Dal 4 al 6 maggio si svolge a S. Anselmo un Convegno Internazionale Cattolico-luterano sul tema “Segni di perdono, cammini di conversione, prassi di penitenza. Una Riforma che interpella tutti”, alla vigilia del 500 anniversario della Riforma protestante.
Pubblico qui l’inizio e la fine della mia relazione, tenuta il 5 maggio, insieme con il professor Volker Leppin, di Tübingen, con lo stesso titolo.
Perdono, conversione, penitenza nelle due chiese: teologia, prassi, discipline
“Poenitere dicitur dupliciter: scilicet secundum actum et secundum habitum. Actu quidem impossibile est quod homo continue poeniteat: quia necesse est quod actus poenitentis, sive interior sive exterior, interpoletur, ad minus somno et aliis quae ad necessitatem corporis pertinent”
(S. Tommaso, S. Th. III, 84, 9, corpus)
“Poenitentia in nobis dupliciter accipitur. Uno modo secundum quod est passio…Alio modo accipitur secundum quod est virtus”
(S. Th. Suppl, 16, 3, c)
“Duo sunt consideranda: primo, de poenitentia secundum quod est sacramentum; secundum de poenitentia secundum quod est virtus”
(S.Th. III, 84)
“Agere sequitur esse, sed esse sequitur pati”
M. Luther
Mi si permetta di iniziare proprio da questo luogo nel quale siamo radunati, ossia l’Ateneo S. Anselmo e la sua tradizione “sapienziale”, “positiva” ed “ecumenica”. La teologia anselmiana, da almeno un secolo – ossia da quando è iniziata quella linea di studio che fu inaugurata da Anselm Stolz, e proseguita da C. Vagaggini, M. Löhrer, B. Studer, Gh. Lafont, E. Salmann et ceteri – si distingue per un approccio alla tradizione cattolica in cui la sapienza monastica sorregge e corregge la astrazione scolastica, l’autorità del dato storico e filologico tempera l’autoritarismo dogmatico e sistematico, il confronto con la “storia comune” attenua la contrapposizione tra “storie alternative” e incompatibili.
La traditio anselmiana non si è mai vergognata o risentita per le celebrazioni dei fratelli evangelici. E non lo ha fatto per diplomazia, ma per responsabilità. Ha maturato una così grande “sapienza festiva” da non permettere mai di lasciare il giudizio finale semplicemente a qualche piccolo “canone di condanna”. E vive anche questo anniversario dei 500 anni dal 1517 non tanto con l’ansia della affermazione – e della conferma – di una diversità e di una distanza, ma come la occasione per la riscoperta di una prossimità, di una corrispondenza, di una possibile comunione, oltre i conflitti e al di là delle differenze, che non vuole affatto né negare né cancellare semplicisticamente, ma che desidera ripensare in una logica autenticamente relazionale. Saper levare i propri calzari di fronte alla “santità dell’altro” è oggi divenuto non solo una possibilità, ma un urgente compito ecclesiale. Anche se mette in agitazione chi vuole tenere in ordine il piccolo mondo antico della propria scrivania o del proprio schedario. Vorrei qui utilizzare una espressione che troviamo in EG e ripresa da AL: «Gesù aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente» (Francesco, Amoris lætitia, 30)
La “meravigliosa complicazione” della vita, determinata dalla misericordia di Dio, ha anzitutto la esigenza di una “rinuncia”: rinuncia a ripari personali e comunitari, che impediscono di ascoltare e di sanare le ferite. Anche la “ferita alla comunione” – che abbiamo vissuto tutti da 500 anni – ha bisogno di una “rinuncia a ripari”, ossia a forme di fuga, di indifferenza, di risentimento e di chiusura pregiudiziale.
