II Avvento: Una voce nel deserto

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Insieme alla Vergine Maria, anche Giovanni Battista accompagna i credenti a incamminarsi spediti incontro a Colui che viene, è venuto e verrà al termine della storia.

Lo sguardo si aguzza. Gesù, lo strumento concreto della salvezza, è già stato inviato alle genti (cf. At 28,28), viene raddrizzando la sua strada, l’“autostrada dei re”. Verrà a spianare l’orgoglio degli uomini, a colmare i vuoti dei cuori, ad alzare gli occhi degli sconfitti e degli impoveriti. La nostra cittadinanza è nei cieli (cf. Fil 3,20). Ecco qua il certificato. Venite tutti, non state a casa vostra.

Baruc il misterioso

La tradizione conosce questo libro scritto in greco con il nome di Libro di Baruc, o di Primo libro di Baruc.

Bar 1,1.3 introduce “Baruc/gr. Barouch (ebr. Bārûk)” – abbreviazione di dell’ebraico “Berekyāhû/YHWH ha benedetto” (cf. Zc 1,7 il padre del profeta Zaccaria; cf. 1Cr 6,24; 15,17; 2Cr 28,12) – come il protagonista che a Babilonia scrive e legge un documento agli israeliti lì esiliati.

In Bar 1,8 egli raccoglie il corredo del tempio e lo invia a Gerusalemme unitamente a una lettera in cui era incluso anche il documento letto a Babilonia.

A livello storico, Baruc è conosciuto come il segretario del profeta Geremia. In Ger 32 riceve e custodisce il contratto di compravendita del campo; in Ger 36 scrive sotto dettatura di Geremia una raccolta di oracoli e poi li legge pubblicamente, mentre Geremia si trova in stato di arresto. Ger 43 lo mostra mentre, insieme a Geremia, è incamminato verso l’Egitto, rifugio verso il quale i capi delle bande armate e Giovanni figlio di Karèach lo hanno costretto a fuggire. In Ger 45,5 viene riportato che il profeta Geremia preannuncia a Baruc: «E tu vai cercando grandi cose per te? Non cercarle, poiché io manderò la sventura su ogni uomo. Oracolo del Signore. A te farò dono della tua vita come bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai».

Di qui nasce la leggenda. Per alcuni, Baruc seguì il suo maestro in Egitto e rimase con lui fino alla fine. Altri lo vogliono esule a Babilonia. Ger 45,5 lascia a Baruc lo spazio per itinerari diversi su cui muoversi.

Il libro di Baruc

La figura prestigiosa di Baruc, sfuocata nella conclusione della sua vicenda storica, favorì il fatto che, nei secoli successivi, si attribuisse a lui brani di tradizioni scollegate fra loro, proponendole al pubblico sotto il suo nome prestigioso. Babilonia diventava simbolo della diaspora in cui si trovava il popolo di Israele.

Il testo di Baruc presente nella Bibbia cristiana è un libro deuterocanonico, entrato cioè solo in un secondo momento a far parte della lista canonica, normativa, dei libri accettato dalla Chiesa. È scritto in greco, ma potrebbe aver avuto un’edizione originale in ebraico. Il suo greco è fortemente semitizzante.

La versione greca della Bibbia ebraica denominata Settanta (in sigla LXX) lo colloca dopo il libro di Geremia e prima del libro delle Lamentazioni. Si compone di cinque capitoli (Bar 1,1–5,9). Dopo le Lamentazioni (in greco Thrēnoi) (Lam 1,1–5,22), la LXX riporta la Lettera di Geremia (Epistolē Ieremiou), composta di 72 versetti.

La versione latina della Bibbia ebraica, denominata Vulgata, include la Lettera di Geremia nel libro di Baruc, quale suo capitolo 6, fornendogli un titolo speciale. Nelle Bibbie latine fu unita a Bar 1–5 a partire dal XIII secolo, con un titolo speciale che recita: «Copia della lettera che Geremia mandò a coloro che stavano per essere condotti prigionieri a Babilonia dal re dei babilonesi, per annunciare loro quanto era stato ordinato a lui da Dio».

