Il faraone era l’amato del dio Ra. Fin dai tempi più remoti, il dio Ra motivava i suoi interventi in favore del sovrano con la formula: “Per l’amore che ho per te”.
Il Dio d’Israele non conosceva questo sentimento dolce e delicato. Nei testi più antichi della Bibbia a lui sono attribuite solo passioni forti: si pente, si sdegna, si addolora (Gn 6,6-7), coltiva la fiera lealtà del feudatario nei confronti del suo vassallo, ma non l’amore, per questo si comprende che, in preda al terrore, Israele abbia supplicato Mosè: “Parlaci tu e noi ascolteremo, ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!” (Es 20,19).
Dio contemplò il creato e “vide che era cosa buona”, ma non si allude a una sua emozione di gioia; sono riferite le sue alleanze con Noè e Abramo, ma si cercherebbe invano nel testo sacro, come ragione della sua scelta, l’inciso perché li amava. Il Signore ode il lamento del suo popolo oppresso in Egitto, si ricorda della sua alleanza, guarda, se ne dà pensiero (Es 2,23-25), ma anche qui non c’è alcun accenno all’amore. Israele era riluttante ad attribuire al Signore il verbo ‘aheb, amare, a causa delle sue sfumature erotiche.
Fu Osea che introdusse l’immagine dell’affetto coniugale e, dopo di lui, nessuna espressione di questo amore, nemmeno la più audace, fu trascurata. Servì per esprimere gli affetti, le emozioni, le tenerezze di Dio nei confronti dell’uomo. Si scoprì il suo amore per i patriarchi (Dt 4,37), Abramo fu riconosciuto come “suo amico” (Is 41,8), gli venne attribuito l’affetto viscerale di un padre (Sl 103,13) e il giuramento: “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto” (Is 54,10).
Solo dopo essersi reso conto di questo amore perenne e gratuito, Israele sentì il bisogno di corrispondervi e capì che un Dio che ama così, senza condizioni, è in diritto di comandare anche al cuore e di esigere anche ciò che umanamente pare impossibile: “Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere” (Pr 25,21).
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Solo chi ha capito che Dio è amore diviene capace di amare”.
Prima Lettura (Dt 6,2-6)
Mosè parlò al popolo dicendo: 2 “Temi il Signore tuo Dio osservando per tutti i giorni della tua vita, tu, il tuo figlio e il figlio del tuo figlio, tutte le sue leggi e tutti i suoi comandi che io ti dò e così sia lunga la tua vita.
3 Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice e cresciate molto di numero nel paese dove scorre il latte e il miele, come il Signore, Dio dei tuoi padri, ti ha detto.
4 Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. 5 Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6 Questi precetti che oggi ti dò, ti stiano fissi nel cuore”.
I figli di Agar, abitanti del deserto dell’Arabia, erano rinomati per i loro proverbi e detti sapienziali; i mercanti di Merra e di Teman erano narratori di favole, nella loro terra erano apparsi i famosi giganti dei tempi antichi, alti di statura, esperti nella guerra. Eppure, nessuno di questi popoli era stato scelto da Dio; a nessuno di loro egli aveva rivelato la via della sapienza (Bar 3,23-27). Sul Sinai l’aveva consegnata a Mosè e da quel giorno Israele si riteneva il depositario, nel mondo, della saggezza e dell’intelligenza ed esclamava: “Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato” (Bar 4,4). Ancora oggi, nella preghiera del mattino, ogni ebreo ringrazia Dio così: “Benedetto sii tu Signore che scegliesti noi fra tutte le nazioni e a noi desti la tua legge”.
È nel contesto di questo giustificato orgoglio nazionale che va collocato il brano di oggi.
Esordisce (vv. 2-4) con l’esortazione a temere il Signore. Non è l’invito ad avere paura: lo spavento presuppone un’immagine di Dio incompatibile con la rivelazione biblica. Temere Dio significa porsi dinanzi a lui in un atteggiamento di totale abbandono, vuol dire disponibilità ad accogliere docilmente la sua volontà di bene. “Ora so che tu temi di Dio”, dichiara l’angelo del Signore ad Abramo (Gn 22,12). Intendeva dire: “Ora so che tu sei fedele a Dio e gli obbedisci in tutto”. I timorati di Dio sono coloro che gli sono sottomessi e sono pronti a eseguire qualunque cosa egli chieda, non perché paventano i suoi castighi, ma perché, essendo certi del suo amore, si fidano ciecamente di lui.
