L’autore, nato a Napoli nel 1938, ha insegnato storia della Chiesa antica all’Università Federico II di Napoli fino al 2003. Da decenni egli indaga sulla figura storica di Gesù e il volume in segnalazione raccoglie i risultati di una vita di ricerca e di confronto con storici, esegeti, teologi e studiosi di antropologia culturale. È membro della Studiorum Novi Testamenti Societas, dell’Associazione biblica italiana e dell’Associazione italiana per lo studio del giudaismo; fa parte del comitato di redazione di Rivista biblica ed è stato varie volte relatore ai convegni dei biblisti italiani.
Jossa persegue «una ricerca storiografica e non soltanto esegetica e teologica, una ricerca quindi anche assolutamente non confessionale» (p. 325). Egli è convinto che sia possibile, pur fra mille difficoltà, scrivere una storia di Gesù (cf. Introduzione, «È veramente impossibile scrivere una storia di Gesù?», pp. 17-37). Non una biografia completa, ma un filo che colleghi i vari momenti della sua vita, situando la sua persona nell’ambiente storico-sociale-geografico della Palestina del I secolo.
Il delineamento di uno schizzo della sua persona e della sua attività richiede un approccio alle fonti che tenga strettamente uniti i criteri di attendibilità storica dei testi evangelici, senza indulgere a un’immediata e indebita sovrapposizione fra pronunciamenti teologici e fatti riferiti nei vangeli e la loro effettività storicità.
Ciò su cui si fonda il lavoro dello storico è l’insieme dei criteri convergenti: discontinuità, continuità, criterio dell’imbarazzo, molteplice attestazione e coerenza con il resto della predicazione e dell’azione di Gesù (cf. Introduzione, «Le fonti e i criteri per una ricerca storica su Gesù», pp. 38-55).
Negletto per secoli, Jossa reputa invece che il Vangelo di Marco sia attendibile storicamente per ricostruire la trama complessiva dell’attività e della predicazione di Gesù, in quanto meno influenzato dalla rielaborazione teologica più o meno accentuata invece in Mt, Lc e Gv. Una «ricostruzione della vicenda e della predicazione di Gesù senza l’ausilio di questa fede è, nelle sue linee generali, ancora possibile» (G. Jossa, “A confronto con Romano Penna”, in RivB LXIII[2015], 223-230, qui 227).
Un lavoro previo importante è quello di delineare la cornice geografica e cronologica della vicenda di Gesù (cf. Introduzione, «La cornice geografica e cronologica della vicenda di Gesù», pp. 56-70).
Jossa è dell’idea che il ministero pubblico di Gesù sia stato molto breve, poco più di un anno e mezzo. La filigrana narrativa di Marco è da preferire senz’altro. Essa ricorda un’unica salita di Gesù a Gerusalemme per la Pasqua. Ciò è preferibile alla ricostruzione più “teologica” di Giovanni, nella quale le tre salite di Gesù e il suo frequentare le feste a Gerusalemme intende far “passare” il tema teologico di Gesù quale compimento escatologico di quelle festività. L’episodio della purificazione del tempio è stato un evento relativamente circoscritto, certamente non accaduto all’inizio della sua attività (come invece lo descrive Giovanni). Il collegamento al suo significato messianico tramite le parole sulla distruzione e riedificazione del tempio sono successive e dovute alla rielaborazione della comunità primitiva.
L’esame de «La Palestina al tempo di Gesù» (c. 1, pp. 71-100) permette di ricostruire le strutture politiche e religiose del tempo, con il regime di occupazione romana e con la multiforme presenza di correnti religiose nell’ambito del giudaismo variegato (e non monolitico) del tempo. La Galilea “pagana” ed ellenizzata è un mito. La spiritualità ebraica vissuta in Galilea era più collegata alla sinagoga, alla lettura della Scrittura e alla preghiera che non al culto sacrificale. I galilei vivevano una credenza giudaica mista ad una certa lontananza e sfiducia nei confronti delle guide religiose centrali. «E nonostante troppo spesso si affermi il contrario, la scarsa presenza di autorità religiose (sommi sacerdoti e capi dei farisei) e la lontananza di quelle politiche (governatori e militari romani, sovrano e funzionari erodiani) consente [sic!, nota mia] generalmente nei villaggi in cui opera Gesù, una più tranquilla vita quotidiana, meno segnata da conflitti e tensioni (pp. 75-76).
I gruppi sociali sono costituiti innanzitutto dalla classe dominante composta dalla ristretta aristocrazia fatta di grossi commercianti e proprietari terrieri legati alla famiglia erodiana, ma aperta, in varia misura, anche alla cultura greca e al potere romano. Oltre ai ceti medi, non molto numerosi, c’era «il popolo della terra», posto appena sopra la soglia della povertà: piccoli artigiani, contadini, pescatori, poco influenzati dalla cultura greca e senza alcun potere politico.
