Lo studio del quarantasettenne dottore in teologia biblica docente a Matera e, come professore invitato, allo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, verte su cinque appellativi cristologici presenti nel Vangelo di Giovanni e sulle apparizioni pasquali di Gv 20.
Giovanni parte dal retroterra costituito dall’ipotesto dei Sinottici, per apportare nel suo ipertesto, grazie alla ricca intertestualità di cui si avvale, lo sviluppo ermeneutico della figura e dei titoli cristologici che si fonda su una comprensione più profonda della sua identità di Figlio di Dio, Logos incarnato e rivelatore del Padre.
Cristo è il Logos ma, superando la concezione presente nella letteratura veterotestamentaria e filoniana, Giovanni apporta una comprensione incarnazionistica del Logos.
Gesù Cristo porta a compimento le profezie riguardanti un nuovo tempio. Nelle sue parole seguite alla purificazione del tempio (che potrebbe essere intesa, a mio parere, anche come una “purificazione del culto”) e in quelle rivolte alla Samaritana, Gesù si presenta come il nuovo tempio in cui avere un contatto con Dio nella preghiera in Spirito e verità. Durante la Festa delle Capanne, Gesù si presenta come il tempio da cui fluirà acqua viva (cf. Ez 47). Cosa che sui realizza sulla croce, nel momento climatico della sua rivelazione pasquale. Nella deposizione del suo corpo-tempio dalla croce si ha un ulteriore tassello del tema.
In questo capitolo l’autore argomenta a partire da uno “Spirito” con la “S” maiuscola (così, bene, la CEI 2008), ma poi sceglie incomprensibilmente la traduzione con la “s” minuscola. Nella trattazione del tema occorre evitare, secondo me, ogni allusione ad una pura “sostituzione” delle realtà dell’AT. Gesù non vuole un nuovo tempio.
Oltre alle connotazioni dell’AT, dei testi paratestamentari e qumranici, incentrato sulla sua funzione giudiziale e bellica (vittoriosa), l’appellativo Figlio dell’uomo riceve una fisionomia completa con un’escatologia presenziale che porta nel presente l’autogiudizio che l’uomo opera nel suo aprirsi credente a Gesù o nel chiudersi colpevolmente alla sua rivelazione.
Tipico di Giovanni è inoltre lo schema abbassamento-risalita (katabasi e anabasi), che giunge alla pienezza pasquale nell’innalzamento glorioso sulla croce. La Pasqua come elevazione porta a compimento il percorso giovanneo sul tema, iniziato con il discorso rivolto a Natanaele e continuato con il cieco nato guarito nel c. 9 del Vangelo.
Gesù come buon pastore porta a compimento le profezie presentate in Ez 34 ecc., ma in Giovanni riceve una connotazione speciale, tutta sua, quella di pastore pasquale (felice definizione di Piazzolla) che “pone” la sua vita donandola per le pecore. Il pastore che dà la vita per le pecore è un tema completamente nuovo.
L’appellativo Agnello di Dio ha un complesso retroterra nell’AT e nei testi paratestamentari, potendo rimandare a tanti rivoli come a sue sorgenti semantiche. Nel complesso del testo evangelico si evince il fatto che, per Giovanni, l’“Agnello di Dio” congiunge in sé le figure del servo sofferente di Isaia 52–53, l’agnello afono di Geremia e, soprattutto, l’agnello pasquale dalle ossa intatte di Es 12.
La connotazione dell’espiazione, già notata dai sinottici, diventa fondamentale in Gv e da lui rapportata all’appellativo “Agnello di Dio”. Va ricordato, a p. 97, che nāśā’ significa in prima battuta “alzare” (cf. la traduzione greca airō), e quindi il sintagma nāśā’ ‘āwôn significa “alzare la colpa”, cioè “alzarla per portarla via”, e non “prendere il peccato”, come affermato a p. 97 e nota 6.