Nella seconda parte del brano (vv. 4-6) è introdotto il celebre testo che ogni pio israelita ripete, anche oggi, tre volte al giorno: “Ascolta Israele…”.
Inizia con la professione di fede nell’unicità di Dio: “Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo” (v. 4).
La tentazione più subdola non è l’ateismo, ma il politeismo, la scelta di costruirsi “vitelli d’oro” e legare il proprio cuore a idoli che illudono, promettono soddisfazioni, serenità e pace, ma poi tradiscono, schiavizzano, disumanizzano chi li venera. Cosciente di questo pericolo, ogni israelita sente il bisogno di richiamare continuamente a se stesso la verità fondamentale della sua fede: il Signore è uno solo.
Poi viene la raccomandazione: “Amerai il Signore tuo Dio” (v. 5).
Nel libro del Deuteronomio i verbi temere e amare sono intercambiabili ed esprimono ambedue un attaccamento esclusivo al Signore.
L’amore a Dio non va identificato con la pratica dei doveri religiosi, con la partecipazione agli atti di culto; per ingraziarsi gli dèi, i popoli dell’antico Medio Oriente offrivano olocausti di animali e le primizie dei raccolti, convinti che, se il soave odore delle vittime non fosse regolarmente salito al cielo, gli dèi si sarebbero adirati e avrebbero inviato pestilenze, siccità e carestie.
Anche Israele per lungo tempo concepì il suo rapporto con il Signore in termini cultuali. Ritenne di poter ottenere i favori del suo Dio offrendogli, come i pagani, sacrifici e olocausti.
Non è così che il Signore vuole che gli si manifesti amore. Sono violente le requisitorie dei profeti contro il ritualismo religioso: “Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore – Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,10-20; cf. Am 5,21‑25).
L’amore che Dio pretende non è un fugace sentimento, un’emozione momentanea, una dichiarazione di affetto fatta con le labbra, ma l’adesione totale a lui nell’adempimento di ciò che gli è gradito.
Per i semiti il cuore era la sede non solo delle emozioni, ma anche della razionalità e delle decisioni. Amare Dio con tutto il cuore significa consegnargli il controllo di tutte le scelte e di tutti i sentimenti. Vuol dire anche mantenere un cuore indiviso, un cuore dove non ci sia spazio per gli idoli. Se è il Signore che con la sua parola riempie il cuore, alla bramosia del denaro, ai capricci, alle ambizioni non può più essere concesso alcun peso nella valutazione di ciò che si deve fare, dire o volere.
Con tutta l’anima. L’anima nella Bibbia equivale alla vita. Nessun istante può essere trascorso in disaccordo con il progetto del Signore. I rabbini insegnavano: il vero israelita ama Dio sempre, persino quando gli toglie la vita.
Con tutta la forza significa impiegare tutte le proprie energie e capacità nella realizzazione dei disegni del Signore. Con il termine “forza”, gli israeliti indicavano anche i beni materiali, per questo sono sempre stati disposti, quando necessario, a sacrificare tutto ciò che possedevano come prova del proprio attaccamento alla fede.
Seconda Lettura (Eb 7,23-28)
23 Gli israeliti sono diventati sacerdoti in gran numero, perché la morte impediva loro di durare a lungo; 24 egli invece, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. 25 Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore.
26 Tale era infatti il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli; 27 egli non ha bisogno ogni giorno, come gli altri sommi sacerdoti, di offrire sacrifici prima per i propri peccati e poi per quelli del popolo, poiché egli ha fatto questo una volta per tutte, offrendo se stesso.
28 La legge infatti costituisce sommi sacerdoti uomini soggetti all’umana debolezza, ma la parola del giuramento, posteriore alla legge, costituisce il Figlio che è stato reso perfetto in eterno.
I giudei che si erano convertiti a Cristo, coltivavano un ricordo nostalgico della loro antica tradizione religiosa. Ricordavano le grandiose cerimonie nel tempio di Gerusalemme, la solennità con cui venivano offerti i sacrifici, gli splendidi paludamenti dei sacerdoti, i profumi degli incensi, il suono melodioso delle arpe, i canti che accompagnavano le celebrazioni liturgiche.
Quasi sempre gli uomini sono molto legati a queste manifestazioni esteriori di religiosità perché comunicano la piacevole sensazione di offrire qualcosa a Dio.