La Bibbia cattolica, quindi anche la traduzione CEI 2008, recepisce l’ordine della Nova Vulgata che, per ordine di Paolo VI, dopo il concilio Vaticano II ha rivisto la Vulgata di Girolamo con maggior attenzione ai testi originali. In essa il libro di Baruc è composto di sei capitoli: Baruc 1,1–5,9, a cui segue immediatamente come c. 6 la Lettera di Geremia, composta di 72 versetti.

Il libro di Baruc è una raccolta di brani eterogenei collegati insieme da un autore che probabilmente fu attivo tra il I e il II a.C. La parte del leone la fa il genere letterario della “confessione dei peccati”, nato a partire dall’esilio (cf. Esd 7 e Ne 9).

Pentimento e salvezza

Il contenuto del libro può essere delineato nel modo seguente. Dopo l’introduzione, «in primo luogo, il popolo confessa i suoi peccati, riconoscendo che Dio ha agito giustamente nell’esiliarli; esso si pente, chiede perdono e salvezza. Poi Dio gli indica il cammino verso l’emendamento, che è quello della vera sapienza. Infine, un profeta annuncia la liberazione imminente, che il popolo e Gerusalemme sperimenteranno con gioia» […]. Nel libro di Baruc possiamo intravedere «la confluenza di tre o quattro grandi correnti letterarie: quella liturgica, rappresentata nell’orazione penitenziale; quella deuteronomica, intrecciata con quella sapienziale di stile parenetico; quella profetica della famiglia escatologica. Attribuendo il libro a Baruc, l’autore o il compilatore pare offrire il libro nella chiave di un testo profetico» (L. Alonso Schökel).

Secondo il grande esegeta spagnolo, nel libro di Baruc può essere rinvenuta una struttura così configurabile: 1,1-4 Introduzione; 1,15–3,8 Orazione penitenziale (1,15–2,10 Prima parte: Confessiamo il peccato; 2,11-19 Seconda parte: Chiediamo perdono; 2,20-35 Terza parte: Confessiamo il peccato; 3,1-8 Quarta parte: Chiediamo perdono); 3,9–4,4 Esortazione alla sapienza; 4,5–5,9 Il ritorno annunciato.

Rivèstiti dello splendore della gloria del Signore

A Gerusalemme devastata – e quindi anche alla Gerusalemme che vive la diaspora dei suoi figli dal postesilio fino al tempo ellenistico – Baruc indirizza un confortante messaggio di restaurazione. Gerusalemme deve compiere un’azione di toeletta che la rivesta e la incoroni di gloria donatale da Dio.

Il profeta le rivolge un invito pressante a “svestirsi/ekdysai” della veste del lutto e della “malvagità/afflizione/kakōseōs”. L’imperativo aoristo medio esprime il comando di compiere proprio e solo l’azione indicata, con sfumatura ingressivo/incoativa = “inizia a”. Cambiare vestito nel libro di Giuditta segna l’inizio della liberazione (cf. Gdt 10,3; cf. anche Is 52,1; 61,3.10). Gerusalemme aveva detto di aver svestito la veste della pace e di aver rivestito il cilicio della supplice (Bar 4,20). Baruc rivela che la vera veste di cui deve spogliarsi è quella sì del lutto e dell’afflizione, ma dovuta alla “malvagità/kakōseōs”. Operazione di verità che il profeta compie con correttezza e coraggio.

Il profeta comanda di “rivestirsi/endysai” dello splendore della gloria di Dio proveniente da Dio come dono perpetuo. La “gloria” divina si rivela esse un “doppio manto/diploida” di giustizia (cf. Ger 23,6: in un oracolo di salvezza Dio porta il titolo di «Signore nostra giustizia»). «Dio conferisce la giustizia a Gerusalemme, che si può intendere come una riabilitazione, il suo trionfo in un giudizio di fronte al nemico, il suo ristabilimento nei diritti precedenti (quelli di Dt 6,25)» (Alonso Schökel). La “giustizia” donata da YHWH non è il potere politico o militare, ma sarà lo splendore di Gerusalemme di fronte alle nazioni (cf. Dt 4,6-8).