Nell’ultimo capitolo l’autore esamina Gv 20, con i suoi quattro quadri contenuti nelle due scene, seguite da un breve epilogo. In Gv 20 la cristologia si intreccia con l’ecclesiologia, in quanto le figure dei personaggi lì citati vanno oltre la loro dimensione storica, diventando modelli di un percorso di fede nel Signore che porta alla beatitudine di coloro che credono in Gesù pur non avendolo visto.
Nessuno dei segni pasquali (tomba vuota, vesti riposte) può portare la fede se non c’è un incontro personale con Gesù risorto che prende l’iniziativa nelle varie cristofanie pasquali.
In questo capitolo Giovanni intende rispondere a dove si passa ora rinvenire il Cristo risorto – non guardando all’indietro, risponde, ma alla sua presenza nella liturgia e nell’eucaristia – e passando da un “vedere per credere” a un percorso di “credere per vedere”.
Tommaso è il “gemello” di ogni uomo che vuole diventare credente e della comunità ecclesiale in toto. Interessante la proposta di Nauck (cf. p. 115 e nota 36) – giudicata da Piazzolla come la “più plausibile” – di comprendere l’espressione “e vide e credette” descrittiva del comportamento del Discepolo Amato (Gv 20,8) quale un “dare credito” a ciò che Maria Maddalena aveva visto e riferito.
Secondo l’autore, non può essere descritta qui una fede pasquale, anche incoativa (cf. invece De La Potterie), dal momento che in Gv 20,9 si dice che «non avevano ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risorgere dai morti».
Lo Spirito viene dato, infine, da Gesù risorto non immediatamente per la missione, ma per il perdono dei peccati. La missione non manca, ma viene scissa in un momento distinto da questo dono (a differenza da Luca).
Alcune notazioni sparse, oltre a quelle già accennate. Insieme ad alcune migliorie redazionali, occorre ricordare la necessità di trascrivere tutti gli spiriti aspri delle parole greche con la lettera h che precede il termine.
A me piace interpretare Gv 1,16 come “grazia al posto di grazia”, non certo in un senso deprecabilmente sostituzionista, ma inglobante: il Logos incarnato come una grazia maggiore, che ingloba e contiene la Torah, che è già a sua volta un “dono” divino (edothē, “fu data” [da Dio Padre, passivum divinum]), non ritratto al momento dell’invio da parte di Dio (= il Padre) di una Grazia ancora maggiore che la ingloba.
CEI 2008 traduce Gv 20,23 come fa l’autore, nonostante la sua affermazione negativa generalizzante in senso contrario (p. 119). Maria Maddalena non «cerca un contatto con Gesù» (p. 112 nota 24) e neanche «tocca il Risorto» (p. 109), ma lo «tocca prolungatamente», in quanto la negazione di un imperativo presente in bocca a Gesù risorto si riferisce a un’azione già in atto da parte di Maria Maddalena, di cui si comanda la cessazione (cosa ben notata peraltro da Piazzolla stesso a p. 109 nota 13). Il divieto di Gesù significa quindi: «non continuare a toccarmi = non mi trattenere» (così, bene, CEI 2008).
Un testo veramente interessante, scritto limpidamente. In modo sintetico, l’autore mette in grado il lettore di avere una panoramica precisa della problematica suscitata da un passo o da un termine, con l’indicazione chiara della soluzione proposta (che mi trova praticamente sempre d’accordo).
Le note a piè di pagina sono essenziali, per lo più con la pura indicazione delle opere di cui si cita il pensiero. Il volume si chiude con un’ampia bibliografia (pp. 129-141), l’indice delle citazioni bibliche ed extrabibliche (pp. 141-152) e l’indice dei nomi (pp. 153-155).
FRANCESCO PIAZZOLLA, Il Cristo di Giovanni. Titoli di Gesù nel quarto Vangelo (Studi Biblici 87), EDB, Bologna 2018, pp. 160, € 16,00, ISBN 9-78-810-41037-0.