La nuova politica digitale si arroga in toto la capacità di percepire, in presa diretta, la volontà del popolo, agendo di conseguenza con il solo intento di onorare tale volontà. Insomma, nel suo immaginario la nuova politica movimentista non esercita alcun potere, ma sarebbe remissivamente asservita alla realizzazione della volontà popolare. Di fatto, però, già la semplice pretesa di ben saper cosa il popolo vuole è una forma di potere su quella stessa volontà. Il popolo ha la sua volontà, la nuova politica sa cosa questa indefinita volontà vuole, o dovrebbe volere.
Lo schema è avanzato negli strumenti tecnici messi in campo, obsoleto invece per quanto riguarda la sua struttura di fondo. Un centro, imponderabile e intangibile, decodifica e propaganda la volontà generale che, da sola, non sarebbe in grado di esprimersi né di realizzarsi. Alla fin fine, il popolo legittima proprio questa ultima usurpazione del potere che gli competerebbe, perché in verità non ha la più pallida idea di cosa realmente e realisticamente vuole.
La tanto decantata volontà del popolo non è che una matassa di emozioni primordiali, sensazioni arcaiche, ben miscelate con una sana dose di narcisismo irresponsabile. I paladini della nuova politica sono, al tempo stesso, il prodotto di questo dissolvimento della volontà, intesa in senso alto, e i consumatori voraci dei derivati tossici che il suo processo di decadimento ha finito col produrre.
Altra parola brandita a legittimazione di scelte che con essa non hanno nulla a che fare è la fiducia (sempre del popolo). Decisioni di spartizione politica di lucrative posizioni nei vari enti statali o legati alle procedure di governo, vengono giustificate in nome del venire meno della fiducia del popolo. Ancora una volta, la nuova politica agisce come coscienza collettiva, quella che unicamente sa chi e cosa è degno di fiducia. Al popolo si concede al massimo di «sentire», ma oltre questa emozione instabile e fluttuante è bene non andare. D’altronde, alla nuova politica le sensazioni di fiducia del popolo sono più che sufficienti per appropriarsene e gestirle a proprio uso e consumo senza che il popolo possa dire nulla in merito.
Non si arriva come d’incanto a una tale condizione della politica, essa è stata a lungo preparata e coltivata – anche nei luoghi della quotidianità della vita del paese. Se una certa disaffezione per le istituzioni può essere in parte comprensibile, e anche giustificabile, l’aggressività smantellatrice nei loro confronti, che contrassegna ampi ceti sociali e generazionali della popolazione, non è altro che un lento suicidio civile della convivenza sociale e la scelta di abdicare definitivamente all’esercizio del proprio diritto e dovere di essere cittadini.
In nome della nostra attuale inconsistenza stiamo sacrificando, nella forma più arcaica del termine, la possibilità di una pace duratura nei territori europei, il destino di esseri umani sradicati dai loro luoghi di vita, e l’abitabilità della terra per le generazioni future.