A livello religioso si possono distinguere i sadducei, i farisei, gli esseni e gli appartenenti alla «quarta scuola» menzionata da Flavio Giuseppe. Interpreti radicali del primo comandamento, per loro è impossibile accettare sovrani stranieri, che vanno combattuti insieme a ogni forma di collaborazionismo politico, col rifiuto di pagare le tasse. Vicini alla spiritualità dei farisei, furono erroneamente confusi con il movimento di liberazione della Palestina, sua volta genericamente definito movimento zelota (gli zeloti sono un gruppo particolare di ribelli della rivolta giudaica del 66). Successori radicali di Giuda il Galileo (nato di per sé a Gamala, nella Gaulanitide), attivo al tempo del censimento del 6 d.C., furono invece i sicari. L’opposizione radicale a Roma portò alla rivolta del 66 d.C., alla distruzione del tempio di Gerusalemme e al tragico episodio di Masada (73 d.C.).
Gesù non è mai appartenuto ad alcuno di questi gruppi, pur avendo qualche elemento generico in comune con gli esseni (ma per lo più totalmente opposto a loro). Qualcuno ipotizza un’influenza della «quarta scuola» e dei rapporti con i farisei, che però devono aver avuto forti riserve e critiche per l’atteggiamento di Gesù nei confronti della Legge. Probabilmente egli fu invece influenzato dal movimento penitenziale di Giovanni Battista.
Secondo Jossa, «Gesù aderisce al movimento penitenziale di Giovanni nel deserto della Giudea» (c. 2, pp. 101-120), forse condividendo la predicazione del Battista. Il periodo non durò a lungo e Gesù fece poi una scelta diversa. «Gesù torna in Galilea e annuncia la venuta imminente del regno di Dio» (c. 3, pp. 121-137).
Un’altra tesi innovativa di Jossa (oltre all’attendibilità storica del Vangelo di Marco, menzionata insieme alle altre in “A confronto con Romano Penna”, in RivB LXIII[2015], 223-230) è che, all’inizio della sua attività, Gesù abbia annunciato la venuta imminente del Regno, inteso da lui come concreto, umano, storico. Mc 9,1 è quasi certamente da attribuire a Gesù, a differenza di Mt 10,23 e Mc 13,30 (cf. una prima dimostrazione in G. Jossa, “Gesù aspettava veramente la venuta imminente del regno di Dio?”, in RivB LXIII[2015], 533-547).
La frattura netta tra Gesù e Giovanni Battista (seconda tesi innovativa, cf. “A confronto con Romano Penna”, 227-228) porterà Gesù ad annunciare il Regno con modalità diverse dal Battista e con una connotazione concreta, umana, imminente.
L’attività di Gesù si svolse praticamente nella sua totalità in Galilea e solo alla fine si situò a Gerusalemme.
I titoli dei capitoli successivi danno l’idea dell’articolazione del lavoro di Jossa, evidenziando lo sviluppo e i cambiamenti del pensiero nella coscienza di Gesù (novità non ancora accettate in Italia, secondo Jossa). «Gesù promette ai dodici che governeranno con lui sul popolo di Israele» (c. 4, pp. 138-160), “Gesù compie “opere straordinarie” e afferma la presenza già operante del regno di Dio» (c. 5, pp. 161-194), «Gesù prende posizione nei confronti dell’osservanza della legge mosaica» (c. 6, pp. 195-226). «Gesù manifesta la sua pretesa regale e messianica agli abitanti di Gerusalemme» (c. 7, pp. 227-255), «Gesù riprende la predicazione di Giovanni e annuncia la venuta del Figlio dell’uomo» (c. 8, 255-285).
Jossa sottolinea, con due tesi a suo dire innovative per l’ambiente italiano, che solo a Gerusalemme Gesù abbia cominciato a fare i conti con una sua morte violenta e che solo dopo aver maturato questa convinzione ha cominciato a parlare del Figlio dell’uomo (cf. “A confronto con Romano Penna”, 228-230).
