europeo, oltre la sterilità della contrapposizione fra laicità e confessione della fede – la quale ha prosciugato le forze migliori dello spirito europeo in un duello narcisistico che ha finito per far regredire vistosamente la qualità civile della convivenza umana.
Per fare questo, il cristianesimo deve trovare la libertà di stringere alleanze inedite, orchestrando i legami di quello che rimane delle istituzioni migliori prodotte dalla modernità (in primo luogo, con il diritto che abbiamo abbandonato solitario a un compito di supplenza che lo ha snaturato in radice). Ma deve anche abitare le strade dove circola l’umana quotidianità del vivere, dove si genera quel sentire diffuso che, oggi, sta prendendo congedo dall’idealità umanistica dell’Europa.
L’immagine evangelica di un rabbi marginale ed errante, ma non senza un’idea portante e un orizzonte di destinazione, attorniato da un improbabile accozzaglia di discepoli che non ne azzeccavano una, ha la forza di rimettere in circolo nei territori europei un cristianesimo sensibile al destino dei molti ignoti che si condensa, improvvisamente, nei pochi che incontra.
Quando il cristianesimo non lavora per sé, per la propria preservazione, per proteggere la buona immagine della propria istituzione, lavora con certezza per il regno di Dio – e questo dovrebbe bastargli.