Il processo Aemilia
Si è concluso da pochi giorni a Reggio Emilia il più grande processo di primo grado contro le mafie al Nord. Medaglia d’argento nella speciale graduatoria dei processi antimafia, preceduto solo dal maxi-processo di Palermo (1986-87), è durato due anni, per un totale di 195 udienze.
L’hanno chiamato “’Ndrangheta Aemilia”: l’ultima crisi economica e il disastro sismico del 2012 hanno reso l’Emilia un terreno fertile, su cui le ’ndrine hanno compiuto grandi affari, inquinando i pozzi della vita economica e politica di una regione che si è sempre vantata di essere culla di pratiche democratiche e sociali all’avanguardia in Europa.
Era d’uso dire: “Sì, anche qui c’è il virus della mafia, ma noi abbiamo gli anticorpi!”. Fatto sta che le indagini coordinate dalla DDA di Bologna presero il via quasi per caso a Sassuolo, nel 2010, per una bomba all’Agenzia delle Entrate e, dopo cinque anni, convogliarono in un maxi-blitz delle forze dell’ordine a fine gennaio 2015.
Pene complessive pari a 1.223 anni di carcere
Non solo per associazione mafiosa, ma per un cumulo di reati: dalla droga all’usura, dalla bancarotta al riciclaggio, dall’estorsione al caporalato. Già, il caporalato… un reato che sembrava scomparso nella terra madre del diritto al lavoro e del sindacalismo democratico. Nel 2017 l’Emilia-Romagna è stata la terza regione italiana per numero di lavoratori irregolari. Oggi si scopre una terra eticamente non vaccinata, gravemente ammalata e quasi impotente di fronte all’illegalità.
La cultura della legalità, su cui pure si è molto investito in questi ultimi dieci anni, sembra ormai il distintivo di una minoranza, tanto consapevole quanto inascoltata: sia in alto, che in basso. Ciò ha consentito al cancro mafioso di attaccare l’economia emiliana, non più così florida e indipendente. Basterebbe seguire il filo dei subappalti e della manodopera abusiva, per scoprire come, nel giro di un ventennio, una parte dell’economia emiliana sia diventata un’enorme lavatrice di denaro sporco.
La filiera dell’etica quasi-calvinista di questa terra si sta spezzando: il processo Aemilia ha dichiarato che la piccola e media impresa locale rischia di diventare un cavallo di troia in mano a personaggi e organizzazioni senza scrupoli.
Chi ha pensato in questi anni a coltivare la coscienza di imprenditori, professionisti, amministratori? Chi si è tirato indietro da questa responsabilità ha concimato il terreno per le mafie. Nella debolezza dei valori trionfa la forza dei comitati d’affari. Si tratta di cosche locali, sorelle e non figlie di quelle calabresi. Hanno metodi da colletti bianchi, è gente che ha studiato e che è capace di adottare modus operandi chirurgici, efficaci e poco appariscenti.
148 imputati, 125 condannati e un’ingente quantità di beni confiscati
Non solo boss e affiliati a cosche mafiose, ma anche giornalisti, imprenditori, amministratori pubblici, professionisti e tecnici, forze dell’ordine. L’infiltrazione e il radicamento sono concetti superati: bisogna parlare di occupazione del territorio. È il caso della cosca Grande Aracri, a cui sono stati giudicati affiliati una cinquantina di imputati, che tiene in mano una vasta area di territorio bagnato dal Po nella Bassa piacentina, parmense, reggiana, modenese e mantovana.
Fa effetto che chi, qualche anno fa, aveva eletto il Po a nume tutelare dell’onestà e della laboriosità nordista oggi taccia e parli d’altro. Distrazione, euforia da sondaggi, altro?
E la Chiesa emiliana?