A Gerusalemme «Gesù assume la sua morte nella sua missione» (c. 9, pp. 285-302). Circa la datazione dell’Ultima cena, Jossa ricorda che, per i sinottici, «si tratta evidentemente della cena pasquale del 14 di Nisan. Ma secondo il Vangelo di Giovanni […] la cena della sera prima, che era stata una cena di addio, non era stata la cena di pasqua […]. Una conclusione certa è impossibile. E anch’io non penso quindi di poterla dare. Ma, una volta esclusi tutti i tentativi di mettere d’accordo le due diverse tradizioni dei sinottici e di Giovanni (anche l’ipotesi di A. Jaubert, che Gesù seguisse non il calendario ufficiale (farisaico) ma, come gli esseni, l’antico calendario sacerdotale, e i vangeli, sinottici e Giovanni, facciano riferimento ai due diversi calendari, benché accolta da un buon numero di studiosi, è a mio parere priva di fondamento. Gesù non soltanto non era un esseno, ma non ha nulla di settario. La tradizione lo vede partecipare senza problemi al culto ufficiale. E non c’è nulla nei vangeli che suggerisca tale soluzione), le maggiori probabilità sono dalla parte della datazione di Giovanni» (pp. 287-288).
Una riunione dei membri del sinedrio per giudicare Gesù, di qualunque natura essa fosse, «la notte stessa della pasqua, in un giorno quindi festivo, sembra impossibile ammetterlo. Sarebbe avvenuta chiaramente in contrasto con la legge giudaica» (p. 288).
Jossa sostiene che «… è solo nel suo ultimo viaggio verso Gerusalemme, quello che per me è l’unico viaggio di Gesù a Gerusalemme, che, accanto alla speranza nell’avvento del regno di Dio, appare la consapevolezza di un possibile incombere della morte. Ed è solo perciò durante l’Ultima Cena che, rinviando l’avvento del regno a un momento più lontano, Gesù assume pienamente la morte nella sua missione, dandole un preciso valore salvifico» (“A confronto con Romano Penna”, 229).
«Sembra perciò più probabile che un’interpretazione della morte di Gesù in termini di espiazione vicaria (con riferimento al servo sofferente di Isaia?), come appare già in Mc 10,45 ([…] un testo anche questo di origine più probabilmente ellenistica, che non semitica […], dove il morire per gli altri viene interpretato come riscatto, lutron, e non è espresso più perciò con uper, ma proprio con anti), sia stata introdotta dalla comunità dei discepoli, e con ogni probabilità dalla componente ellenistica della comunità dei discepoli, che l’ha trasmessa a Paolo» (p. 301).
«Gesù è condannato a morte», è il titolo del capitolo 10 (pp. 303-324). Nella risposta al sommo sacerdote Caifa, ciò che fa problema è «quella parte della risposta di Gesù con cui egli, precisando, e modificando, l’immagine popolare del Messia davidico sottintesa evidentemente dalla domanda di Caifa, fa riferimento alla figura del Figlio dell’uomo “seduto alla destra della Potenza” e che dovrà “venire con le nuvole del cielo”: riferimento quindi all’esaltazione e al ritorno del Figlio dell’uomo […] La risposta di Gesù era blasfema in un senso più largo. Che un personaggio privo di qualunque aspetto glorioso e che non aveva realizzato nessuna delle attese messianiche dei giudei, portato dinanzi al sinedrio in veste di accusato, e abbandonato da tutti i suoi seguaci, potesse avere l’ardire di proclamarsi Messia e minacciare addirittura il sinedrio con un riferimento esplicito al proprio ruolo nel giudizio di Dio, poteva certamente essere considerata una “bestemmia”» (pp. 315-316.319).
I sinedriti giudicano Gesù come reo di morte e, non avendo la facoltà di eseguire la sentenza, se volevano ottenere la condanna di Gesù, dovevano necessariamente consegnarlo a Pilato, che ne deteneva il potere esclusivo. «Benché Gesù avesse parlato di figlio dell’uomo, non di messia re, è stato facile per i sinedriti presentare la pretesa di Gesù di essere il Messia come pretesa di essere re dei giudei e trasformare in tal modo un’accusa che era ancora prevalentemente religiosa in un’accusa che era squisitamente politica» (pp. 321-322).
«Re di Israele», gridato dalla folla in Gv 12,13, significava per i Romani re dei giudei. Una questione politica. «Ma non vi è dubbio che, in questo modo, sono le autorità giudaiche cha hanno deciso la sorte di Gesù. Il tentativo odierno di scaricarne tutta la responsabilità sulle spalle di Pilato, nel comprensibile umanissimo intento di liberare gli ebrei da ogni colpa per la morte di Gesù [in nota Jossa si riferisce alla «conclusione accorata e commovente» del libro del giudice ebreo a riposo C. Cohn, Il processo di Gesù. Un punto di vista ebraico, Torino 2000], non ha sufficienti basi storiche. I sinedriti sapevano bene che […] un prefetto romano che si preoccupava solo di compiacere l’imperatore, tenendo sotto ferreo controllo la situazione politica della provincia, e che anzi, secondo la testimonianza, tuttavia non neutrale, di Filone Alessandrino e di Flavio Giuseppe, non perdeva occasione di infierire sui sudditi giudei, non poteva alla fine non condannare a morte un profeta che era accusato di volersi fare re (e secondo la testimonianza evangelica non negava neppure di volerlo fare) in una provincia soggetta al potere romano» (pp. 323-324).