Nomi nuovi per Gerusalemme

Gerusalemme riceverà da YHWH altri due nomi nuovi, dopo i tanti con i quali è stata chiamata nella storia, in bene e in male. “Pace di giustizia/eirēnē tēs dikaiosynēs” e “Gloria di pietà/doxa theosebeia” si aggiungono ad altri nomi “positivi” ricevuti o preannunciati a Gerusalemme: «Città della giustizia», «Città fedele» (Is 1,26); «Città del Signore, Sion del Santo d’Israele» (Is 60,14); «Tu chiamerai salvezza le tue mura e gloria le tue porte» (Is 60,18); «… sarai chiamata con un nome nuovo, che la bocca del Signore indicherà. […] Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata […]. E tu sarai chiamata Ricercata, “Città non abbandonata”» (Is 62,2.4.12); il libro del profeta Ezechiele termina con i cc. 40–48 che prospettano una visione escatologica su Israele, il tempio e Gerusalemme stessa: «La città si chiamerà “Là è il Signore/YHWH šāmmāh”».

“Pace di giustizia” gioca con il nome tradizionale Yerûšālayim e con il titolo di “giustizia/ ṣedeq” dei suoi re, Adonì-Sedek (“’Ădōnîṣedeq/Il mio Dio [è] giustizia”, Gs 10,1.3) e Melchìsedek (“Malkî-ṣedeq/Il mio re [è] giustizia”, Gen 14,18). Giustizia esprime il rapporto pattizio buono con YHWH, il quale, da parte sua, è da sempre fedele al suo patto.

“Gloria di pietà” normalmente viene espresso in ebraico con yir’at YHWH, dove “il timore/pietà” allude all’ossequio religioso di un essere molto piccolo verso il Dio altissimo. «… la città rispetterà il suo Dio e questa sarà la sua gloria; essa promuoverà la giustizia tra gli uomini e da qui sgorgherà la pace» (Alonso Schökel).

I vari “nomi” di Gerusalemme, cioè la sua missione, attendono ancor oggi di veder realizzate le loro potenzialità. Questa realizzazione fa parte del progetto di Dio, e anche le sue componenti politico-sociali-culturali terrene – opera del credente e di ogni uomo di buona volontà – non sono costitutivamente indifferenti rispetto al loro compimento teologico-escatologico, che risiede solo nelle mente di Dio. All’uomo resta la preghiera e compiere tutto ciò che è possibile perché questo “sogno” di Dio e dell’umanità si realizzi al più presto, e Gerusalemme possa corrispondere nella sua realtà concreta alla grandezza dei “nomi” che ha ricevuto in dono.

Risorgi, Gerusalemme! Tornano i figli!

Gerusalemme, rimasta sola e “atterrata”, spogliata dell’abito della pace e rivestita di sacco (Bar 4,20), si lamenta nel vedere i suoi figli condotti da YHWH nella schiavitù dell’esilio (Bar 4,1-29) e «portati via come gregge rapito dal nemico» (4,26). Essa viene incoraggiata e consolata da una voce che le preannuncia il ritorno dei suoi figli riunti insieme (4,30-37, cf. v. 37). “Risorgi/Alzati/anastēthi”, proclama una voce a Gerusalemme (m. 765 s.l.m. dove sorgeva il tempio). Essa la invita a salire sull’altura e guardare verso oriente (v. 5).

Da ogni dove, da est e da ovest, stanno tornando tutti uniti i suoi figli, portati trionfalmente da Dio come su un trono regale. Sotto la gloria di Dio, Israele ritorna su un terreno riguardo al quale “YHWH ha dato ordine di abbassare ogni alta montagna /synetaxen gar ho theos tapeinousthai pan oros hypsēlon” e (le) dune secolari “e di riempire (le) valli per (il) livellamento della terra/kai pharangas plērousthai eis homalismon tēs gēs” (v. 7; per le stesse immagini di questi versetti cf. anche Is 40,3-4.5; 42,16; 41,19).

