Popolo di Dio?
Il recente intervento di don Davide Baraldi («La Chiesa: “noi” di ebrei e gentili») sulla discussione sorta in seguito all’articolo pubblicato da Benedetto XVI sul tema e la successiva lettera inviatagli dal rabbino di Vienna invita a proporre alcune riflessioni a partire dal pensiero di Paolo (e della prima tradizione paolina) riscontrabile nella sua produzione teologica canonica.
Per la discussione vertente sul rapporto tra la Chiesa, Israele e i gentili, la base di partenza non può essere che la posizione di Paolo, forse insuperata come punto di partenza di ogni riflessione teologica e dialogo fraterno su tale problema. Per inciso, si tenga presente il fatto non casuale che la Commissione per il dialogo ebraico-cristiano è inserita nel Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani e non in quello per il dialogo interreligioso!
Paolo non chiama mai “popolo di Dio” la Chiesa nella quale sono confluiti i gentili credenti. Lo fa solo due volte, in Rm 9,25-26, citando espressamente Os 2,25 (testo interpretato liberamente, ma non scorrettamente, da Paolo in rapporto all’adesione dei gentili “lontani” alla fede in Cristo, e non alla parte adultera e infedele di Israele [= non popolo] nei confronti di YHWH, rispetto a quella fedele [= mio popolo] come inteso da Osea).
I privilegi storico-teologici di Israele sono riconosciuti e onorati da Paolo in Rm 9,1-5: «… da loro [= i patriarchi] proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli» (non sto a discutere se la traduzione CEI 2008 del finale del versetto sia corretta).
L’Israele storico è stato gratificato di doni e di una chiamata che sono irrevocabili (Rm 11,29). Nella storia della salvezza Dio ha sempre proceduto per scelte fatte secondo grazia, e colui che in quel momento non veniva scelto, non per questo era dimenticato per sempre (Rm 9,6ss).
L’incredulità della maggior parte di Israele è vista da Paolo come un “mistero” (Rm 11,25) su cui riflettere in silenzio meditativo e orante, evitando giudizi falsi e ingenerosi, evitando ogni superbia, ma stando fermi nella fede e “tremando” (cf. Rm 11,20). L’incredulità minoritaria di Israele nei confronti del vangelo costituito da Gesù Cristo, non mette in scacco la verità della parola di Dio, il vangelo, che è e resta potenza salvifica per chiunque crede, tanto del giudeo, prima, quanto del greco, poi (cf. Rm 1,16-17).
La parola di Dio non “è caduta”
Rm 1,16-17 costituisce la “tesi” o propositio principalis di tutta la Lettera ai Romani. Viene articolata in varie subpropositiones e dimostrata in lunghe probationes. Ad essa va rapportata anche la lunga meditazione teologica compiuta da Paolo in Rm 9–11 (tre capitoli sugli undici di natura dottrinale!), che probabilmente non ha raggiunto una risoluzione completa in tutti i particolari neppure nella mente dell’apostolo. L’incredulità di parte di Israele non ha fatto “cadere”, fallire, inficiare, la parola di Dio espressa nel vangelo di salvezza universale per chi crede. Così recita infatti trionfante e gioiosa la subpropositio Rm 9,6, che si collega direttamente alla propositio principalis di Rm 1,16-17: «Tuttavia la parola di Dio non è venuta meno/oukekpeptōken».
Nella moderna riflessione teologica si è affacciata l’idea che Israele non sia pervenuto alla fede in Cristo a causa della sua osservanza di Dt 6,4ss, che prescrive un monoteismo rigido. Israele potrebbe in questo caso non aver creduto in Cristo per rimanere fedele ai comandi di… YHWH. Incredulità di Israele per colpa di YHWH?