Nella Conclusione (pp. 325-333) Jossa traccia «Un profilo storico essenziale di Gesù».
A ciò segue in Appendice (pp. 334-355) la ripresa della lunga recensione critica all’enciclopedica opera del gesuita americano J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (al 2018 si è giunti a cinque volumi, per circa 3.700 pagine complessive), apparsa in Henoch 33(2011), 316-330. All’epoca della recensione di Jossa non era ancora uscito il quinto volume, a cui egli accenna, che di fatto tratta l’autenticità delle parabole, or. am. Yale 2016, traduzione italiana Brescia 2017, pp. 456. L’aspettativa di Jossa – e di molti lettori – («Vedremo meglio nel quinto volume come egli spiega l’enigma della morte di Gesù», p. 342) non si è realizzata. Occorrerà aspettare un… sesto volume?
Jossa afferma che, tolte le divagazioni e le ripetizioni, le migliaia di pagine di Meier potevano essere ridotte alla metà… (cf. p. 335). «I meriti grandissimi, e assolutamente innegabili» dell’opera del gesuita americano si accompagnano ad alcune opzioni di fondo molto discutibili che ne minano alla base il valore […] la pretesa stessa di stabilire con sicurezza quali parole e azioni di Gesù siano autentiche è assurda» (p. 337).
A livello metodologico, è difettoso il modo stesso di Meier valutare la documentazione in nostro possesso. Jossa cita il molto discutibile criterio della plausibilità e soprattutto la «rinuncia a un’immagine complessiva e unitaria (oggi si dice spesso olistica), della figura, e della vicenda, storica di Gesù. Vedremo naturalmente se, a conclusione del quinto volume, Meier abbozzerà una immagine del genere, e se questa immagine risulterà convincente» (p. 339). Egli ricorda che ancor oggi conosciamo troppo poco la realtà del giudaismo del tempo di Gesù, con le sue varie sfaccettature. Quindi, mette in guardia dal considerare vari pronunciamenti di Gesù come “nuovi” (secondo il criterio della “discontinuità”) rispetto al giudaismo precedente e a quello successivo (oltre alla letteratura attribuibile alla comunità primitiva).
Jossa non concorda con l’idea di uno scontro radicale di Gesù con i farisei circa la Legge (opinione ancor oggi molto diffusa) e considera fortemente discutibili «le due caratterizzazioni principali di Gesù fornite da Meier, il Gesù profeta simile a Elia e il Gesù halakico» (p. 348).
Egli contesta inoltre a Meier il rifiuto dell’ipotesi di un qualunque sviluppo della predicazione e della vicenda stessa di Gesù e anche la sola idea dell’esistenza di diverse fasi della vicenda personale di Gesù (cf. p. 340, riferimento all’opera di P.W. Hollenbach). Cita, chissà con che animo, l’affermazione di Meier: «Teorie fantasiose sulla evoluzione della consapevolezza di Gesù e della sua prassi non servono che a vendere libri» (p. 340).
Jossa elenca numerose altre critiche e prese di distanza dall’opera di Meier. «Un’opera sul Gesù storico è diversa da un commentario a un vangelo» (p. 335); «… la figura di Gesù appare alla fine assai poco storica e contro l’intento dichiarato dell’autore rischia di assumere fatalmente un carattere dogmatico, e quindi ideologico (c’entrano in qualche modo anche il carattere di sacerdote cattolico dell’autore e la sua definizione di Gesù come un ebreo marginale?)» (p. 340). In conclusione: «Qui appare a mio parere quella che è la vera chiave per comprendere l’opera di Meier: che è nella sua accuratissima analisi filologica e letteraria da un lato e nella sua sostanziale carenza di senso storico dall’altro» (p. 342).
Le frecce volano appuntite…
In definitiva, secondo le parole con le quali Jossa termina la sua recensione, «Gesù resta il profeta escatologico del regno artefice di opere straordinarie, e fornito a mio parere di una forte coscienza messianica, non il maestro di legge che alla maniera dei (posteriori) rabbini discute costantemente con compagni e rivali i casi legali particolarmente difficili» (p. 355).
Il volume si conclude con una Nota bibliografica (pp. 357-360) e con un prezioso Indice degli autori moderni (pp. 361-363).
Opera importante di studio e di consultazione curata da uno storico serio, da leggere e soppesare con serietà e gratitudine.
Giorgio Jossa, Voi chi dite che io sia? Storia di un profeta ebreo di nome Gesù, (Studi biblici 195), Paideia, Torino 2018, pp. 368, € 27,00, ISBN 9788839409232.