YHWH riconduce a casa Israele fra alberi odorosi e l’ombra rinfrescante delle selve. Si può camminare anche al fresco della notte, perché la luce è assicurata dalla gloria di YHWH, mentre compagne di ritorno sono “la gioia”, “la misericordia” e “la giustizia” che provengono solo da lui.

Molti ebrei in questi anni hanno compiuto l’aliyyah (“salita”, cioè il ritorno) in Israele e la “salita” a Gerusalemme, specialmente dai territori dell’ex Unione Sovietica.

Preghiamo e operiamo perché la città di Gerusalemme possa essere fonte di giustizia e di serena convivenza per i due popoli che la abitano e le tre religioni che la animano.

La pace sarà possibile e duratura solo se fondata sulla giustizia.

Pace e giustizia su di te, Gerusalemme!

Pace dal tuo Dio! Pace su Israele! (Sal 125,5; 128,6).

I “potenti”…

Il quadro politico-istituzionale-religioso creato dall’evangelista Luca è perfetto (Lc 3,1-2). Il sincronismo è oliato al millesimo di secondo. Possiamo integrare il setting con altri dati, sempre utili da tenere presenti nella lettura del Nuovo Testamento.

Il potere politico-militare centrale: Roma

L’imperatore Tiberio regna dal 19 agosto del 14 d.C. fino al giorno della sua morte, il 16 marzo 37 d.C. Il quindicesimo anno del suo impero va quindi dal 19 agosto del 28 d.C. al 18 agosto del 29, oppure, secondo il modo di computare gli anni di regno in uso in Siria, dal settembre-ottobre del 27 al settembre-ottobre del 28 d.C.

Dal 26 al 36 d.C. Ponzio Pilato fu praefectus (gr. ēgemōn: Mt 27,2; cf. Lc 20,20) della prefettura di Giudea dipendente dalla provincia romana di Siria; essa comprendeva la Giudea che aveva dato il nome alla provincia, la Samaria e l’Idumea.

Ottaviano (27 a.C. – 14 d.C.) – che aveva ricevuto il titolo di Augustus il 16 gennaio del 27 a.C. – riconobbe il testamento di Erode il Grande (che regnò dal 37 al 4 a.C. ed ebbe dieci mogli), ma non concesse ad alcuno dei suoi figli il titolo di “re”.

Dopo Tiberio (14-37 d.C.), nel I secolo gli imperatori romani furono: Caligola (37-41), Claudio (41-54), Nerone (54-68), Galba (aprile 68), Ottone (gennaio 69, proclamato imperatore dai pretoriani) e Vitellio (69, proclamato imperatore dalle legioni della Germania), Vespasiano (69-79), Tito (79-81), Domiziano (81-96), Nerva (96-98), Traiano (98-117).

Il potere politico-militare locale: tetrarchi e prefetti/procuratori

Nel 4 a.C. Erode Antipa (figlio di Erode il Grande e di Maltace) fu nominato tetrarca (governatore cioè della quarta parte del regno) della parte centrale del regno di Erode il Grande, la Galilea, dove ricostruì la città di Sepphoris e fondò Tiberiade, e la Perea, al di là del Giordano, dove ricostruì Betaramphtha col nome di Liviade (in seguito ribattezzata Giuliade). Governò dal 4 a.C. al 39 d.C.

Il fratellastro Filippo (figlio di Erode il Grande e di Cleopatra gerosolimitana) fu nominato tetrarca dell’Iturea (una quarantina di chilometri a nord del lago di Genesaret), della Traconìtide (circa 80 chilometri a est del lago, oltre la Gaulanìtide e la Batanea). Governò dal 4 a.C. al 33/34 d.C. e alla sua morte la tetrarchia fu unita da Tiberio alla provincia romana di Siria.

Lisània (il Giovane) fu nominato tetrarca dell’Abilene (territorio circostante Damasco, a circa 100 chilometri a nord del lago di Genesaret).