Nel brano di oggi l’autore risponde al cruccio spirituale di questi ebrei nostalgici e afferma che il sacerdozio di Gesù e il culto che egli offre sono infinitamente superiori.
Eccone le ragioni: anzitutto i sacerdoti del tempio erano molti perché la morte impediva loro di durare a lungo e quindi dovevano essere sostituiti. Gesù invece rimane per sempre, ha un sacerdozio che non tramonta e, di fronte a Dio, continua a intercedere per noi (vv. 22-25).
Inoltre, i sacerdoti del tempio erano peccatori e offrivano i sacrifici di espiazione non solo per il popolo, ma anche per se stessi. Gesù invece è puro, santo e senza macchia; è stato tentato, come noi, ma non è mai stato vinto dal male (v. 26).
Infine Cristo è superiore perché non ha offerto sacrifici materiali come facevano i sacerdoti del tempio che presentavano a Dio buoi, tortore, agnelli e frutti della terra; questi sacrifici dovevano essere ripetuti continuamente perché incapaci di ottenere la salvezza. Gesù invece ha offerto la sua vita una volta per tutte (vv. 27-28).
Agli ebrei nostalgici l’autore della lettera non risponde, come forse sarebbe tentato di fare qualcuno di noi: nelle nostre chiese le liturgie sono ancora più solenni di quelle del tempio, i nostri paramenti sono più preziosi… dichiara invece che il culto offerto da Cristo è completamente diverso. Anche i sacrifici dei cristiani sono diversi da quelli del tempio, sono “spirituali”, consistono nel dono della vita al prossimo, come Cristo ha fatto (Rm 12,1).
Vangelo (Mc 12,28-34)
28 Si accostò a Gesù uno degli scribi che li aveva uditi discutere, e, visto come aveva loro ben risposto, gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”.
29 Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; 30 amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.
31 E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento più importante di questi”.
32 Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v’è altri all’infuori di lui; 33 amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici”.
34 Gesù, vedendo che aveva risposto saggiamente, gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio”. E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
È un po’ enigmatica la conclusione di questo brano. Perché Gesù non invita lo scriba a seguirlo? Perché non gli suggerisce il passo successivo per entrare nel regno di Dio? All’uomo ricco aveva subito indicato ciò che ancora gli mancava: “Va’ – aveva detto – vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Mc 10,21).
Lasciamo per un momento in sospeso queste domande e cominciamo a inquadrare l’episodio per poterne cogliere il messaggio.
Da tre giorni Gesù si trova a Gerusalemme. Ha scacciato i venditori dal luogo santo (Mc 11,15-18), gesto che ha reso ormai insanabile il suo conflitto con l’autorità religiosa. I sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani stanno studiando il modo per incastrarlo: gli fanno domande capziose, soppesano ogni sua parola nell’intento di cogliere qualche pretesto per poterlo accusare e togliere di mezzo. Mentre egli si aggira nel tempio, gli si avvicinano e gli sottopongono una serie di questioni di carattere religioso e politico. Gesù risponde a tutte, pacatamente e con molta abilità, al punto che i suoi stessi avversari rimangono stupiti e ammirati (Mc 11-12).
Il vangelo di oggi si colloca in questo contesto polemico. Uno scriba che ha assistito alle controversie precedenti si fa avanti e pone anch’egli una domanda: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. A differenza dei colleghi che lo hanno preceduto, egli non è mosso da astio contro Gesù, non intende metterlo alla prova; ha sentito parlar bene di lui e desidera verificare la sua preparazione biblica.
Studiando le sacre Scritture, i rabbini avevano ricavato 613 comandamenti e li avevano distinti in precetti negativi (che indicavano le azioni da evitare e che erano 365 come i giorni dell’anno) e precetti positivi (che imponevano azioni da compiere e che erano 248 come le membra del corpo umano). Alcuni di questi precetti erano giudicati leggeri, altri gravi, ma l’obbligo di osservarli era ugualmente rigoroso. Le donne erano dispensate dai 248 positivi, ma, anche per loro, ne rimanevano sempre molti, troppi. Si discuteva se fosse possibile riassumerli, ridurli all’essenziale. Alcuni rabbini non volevano nemmeno sentir parlare di una simile proposta. Si racconta che rabbi Shammai un giorno prese a bastonate un pagano che, avendo fretta di farsi giudeo, gli aveva chiesto una sintesi della legge di Dio. Altri rabbini erano invece più ragionevoli; tenevano conto del fatto che i poveri della terra mai avrebbero potuto, non dico osservare, ma anche solo apprendere tanti precetti.