Mistero del torpore
I membri di Israele che non hanno creduto sono stati destinatari, per Paolo, che cita esplicitamente Is 29,10, di un “torpore/pneuma katanyxeōs/ebr. tardēmāh” dato loro da Dio stesso (cf. Rm 11,7-8). Lo stesso “torpore” divino mandato sull’’ādām cha ha preceduto il miracolo della creazione della donna primigenia (cf. Gen 2,21) e il torpore fascinoso che cadde su Abramo all’inizio della stipulazione dell’alleanza pressoché unilaterale di YHWH in Gen 15 (solo la fiaccola ardente passa di fatto fra gli animali divisi!). Ci si trova di fronte quindi a un mistero in cui la mente umana si perde.
Sta di fatto che, per Paolo, l’incredulità di Israele è provvidenziale, parziale e temporanea, in vista dell’“entrata” delle genti fra i credenti in Cristo (cf. Rm 11,11.25). Coloro che rimanevano, con tutta probabilità per comando di YHWH, fedeli alla Torah e alla giustizia che ne derivava, non trovarono di fatto l’apertura di fede per aprirsi a “la fine/il fine (telos)” della Torah, cioè il Cristo. Sarà stata la ricerca di affermare una “loro propria” giustizia, come afferma Paolo (Rm 10,3), con zelo malriposto, «non secondo una retta coscienza» (Rm 10,2)? Si può anche pensare – suggerisco – che Israele sia stato troppo fedele al primo dono di YHWH, la Torah, senza rimanere sempre disponibile al Donatore, che poteva liberamente decidersi per un ulteriore dono fatto persona che ricuperava, inglobava e perfezionava il primo dono.
Ripudio? Absit iniura verbo
Sta di fatto che Dio non ha ripudiato il suo popolo. È la tranciante subpropositio di Rm 11,1. L’eventualità di un ripudio non va neppure ventilata col pensiero: «Non sia mai!» (Rm 11,1b). In Israele non c’è stato un “fallimento” (Rm 11,12 traduzione CEI) ma un “assottigliamento” (così molto bene J.-N. Aletti). Israele è inciampato, certo, ma non per sempre (11,11). La loro messa da parte/apobolē” (così molto bene J.-N. Aletti) è stata occasione di riconciliazione del mondo. Il loro reintegro sarà come una risurrezione dei morti! (Rm 11,15).
Israele è stato “messo da parte” come tante volte YHWH ha fatto nella storia della salvezza nelle sue scelte compiute secondo la grazia (cf. Rm 9,6ss), ma non è stato rifiutato! Va assolutamente corretta la traduzione imperdonabile di Rm 11,15 fatta da CEI 2008 (= “il loro essere rifiutati”) in opposizione tragica e illogica a quanto detto all’inizio del capitolo, in 11,1: «Dio ha forse rifiutato il suo popolo? Impossibile».
Radice e rami
Dio ha quindi temporaneamente tagliato i vari rami dell’Israele storico – ulivo buono – che non è giunto alla fede in Cristo Gesù, ma è capacissimo di reinnestarli dove essi vi stanno “per natura”. «Tu che sei un olivo selvatico – afferma Paolo con forte tono di diatriba cinico-stoica –, sei stato innestato fra di loro (en autois) diventando così partecipe della radice e della linfa dell’olivo» (Rm 11,17). Enorme il progresso e l’acquisizione teologica rispetto alla traduzione della CEI precedente, di tono tragicamente sostitutivo: “sei stato innestato al loro posto” (CEI 1974). La radice santa costituita non solo dagli apostoli, ma dai patriarchi, porta (Rm 11,18) coloro che sono arrivati alla fede in Gesù Cristo, provenendo sia da Israele quanto più dalle genti. «… ricordati che non sei tu che porti/bastazeis la radice, ma è la radice che porta te/alla hēriza se» (Rm 11,18).