Dopo la deposizione di Archelao, figlio di Erode il Grande e nominato etnarca di Giudea e Samaria (4 a.C. – 6 d.C.), la Giudea divenne una prefettura della provincia romana di Siria, comprendendo il territorio della Giudea, della Samaria e dell’Idumea. Fu affidata a un praefectus di Giudea, che aveva la sua sede a Cesarea Marittima e dipendeva dal legatus di Siria (con sede ad Antiochia di Siria).

Fino al 41 d.C. i prefetti furono: Coponio (6-9), Marco Ambivio (9-12), Annio Rufo (12-15), Valerio Grato (15-26), Ponzio Pilato (26-36; condannò a morte Gesù), Marcello (36-37), Marullo (37-41).

Seguì la parentesi del regno di Erode Agrippa I (41-44) su tutta la Palestina, compresa la Batanea. Egli era nipote diretto di Erode il Grande. Dal matrimonio con la seconda moglie, Mariamme I Asmonea, Erode il Grande ebbe infatti due figli (Alessandro e Aristobulo IV) e due figlie (Salampsio e Cipro III). Aristobulo IV a sua volta sposò Berenice figlia di Salomè che gli diede tre figli (Erode re di Calcide, Erode Agrippa I, Aristobulo) e due figlie (Erodiade e Mariamme).

Dopo il 44 d.C. le autorità romane responsabili della prefettura di Giudea furono chiamati procuratori. Essi furono: Cuspio Fado (44-46), Tiberio Alessandro (46-48), Ventidio Cumano (48-52), Antonio Felice (52-60; o forse 52-55?: a Cesarea Marittima ascoltò Paolo in giudizio e lo custodì in carcere [At 23,23–24,27]), Porcio Festo (61-62; o forse 55-62?: a Cesare Marittima ascoltò in giudizio la difesa di Paolo che, alla fine, si appellò a Cesare [At 25,11b; cf. At 25,1-13]; fece ascoltare l’apologia di Paolo al re Erode Agrippa II in visita di cortesia a Cesarea Marittima [48-95; cf. At 25,13 – 26,32]; custodì Paolo in carcere e, infine, lo inviò a Roma), Albino (62-64) e Gessio Floro (64-66), sotto cui scoppiò la prima rivolta giudaica (66-70), conclusasi con la distruzione di Gerusalemme e del tempio (70) e la presa della fortezza di Masada (73).

Il potere religioso a Gerusalemme: i sommi sacerdoti

Lo storico ebreo Flavio Giuseppe, nella sua opera Le Antichità Giudaiche ricorda che anche i Romani seguirono la scelta di Erode il Grande di non nominare i sommi sacerdoti prendendoli dalla stirpe degli Asmonei. Nello stesso passo egli ricorda: «Dopo la morte di questi re [= Erode e Archelao], la costituzione divenne aristocratica e i sommi sacerdoti erano designati alla guida della nazione» (Ant. XX,10). La carica di sommo sacerdote durava un anno, ma non mancavano stratagemmi per comprarla o prolungarla con l’esborso di opportune “bustarelle”. L’insegnamento del sommo sacerdote non poteva essere contraddetto.

Il sommo sacerdote Anna (o Anania o Anano [il Vecchio]; gr. Annas, dall’ebr. Ḥănanyāh, abbreviazione di Ḥănanyāhû dal verbo “ḥānan/fare grazia”, “YHWH ha fatto grazia/ha avuto pietà”), fu un vero boss del culto. Assunse la carica nel 6 d.C. e la tenne fino al 15 d.C., quando venne deposto dall’autorità romana, nella persona del prefetto romano Valerio Grato (15-26 d.C.). Anche dopo la sua deposizione mantenne, tuttavia, una grande influenza (cf. Gv 18,2s.24). In At 4,6 gli viene attribuito ancora il titolo, non per errore, ma seguendo l’uso e il giudizio dell’opinione pubblica palestinese. “Sommi sacerdoti” era anche un titolo generico per indicare gli appartenenti alle famiglie sommo-sacerdotali.