Molti maestri sostenevano che il più importante dei comandamenti era l’osservanza del sabato; altri ritenevano che il principale era quello che imponeva di non avere altri dei; era famosa l’opinione di rabbi Hillel: “Ciò che non desideri per te, non farlo al tuo prossimo; questa è tutta la legge, il resto è solo commento”. Rabbi Akiba insegnava: “Ama il prossimo tuo come te stesso; questo è il grande principio della legge” e Rabbi Simone, detto il giusto, affermava: “Il mondo si appoggia su tre cose: la legge, il culto e le opere di amore”.
Qual era la posizione di Gesù su questo argomento tanto dibattuto?
Egli dava l’impressione di essere molto comprensivo nei confronti dei peccatori e delle loro debolezze, non era intransigente come rabbi Shammai, dunque, doveva essere favorevole alla sintesi. Altre volte si era schierato contro i “sapienti” che complicavano la vita delle persone semplici, caricando sulle loro spalle il giogo insopportabile delle prescrizioni minuziose, delle innumerevoli pratiche imposte dalla tradizione degli antichi.
La risposta che dà allo scriba riprende la più nota delle preghiere del suo popolo: “Ascolta Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Poi, senza essere richiesto, aggiunge un secondo comandamento, tratto dal libro del Levitico: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18).
Come abbiamo appreso dalla prima lettura, Dio deve essere amato con cuore, anima e forza (Dt 6,4). Ma per Gesù non basta: a queste tre facoltà, egli aggiunge anche tutta la mente.
Se si vuole che l’adesione a Dio sia solida e incrollabile, non la si può fondare su fugaci emozioni religiose o farla dipendere da qualche pia devozione. Deve coinvolgere la mente, deve essere frutto di una scelta cosciente e ben ponderata, che soddisfi pienamente anche la ragione.
Chi non dedica tempo allo studio della parola di Dio, chi si disinteressa dei temi teologici e dei problemi ecclesiali, chi non è capace di dare le ragioni della propria fede, non può affermare di amare Dio con tutta la mente.
L’amore a Dio è poi accostato da Gesù all’amore all’uomo, al punto da rendere inscindibili i due comandamenti. Anche se non è sempre facile stabilire ciò che in concreto è conveniente fare, è abbastanza chiaro in che cosa consiste l’amore al prossimo: è la disponibilità a fare sempre ciò che è bene per l’altro. Non è invece del tutto evidente cosa significhi amare Dio e quale sia il rapporto tra i due comandamenti.
L’amore all’uomo richiede impegno per far sì che a nessuno manchino cibo, vestito, assistenza, istruzione e tutto ciò che è necessario alla vita. Tuttavia questo impegno non deve far passare in secondo piano i doveri nei confronti di Dio: la preghiera, la messa domenicale e le pratiche religiose. Una parte del tempo quindi va dedicata al lavoro, alla famiglia, agli amici, ma guai rubare a Dio la parte che gli spetta.
Questa interpretazione, abbastanza diffusa, non è soddisfacente ed è pericolosa. Intesi in questo modo i due comandamenti sono in contrapposizione l’uno con l’altro e mettono Dio e l’uomo in competizione, perché ciò che viene dato all’uno è sottratto all’altro e nessuno può mai essere pienamente soddisfatto.
Notiamo che solo nel vangelo di Marco i due comandamenti sono posti in ordine gerarchico, si afferma che c’è un primo precetto, chiaramente più importante, e un secondo.
Matteo riferisce la risposta di Gesù al rabbino in modo più sfumato: “Il secondo è simile al primo” (Mt 22,39), dunque non è inferiore, come sembrava risultare dalla versione di Marco.
In Luca c’è un passo ulteriore, non si accenna a un primo e a un secondo, ma a un solo comandamento: “Ama il Signore Dio tuo… e il prossimo come te stesso” (Lc 10,27).
In tutto il resto del Nuovo Testamento non si parla più di due comandamenti che riassumono tutta la legge, ma di uno solo e questo è l’amore all’uomo.
Nel vangelo di Giovanni Gesù dichiara: “Questo è il mio (unico!) comandamento, che vi amiate gli uni gli altri” (Gv 15,17) e Paolo afferma che chi ama il prossimo ha adempiuto tutta la legge, “infatti il precetto: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso. Pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,8-9). Scrivendo ai galati, è ancora più esplicito: “Tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5,14).