Alla fine… il Liberatore
L’esito del cammino dell’Israele storico è per Paolo in ogni caso positivo. Rm 11,26 afferma: «E così (Kai outōs, che interpreto in senso dimostrativo, e non temporale come fatto da CEI 2008 e da vari studiosi) tutto Israele sarà salvato/sothēsetai (non “sarà convertito/si convertirà”), come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati» (Rm 11,26, che cita Is 59,20-21 e Is 27,9). La citazione (leggermente modificata) di Is 29,20-21 riportata in Rm 11,26b-27 pare descrivere il modo in cui il Cristo (è lui, per Paolo, il liberatore messianico) opererà in prima persona la salvezza di Israele. Questo avverrà nei tempi previsti da Dio, tramite l’uomo Gesù Cristo, «unico mediatore/mesitēs tra Dio e gli uomini» (1Tm 2,5).
Questa è la fede cristiana irrinunciabile, altrimenti la croce di Cristo viene «svuotata» (hina mē kenōthēi, 1Cor 1,17), «Cristo è morto invano/dōrean» (Gal 2,21) e si è «decaduti dalla grazia» (Gal 5,4). Israele camminerà nella storia fedele alla Torah del suo signore YHWH, ma non lo farà, per i cristiani, senza Cristo risorto, «roccia spirituale» che lo accompagna misteriosamente (1Cor 10,4). Se lo ha accompagnato nel deserto del primo esodo, lo farà anche nell’esodo definitivo.
Due cammini storici e di fede, unica via di salvezza, accettata esplicitamente da un parte, goduta misteriosamente dall’altra.
Il “mistero”
Il “mistero” di cui si parla in Colossesi ed Efesini – secondo la maggioranza degli studiosi con ogni probabilità lettere non autoriali di Paolo, ma opera della prima tradizione paolina e chiamate “Deutero-paoline”, a cui seguirà la seconda tradizione a cui attribuire le cosiddette Trito-paoline (2Ts; 1-2Tm; Tt) – ha un contenuto cristologico e uno ecclesiologico.
Cristologico in Col 3,27: il mistero nascosto da secoli e ora manifestato ai santi è un ricco «mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria». Il vangelo incentrato su Cristo, predicato e piantato saldamente fra le genti tramite la fede degli etnico-cristiani e dei giudeo-cristiani, è speranza di gloria per tutti.
Il risvolto ecclesiologico del “mistero” è espresso invece nella più matura Lettera agli Efesini. Il mistero redentivo e salvifico di Dio è quello di «condurre tutte le cose sotto il capo/anakephaloiōsasthai» che è Cristo, “in-testando” tutto a lui.
Nel concreto, il processo di attuazione del mistero è avvenuto «per mezzo della croce» (cioè del Crocifisso, Ef 2,16). Il sangue di Cristo (2,13) è quello di colui che è la pace dei credenti in lui («nostra pace»), provenienti da due grandi tronconi in cui era divisa, secondo gli ebrei, l’umanità antica a livello religioso: giudei ed etnici/gentili/pagani/ethnē. Con la sua vita donata nella tragica fattispecie della violenza della croce, il Cristo ha fatto dei due (tronconi) «una cosa sola/hen». Non un “popolo solo” (cf. invece CEI 1974)!
La Lettera agli Efesini non denomina in modo più preciso la nuova realtà, il tertium genus nato dal confluire dei giudeo-cristiani e degli etnico-cristiani. La declinazione paradigmatica del sintagma «una cosa sola» riceve una connotazione antropologica («un uomo nuovo», 2,15) e una ecclesiologica («un solo corpo», 2,16). Per mezzo di Cristo il “noi” si può presentare, «gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (2,18).
Eredità
Paolo era ben consapevole del carattere “inclusivo” e non “esclusivo” della benedizione promessa da YHWH a Israele, che doveva arrivare a coinvolgere tutte le famiglie della terra grazie alla partecipazione della benedizione donata ad Abramo (cf. Gen 12,1-3; 18,8; 22,18).
Secondo vari autori, l’universalismo dell’Apostolo è stato probabilmente il carisma proprio da lui goduto di ricordare, ravvivare e rinfrescare la coscienza dell’universalismo insito nella promessa abramitica ad un Israele che era in pericolo di averlo dimenticato e sottostimato.