Anna riuscì a “mettere in cattedra” di sommo sacerdote cinque figli e un genero. Di lui Flavio Giuseppe dice: «Del vecchio Anano si dice che fu estremamente felice; poiché ebbe cinque figli e tutti, dopo di lui, godettero di quell’ufficio per un lungo periodo, divenendo sommi sacerdoti di Dio; un fatto che non accadde mai ad alcuno dei nostri sommi sacerdoti» (Ant. XX, 9,1[198]).

Dopo Anna, assunsero la carica Ismaele I figlio di Fiabi (15-16 d.C.), Eleazar figlio di Anna (16-17 d.C.), Simeone figlio di Kamit (17-18) e infine Giuseppe soprannominato Caifa, genero di Anna (Gv 18,13). Il nome Giuseppe viene ricordato da Flavio Giuseppe. Il significato del soprannome “Caifa” è discusso: “il sagace”, oppure “l’oppressore” o collegato con l’aramaico “kēpā’/roccia”. Governa dal 18 al 37 d.C. Gv 18,13 ricorda che Anna era suo suocero. Su Caifa si può vedere Mt 26,3.57; Gv 11,49 (importante “profezia” circa l’opportunità “politica” – secondo lui – dell’uccisione di Gesù; Gv 12,50 ne darà l’interpretazione teologica); 18,13.14.24.28.

Giuseppe soprannominato Caifa restò in carica molto a lungo, dal 18 al 37 d.C. Segno di una buona capacità di “barcamenarsi” con il potere politico-militare di Ponzio Pilato, anch’egli prefetto romano per un lungo periodo (26-36 d.C.).

Dopo il genero Giuseppe soprannominato Caifa, il potente boss Anna “mise in cattedra” l’altro figlio Gionata (da Pasqua a Pentecoste del 37 d.C.) e dopo di lui un altro figlio, Teofilo (37-41 d.C.). Dopo Simeone Kantéras figlio di Boethos (governò a partire dal 41 d.C.), fu la volta di un altro figlio di Anna, Mattia (intorno al 43?). Dopo Elionaio figlio di Kantéras, ricevettero la carica Giuseppe figlio di Kami e Anania figlio di Nebedeo (dal 47 fino almeno al 55 d.C.; secondo lo studioso Meier governò dal 47 al 59; fu colui che processò Paolo a Gerusalemme, facendolo percuotere sulla bocca: cf. At 23,2).

In seguito, divenne sommo sacerdote Ismaele II figlio di Fiabi (59[?]-61 d.C.) e, infine, il quinto figlio di Anna, Anano “il Giovane”. Questi restò in carica pochi mesi del 62 d.C. e, nel “vuoto” venutosi a creare fra la conclusione del servizio del procuratore Felice e l’arrivo in sede del nuovo procuratore Festo, ebbe il tempo sufficiente per cogliere l’occasione: far uccidere Giacomo il Minore. Fatto che gli costò la deposizione da sommo sacerdote.

La Parola nel deserto

Nella scenografia dominata dai “potenti” stride la scelta della parola di Dio di “di-venire sopra/egeneto… epi” Giovanni il figlio di Zaccaria, nel deserto. Fu come il dolce posarsi della colomba dello Spirito (cf. Gv 1,32).

La Parola non sceglie i palazzi dei potenti della politica, dell’ambiente militare e di quello religioso “ufficiale” e politically correct. Spazi vuoti, ovattati del silenzio assordante della violenza e del sopruso, dell’ambiguità collaborazionista e dell’esteriorismo autogratificante. Ambienti pieni di potere, vuoti di umanità e chiusi all’ascolto della “voce di sottile silenzio” (cf. 1Re 19,12).

La parola di Dio “di-venne” invece nel deserto. Spazio “vuoto-pieno” del silenzio esteriore della natura e in quello interiore dell’anima. Spazio bio, essenziale, incontaminato. Spazio aperto, dove la terra tocca il Cielo. Spazio di povertà e di appello, non di ricchezza e di autosufficienza.