I due comandamenti non possono, dunque, essere separati, perché sono la manifestazione di un unico amore, come afferma Giovanni: “Chi dice: Io amo Dio e odia il proprio fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,20).
Amare Dio non significa dargli qualcosa (tempo, preghiere, canti…), ma condividere il suo progetto in favore dell’uomo, accogliere il suo amore e effonderlo sugli altri.
Può esserci il pericolo di amare l’uomo senza amare Dio?
Una simile eventualità è tanto impossibile che la Bibbia non la prende nemmeno in considerazione. Se uno ama l’uomo certamente è animato dallo Spirito, perché l’amore può venire solo da Dio (1 Gv 4,7).
Rimane ora da chiarire chi Gesù intenda per prossimo.
Già nel libro del Levitico, fra le persone da amare, è incluso lo straniero: “Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come uno che è nato fra voi; l’amerai come te stesso” (Lv 19,34) e parecchi rabbini, rifacendosi al brano della Genesi dove si evidenzia che Dio ha creato l’uomo a sua somiglianza (Gn 5,1), sostenevano che il termine prossimo includeva tutti gli uomini. In genere però il comandamento era riferito solo ai membri del popolo d’Israele o, al massimo, a coloro che risiedevano dentro i confini della Terra santa.
Gesù pone fine a ogni discriminazione e dichiara senza esitazioni e in modo inequivocabile: prossimo è chiunque si trovi nel bisogno, sia egli un amico o un nemico (Mt 5,43-48).
Nella sua risposta (vv. 32-33) lo scriba, riprendendo l’affermazione di Gesù, introduce il confronto fra la pratica di questi due comandamenti e il culto offerto nel tempio.
Non ha difficoltà a pronunciare il suo giudizio perché, da buon rabbino, ha studiato gli scritti e assimilato il pensiero dei profeti e dei saggi d’Israele. Sa che “Praticare la giustizia e l’equità, per il Signore vale più di un sacrificio (Pr 21,3); ricorda l’esclamazione del salmista: “Sacrificio e offerta non gradisci. Non hai chiesto olocausto e vittima per la colpa. Allora ho detto: Che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore” (Sl 40,7). Non ha dubbi: l’amore è immensamente più prezioso e gradito a Dio di qualunque offerta.
Gesù che citando il profeta Osea ha ripetutamente rivolto ai farisei l’invito: “Andate e imparate che cosa significhi: Opere d’amore io voglio e non sacrifici” (Mt 9,13), non può che compiacersi della sensibilità spirituale del suo interlocutore, per questo soggiunge: “Non sei lontano dal regno di Dio” (v. 34).
A questo punto possiamo riprendere gli interrogativi che ci siamo posti all’inizio: perché Gesù non ha indicato subito allo scriba quello che ancora gli mancava per entrare nel regno di Dio? Perché non lo ha invitato a seguirlo?
La ragione va ricercata nella prospettiva teologica di Marco, che ha strutturato il suo vangelo come un viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme.
Ora il Maestro è giunto alla meta, non è più in cammino. Chi lo ha seguito, chi ha visto le sue opere, ha ascoltato le sue parole e capito il suo messaggio, chi si è lasciato aprire gli occhi e, come il cieco Bartimeo, si è unito ai discepoli lungo il cammino, è finalmente in grado di fare la scelta del dono della vita insieme con lui.
Gli altri – il saggio rabbino del vangelo di oggi, i pii israeliti osservanti della Legge e tutte le persone buone e oneste – sono soltanto vicini al regno di Dio. Per entrarvi devono accostarsi a Cristo, studiare a fondo il suo messaggio, valutare la sua proposta e accordargli la propria adesione cosciente e risoluta. Per arrivare a questa scelta devono prima percorrere con lui la strada che dalla Galilea porta a Gerusalemme.
Leggere il vangelo di Marco equivale a fare questo cammino. Può darsi che, giunti all’ultima pagina, non si abbia ancora il coraggio di offrire la propria vita con Gesù. Può darsi che non si sia ancora pienamente convinti che la sua proposta è quella giusta. Non c’è da abbattersi per questo, bisogna riprendere il viaggio con lui, ripartendo dalla Galilea. Un giorno, come al cieco di Betsaida, Gesù riuscirà finalmente ad aprire a tutti gli occhi.
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