Il ragionamento di Paolo in Gal 3 è un capolavoro di intelligenza della storia della salvezza e un’abile argomentazione rabbinica che intravede in Gesù Cristo il vero discendente/zera‘ su cui riposano le promesse di benedizione fatte ad Abramo. Da lui esse rifluiscono su tutti coloro che sono immersi in lui nel battesimo, donando a loro un certo qual legame anche fisico, e non solo spirituale, con Abramo, «nostro padre nella fede» (Canone Romano).
L’autore della lettera agli Efesini ricorda la magnifica eredità con la quale sono state gratificate e alla quale sono chiamate le genti e già ottenuta dagli etnico-cristiani con la loro professione di fede in Cristo Gesù. Esse sono chiamate, in Cristo Gesù, a “essere coeredi/einai… sygklēronoma”, “concorporei/syssōma” e “compartecipi/symmetochoi” della stessa promessa per mezzo del Vangelo (cf. Ef 3,6), che riassume, ingloba e porta a compimento con escatologica profondità realizzativa le promesse fatte ad Abramo, fino a donare anche alle genti la vita filiale divina nel Figlio.
Popolo e famiglia di Dio
Nei primi tempi era ancora viva nella compagine ecclesiale la coscienza della duplice connotazione della propria composizione, fatta di giudeo-cristiani e di etnico-cristiani. Con la progressiva scomparsa della componente giudeo-cristiana, nella Chiesa si perse sempre più la coscienza del proprio radicamento nella “radice santa” costituita dai patriarchi e dalla vita di fede di Israele, dalla quale è cresciuto il germoglio di Gesù Cristo «gloria del suo popolo, Israele» (cf. Lc 2,32), quello degli apostoli e della Vergine Maria, tutti “ebrei per sempre”.
La rinascita che sta avvenendo oggi nello Stato in Israele di un cristianesimo connotato dalla radice ebraica (un migliaio di persone distribuite in diverse comunità/qehillôt), con un proprio patriarcato (di San Giacomo), una traduzione in ebraico dei principali testi di preghiera e in attesa di ottenere un vero e proprio rito liturgico “ebraico”, è un fenomeno per lo più sconosciuto alla maggioranza dei cristiani “etnici”, ma fondamentale nel recupero dell’antico polmone ebraico della Chiesa, divenuto asfittico con la crescita pressoché totale del solo polmone “etnico”.
La Chiesa sta recuperando quindi le sue componenti ebraico-cristiane ed etnico-cristiane. Guardando al proprio mistero e riflettendo su di esso, essa ha riscoperto anche i propri strettissimi legami con la parte di Israele che non è ancora giunta alla fede in Cristo, intessendo con essa un fitto e proficuo dialogo teologico, di amicizia, di cammino comune nella difesa della dignità dell’uomo e della salvaguardia del creato.
Solo Dio padre conosce i tempi e i modi con i quali l’Israele storico giungerà a incontrare Cristo, la gloria del suo popolo (cf. Lc 2,32). Israele continua a rimanere “il” popolo di Dio che cammina nella storia appoggiandosi spalla a spalla con i discepoli di Gesù Cristo venuti dal giudaismo e dalle genti, per servire insieme il Dio vivente: «Allora io darò ai popoli un labbro puro, perché invochino tutti il nome del Signore e lo servano tutti sotto lo stesso giogo» (lett. “a una sola spalla/šekem ’eḥād”).
Israele, il popolo di Dio, può e deve camminare nella storia strettamente unito ai “figli di Abramo” che provengono dalle genti quali suoi figli per la fede e beneficiari della sua eredità (cf. Rm 4; Ef 3). Non sembra corretto parlare della Chiesa quale “nuovo popolo di Dio”, anche se essa è un’espressione che compare alcune rare volte nei documenti conciliari. Si potrebbe vedere in essa il “popolo nuovo, il popolo rinnovato, il popolo messianico”, che non sostituisce però, come “nuovo”, un popolo supposto “antico/vecchio” che non avrebbe ormai più la dignità di esistere, sostituito ora dalla nuova compagine ecclesiale.