Giovanni, il figlio del sacerdote di basso lignaggio Zaccaria, che lavorava nel tempio di Gerusalemme solo due settimane all’anno, aveva fatto una scelta radicale di vita. Via dal tempio, assordante nel suo clamore di voci attaccate ai soldi, sovrastate dai muggiti e dai belati degli animali sgozzati, assorbite dall’indirizzare al mattatoio o all’inceneritore giusto le offerte dei pellegrini ebrei e anche pagani. Difficile in quell’ambiente sentire qualcosa che venisse dal “cielo”, dal mondo di YHWH.

Mar Morto

Giovanni si era probabilmente affinato nella propria spiritualità frequentando per un certo periodo la comunità essena che abitava nel sito di Qumran, posto sulle falesie che degradano verso la sponda nord-occidentale del Mar Morto, da cui distava circa 4 chilometri. In epoca ellenistica esso era chiamato Lago l’Asfaltide, ovvero lago dell’asfalto per la densità delle sue acque e per i fenomeni di distacco di tale materiale dai suoi fondali.

La Bibbia, invece, lo cita come Mar Salato, mare del Deserto, mare dell’Araba e mare [o lago] della Pianura, lago Salso, lago Orientale.

Tra i viaggiatori e cartografi arabi del Medioevo si diffonderà anche la denominazione di Bahr el Muntinah e cioè mare Pestilenziale (o Fetente), e Bahr-Lut (mare [o lago] di Lot), mare di Sodoma, mare [o lago] di Zoar e dai turchi ottomani Ulu degniz, cioè Mar Morto. Data l’alta salinità delle acque non vi è possibile alcuna forma di vita.

Una curiosità. Nell’ottobre 2018 il fotoreporter israeliano Noam Bedin, fotografo del progetto Dead Sea Revival Project, avrebbe infatti immortalato dei pesci nuotare nel Mar Morto.
Una circostanza che – secondo molti – sarebbe oscuro presagio di una profezia biblica, raccolta da Ezechiele, per cui al ritorno della vita in quell’area sarebbe corrisposta la fine del mondo. «Il Mar Morto è tutt’altro che morto. È l’ottava meraviglia del mondo», ha detto Bedin alla stampa.

Battesimo di conversione

L’evangelista Luca ci presenta Giovanni ormai predicatore autonomo, solitario, che non vive più in comunità e che si presenta come un banditore (ēlthen… kēryssōn), percorrendo tutta la regione attraversata dal fiume Giordano, arrivando a nord fino ad Ennon (gr. ainōn, da una forma plurale dell’ebr. ‘ayin “occhio/fonte”), vicino a Salìm, luogo ricco di acque (cf. Gv 3,23), situato a circa 35 chilometri a sud del Lago di Genesaret e a circa 75 chilometri a nord del Mar Morto.

Attorno a sé anima un movimento penitenziale, a cui accorre una moltitudine variegata di persone da tutta la regione: folle (v.7-11), esattori delle tasse e peccatori pubblici (v. 12), gli “ingaggiati per combattere” (vv. 13-14) e “tutto il popolo (d’Israele)/hapanta ton laon” (v. 21).

Giovanni annuncia come un banditore “un’immersione penitenziale [che sia occasione ai singoli di esprimere il proposito fermo di penitenza/pentimento] in vista di una conversione/cambiamento di mentalità/baptisma metanoias” (v. 3). Non più un battesimo rituale computo più volte al giorno a Qumran, in vista di una purità cultuale, ma un atto singolo che vuole esser segno esterno della volontà di intraprendere un profondo cambiamento esistenziale (mentalità e atteggiamenti concreti). YHWH avrebbe “perdonato i peccati/i bersagli mancati/eis aphesin ‘hamartiōn)”.

Voce che grida nel deserto

L’evangelista Luca interpreta la persona e la predicazione penitenziale di Giovanni (il Predicatore di un battesimo) alla luce dell’oracolo di Is 40,3-5, pronunciato con ogni probabilità nel periodo immediatamente precedente al ritorno dall’esilio babilonese (565 a.C.?). Luca cita l’oracolo adattandolo al suo contesto con qualche leggera modifica, omissione e integrazione.