In alcune diocesi colpite dal terremoto del 2012 si è fatta molta attenzione nell’affidare la (ri)costruzione di chiese e oratori parrocchiali. Ottimo! Tuttavia, il processo Aemilia solleva un problema etico, prima ancora che economico e gestionale, e ci si aspetterebbe dai cristiani e dai loro pastori anche una decisa discesa in campo. Certo, le emergenze ecclesiali in Emilia-Romagna sono tante: dalla scarsità di clero ai bilanci in rosso; dalle chiese sempre più vuote alla perdita di credibilità sociale. Ma proprio per questo…
Papa Francesco, al convegno di Firenze, ha chiesto alla Chiesa italiana di abitare le trasformazioni del mondo e di vivere le debolezze della nostra Chiesa con un coraggioso cambio di paradigma. Diventare una Chiesa in uscita vuol dire prendere su di sé le contraddizioni di un popolo che sta smarrendo la direzione e il perché del proprio cammino. Per questo, ultimamente nelle diocesi emiliane si parla molto di criticità: dei giovani, delle famiglie, dei preti, dei migranti, dell’islam, di internet. Pur con l’eccezione della piccola diocesi di Faenza, non mi risulta che sia tema frequente, nelle assemblee programmatiche o nei percorsi formativi, il fermarsi a capire come stanno cambiando l’economia e il sentimento della legalità, la politica e la passione per la partecipazione democratica. Mai come in questi ultimi anni, in Emilia-Romagna la fede e la politica stanno conducendo vite parallele.
Un’intera fetta della vita pubblica emiliana rischia di passare inosservata agli occhi dei cattolici e di non essere considerata terreno propizio per la testimonianza evangelica, né luogo in cui costruire un’etica condivisa. Non si può spiegare questa mancanza di attenzione e di sensibilità con il solito ritornello: “è l’onda lunga di Porta Pia e del Non expedit”. I cattolici emiliano-romagnoli – sia i fedeli che i pastori – il senso dello Stato oggi ce l’hanno eccome, ma…
Perché non parli?
Siamo davanti a un ritardo culturale, che purtroppo accomuna i cattolici ad altre tradizioni democratiche italiane. È come se il nostro orologio etico si fosse fermato al 1989: caduta del muro di Berlino, fine delle ideologie e della guerra fredda, sospiro di sollievo, possiamo goderci la vita. Salvo poi scoprire che ci sono altri muri, altre ideologie e altre guerre, e che non c’è sollievo in una vita di corsa, dove sei costretto a desiderare ciò che non puoi avere. Sempre più insieme e sempre più soli. Molti finiscono per pensare: “meglio tirare i remi in barca e cercare qualche capro espiatorio per lenire la rabbia”. Il vangelo diventa un analgesico, da prendere a piccole dosi, facendo già uso di ansiolitici… (Facebook e Instagram sono i più diffusi).
Senza accorgercene, ci stiamo indebolendo mentalmente fino al punto da non avere più la forza di reagire di fronte a qualunque barbarie. E si rischia di lasciare via libera all’occupazione mafiosa: l’unica vera invasione che la terra emiliana abbia conosciuto negli ultimi settant’anni.
Historia magistra vitae
La storia recente del nostro Paese è costellata di cattolici che, di fronte all’illegalità e alla sistematica violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e partecipazione, non hanno abbandonato la lotta. Sono rimasti fedelmente al loro posto di fianco alla gente più vessata e sono stati sentinelle per una collettività sonnacchiosa e indolenzita. Molti di loro hanno pagato di persona. Non solo magistrati e poliziotti, ma amministratori pubblici e funzionari, professionisti e impiegati, preti e attivisti politici.
Ciò di cui oggi si sente un disperato bisogno nelle Chiese dell’Emilia-Romagna è custodire la memoria di questi martiri; riprendere in mano la loro scelta per il vangelo e per l’umanità; accendere i cuori all’ideale che è ancora possibile prendersi cura della nostra terra e di chi la abita. Non è un affare riservato a scalmanati e sognatori.
Un grido afono di speranza
Il processo Aemilia ci parla della tenacia dello Stato, della magistratura e degli inquirenti. Ma grida soprattutto la forza di un popolo, che sì ha perso la voce, ma non ancora la speranza. E di questa speranza che non si perde, i cristiani sono i principali esperti mondiali.
Dal processo Aemilia viene così un appello a Chiese e cattolici ancora troppo ripiegati su di sé: diamo corpo alla nostra voglia di politica e cerchiamo dei sinceri compagni di strada, senza ascoltare le nostre molteplici frustrazioni. La vita insegna che si vince solo soffrendo. È lo stesso messaggio che riceviamo dalla Croce.¹
¹ Paolo Boschini è docente di Filosofia politica presso la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna. Il suo indirizzo e-mail: paolo.boschini@fter.it