Anche la “nuova alleanza” è un’alleanza rinnovata a un livello profondissimo mai raggiunto prima, ma rimane l’unica alleanza ex parte Dei, benché rinnovata/ratificata varie volte ex parte hominum. Ai cristiani piace impiegare la terminologia che qualifica la Chiesa quale “popolo di Dio”. Le darebbe una forte connotazione popolare, “personalizzata”, comunitaria. La sobrietà estrema di Paolo nell’usare tale terminologia (cf. Rm 9) potrebbe e dovrebbe indurre però a essere parchi nel suo utilizzo, e a contemplare con gioia il cammino storico di Israele, il popolo di Dio, in profonda unità con i figli di Abramo, uniti insieme nella stessa “famiglia dei figli di Dio”.
Terra e Stato
Resta impregiudicata la questione se la fondazione dello Stato di Israele nel 1948 abbia o no una rilevanza anche a livello teologico, e se da parte dei cristiani ci si debba confrontare con esso mantenendosi solo a un livello tipico del diritto internazionale (così i documenti vaticani). Non può avere questo evento di enorme importanza anche un rilievo a livello teologico, se interpretato come parte del compimento di una promessa storico-salvifica fatta da YHWH al suo popolo?
Le realizzazioni storiche registrate nella Bibbia, quale quella del ritorno dall’esilio e la ricostituzione di una forma rinnovata di struttura politica (anche se solo semi-indipendente), non fanno parte della realizzazione della promessa ezechielica da parte di YHWH di “radunare” e “far ritornare” Israele nella sua terra? «Così dice il Signore Dio – afferma il profeta –: Quando avrò radunato la casa d’Israele dai popoli in mezzo ai quali è dispersa, io manifesterò in loro la mia santità davanti alle nazioni: abiteranno la loro terra che diedi al mio servo Giacobbe, vi abiteranno tranquilli, costruiranno case e pianteranno vigne; vi abiteranno tranquilli, quando avrò eseguito i miei giudizi su tutti coloro che intorno li disprezzano, e sapranno che io sono il Signore, loro Dio» (Ez 28,25-26). Nel c. 34 il Pastore Vero ribadirà: «Le [= pecore, Israele esiliato] farò uscire dai popoli e le radunerò da tutte le regioni. Le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele, nelle valli e in tutti i luoghi abitati della regione» (Ez 34,213).
Secondo p. Francesco Rossi De Gasperis sj, il ritorno dall’esilio è già l’inizio del compimento della nuova alleanza. Si legga il suo testo molto profondo “La terra promessa dell’economia dell’alleanza e la terra della creazione secondo la Bibbia”, in A. Carfagna – F. Rossi De Gasperis, Luoghi di rivelazione. Dove sulla terra si apre il cielo (cf. Gen 28,10-21(Gv 1,50-51). Con un’appendice di Federica Annibali (Bibbia e spiritualità 37), EDB, Bologna 2012, 11-72, specialmente il coraggioso, illuminante e pioneristico paragrafo “La Terra dell’Alleanza di pace” (pp. 52-70 e la Nota di pp. 70-72), che andrebbe conosciuto da tutti.
Il problema della comprensione teologica del tema “terra” in rapporto a Israele è talmente esplosivo che viene toccato solo una volta (in modo generico) dai documenti vaticani.
Si comprende la preoccupazione per la reazione che avrebbero avuto i paesi arabi al tempo del concilio e della pubblicazione di Nostrae aetate.
Ma la questione non potrà essere ignorata in eterno.
Finalmente sono riuscito a leggere con calma questo testo pieno di utili precisazioni, di Roberto Mela che – anche a distanza – ringrazio fraternamente.