Giovanni è una voce che nel deserto grida alla gente di iniziare a “preparare/etoimasate” la strada del Signore (imper. aor. ingressivo: iniziare a fare quella sola azione specifica, e non un’altra) e a rendere diritte le sue vie. Il compito qui spetta agli ascoltatori. La strada è già del Signore che viene incontro al suo popolo, ma è nello stesso tempo una strada che va preparata al Signore togliendo gli ostacoli che possano impedire la sua marcia veloce. È una “strada” che fa pensare all’“autostrada dei re”, che, come allora, anche oggi collega sul limitare del deserto giordano Damasco (e anche oltre, verso nord-est) al porto di Aqaba sul mar Rosso. In Is 41,3TM si parla invece chiaramente di raddrizzare la “strada/derek” di YHWH e di rendere diritta la “strada per il nostro Dio/mesillāh lē’lōênû”.

Seguono due passivi divini, in cui il protagonista sembra essere il Signore in persona. Ogni valle “sarà riempita/plērōthēsetai)” e ogni montagna e collina “saranno abbassate/umiliate/tapenōthēsetai”. “Mancanze” dovute ai fallimenti di bersaglio/peccati saranno riempite dal Signore e ogni montagna e collina d’orgoglio autosufficiente sarà abbassato/umiliato a più miti consigli.

Le vie tortuose del cuore dell’uomo peccatore che segue i propri cammini diventeranno diritte (sempre per merito del Signore?) e quelle impervie e scoscese (tracheia) per la superbia infeconda e accidentata, priva delle realtà più care, arrogante, aspra, diventeranno strade spianate (leias). Nella LXX si possono confrontare i passi in cui compare tracheia: in Dt 21,4 valli non adatte al pascolo e al lavoro; 2Sa, 17,8 Saul è come un’orsa privata dei figli nella campagna/pianura; Sir 4,29 «non essere arrogante nel tuo linguaggio»; Ger 2,25 trattieni i tuoi piedi dalla via impervia/aspra; Bar 4,26 i miei bambini andarono per vie aspre; cf. leios/a/on nella LXX: 1Sam 17,40; Gen 27,11 e Pr 2,20; 4Mac 8,2; Pr 12,13a chi osserva cose rette troverà misericordia).

To sōtērion

Apice del lavorio di YHWH (e anche dell’uomo) annunciato da Giovanni il Predicatore battezzante: “ogni carne/uomo” vedrà “la salvezza fatta concreta/lo strumento concreto di salvezza/to sōtērion” di Dio. Il termine to sōtērion ricorre solo come grande inclusione del Doppelwerk lucano (Lc – At) in Lc 2,30; 3,6 e At 28,28, poi solo in Ef 6,17.

All’inizio del Vangelo di Luca il vecchio santo Simeone aveva visto to sotērion del Signore nel tempio di Gerusalemme stringendo fra le braccia il bambino Gesù.

Alla fine del libro degli Atti, ai giudei che se andavano dopo aver discusso con lui sulle Scritture nella sua abitazione che gli fungeva da custodia militaris a Roma, Paolo annuncia con amarezza, ma senza mai escludere la speranza: «Sia dunque noto a voi che questa salvezza concreata/strumento concreto di salvezza di Dio/touto to sōtērion tou theou” fu inviata [con la venuta di Gesù!] alle nazioni/ethnē” (neutro plurale) ed essi/autoi” (maschile plurale: gli uomini presi singolarmente) ascolteranno!» (At 28,28).

L’evangelista Luca ha un largo respiro universalistico: tutti gli uomini, fatti di carne fragile ma preziosa (pasa sarx, Lc 3,6)), vedranno, cioè, semiticamente parlando, “avranno parte” alla salvezza concreta di Dio (manifestata in Gesù: At 28,28 fu inviata).

La voce grida dal deserto di Giuda.

È la voce del profeta Baruc, è il grido del profeta Giovanni il Predicatore battezzante.

Viene to sōtērion, la salvezza fatta carne in Gesù.

Il futuro si apre.

Futuro prossimo, a Betlemme.

Futuro assoluto, ricapitolati nel seno dell’Uno (cf. Gv 17,21.24).

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