Per questo non è un caso che la iniziativa di questo “lavoro comune” – che si pone in continuità con altri episodi storici di dialogo strutturale tra teologi cattolici e teologi evangelici – nasca proprio qui, sul colle Aventino. Questo colle, che è entrato nella storia politica – dall’antica Roma – come “luogo di resistenza” e di “isolamento”, di “interruzione di rapporto” e di “non collaborazione”, invece, nella storia teologica dell’ultimo secolo, indica la direzione opposta: Aventino è dialogo interessato, collaborazione serena, superamento della diffidenza, rilancio lungimirante e condivisione convinta e convincente. Questo è divenuto, per la teologia di S. Anselmo, pane quotidiano, che ha segnato anche uno “stile didattico” particolare, soprattutto se considerato “topologicamente”, ossia se osservato proprio qui, proprio a Roma: si pensi al fatto che teologi “valdesi”, da più di 50 anni, insegnano regolarmente in corsi istituzionali all’interno della facoltà teologica. Questa è una grande tradizione, che fa onore al colle Aventino, sul quale siamo oggi qui riuniti. E in certi momenti – diversi da questi nostri di oggi – sembrava che a “salire sull’Aventino”, in fatto di ecumenismo, fossero tutti gli altri, ma non quelli che sull’Aventino ci stavano – anche di passaggio – da più di un secolo! Chi sta sull’Aventino non “sale mai sull’Aventino”! Non solo sul piano ecumenico, ma anche sul piano patristico, liturgico, sistematico, morale, storico, filologico.
Ma veniamo al nostro tema. Il titolo di questa “relazione comune” riprende, in altri termini, il titolo generale del nostro Simposio:Segni di perdono – Cammini di conversione – Prassi di penitenza. Una Riforma che interpella tutti.
Il titolo specifico, tenta di portare in primo piano tre termini-chiave della “esperienza di misericordia” che le singole chiese hanno elaborato, a partire dalla base comune, secondo diversi stili e con differenti priorità.
Le tre parole-chiave sono, dunque: perdono, conversione, penitenza. Potremmo intenderle, almeno in prima battuta, come la “correlazione” tra dono di Dio, risposta dell’uomo e disciplina ecclesiale che pone il rapporto (e la mediazione) tra il primo e la seconda. Nella esperienza cristiana “comune” si dà sicuramente un atto di perdono da parte di Dio in Cristo e nel dono dello Spirito Santo, che il soggetto “recepisce” e “riceve”. Il perdono di Dio rende giusto il peccatore e il peccatore, da parte sua, riceve questo perdono, lo fa suo. In quale modo possiamo intendere non semplicemente la “giustificazione” del peccatore, ma la disciplina ecclesiale che discende da questa comune – anche se differenziata – concezione? qui sta il punto di differenza nelle prassi, come nelle teorie, che dobbiamo accuratamente approfondire.
[…]
Ma non è detto che – con umiltà e con parresia – questo confronto non possa rappresentare un contributo sostanziale al comune cammino cristiano di riconoscimento del convergere misterioso della azione giustificante di Dio e della risposta santificante dell’uomo. Una grande riflessione comune sulla “natura della dottrina”, che ha già nel dibattito tra A. Dulles e G. Lindbeck[1] il suo illustre precedente, può consentirci di uscire dalle secche sia di una riduzione “proposizionale” sia di una riduzione “esperienziale” della dottrina. Leggere il “fare penitenza” come dinamica di risposta all’unico perdono battesimale sarebbe, in questo caso, una sollecitazione – utile per entrambe le confessioni – a camminare verso una teologia “post-liberale”. Forse verso un tale orizzonte oggi non è difficile avviarsi anche nel campo di una visione dottrinale cattolica, quando non voglia anzitutto allestire “ripari” dalla realtà anziché esposizioni alla realtà, formule autorefenziali di rassicurazione anziché “uscite rischiose” nei mondi della vita, scontati semplicismi tautologici anziché meravigliose complicatezze. Per la “meravigliosa complicatezza” con cui la grazia ci incontra, abbiamo bisogno di “preziose distinzioni”, di cui è ricca la tradizione. Di fronte a queste le pur grandi differenze tra confessioni sono piccola cosa: se noi facciamo memoria di come la “penitenza” – secondo Tommaso – è irriducibile al “solo sacramento”, ma si presenta anche come “virtù”; è irriducibile al solo “abito”, ma si presenta anche come “atto”; è irriducibile alla sola “actio”, ma si presenta anche come “passio”! E come potremmo dimenticare che proprio Lutero ha inaugurato una nuova coscienza moderna, per cui non solo il principio “agere sequitur esse”, ma anche la correzione “esse sequitur pati”, in cui teologia e antropologia si intrecciano e si implicano in modo antichissimo e insieme nuovissimo?[2]
In questo profondo ripensamento possiamo davvero aiutarci a vicenda, possiamo ascoltarci e imparare gli uni dagli altri, perché le nostre differenze restano una grande riserva di ricchezza: riconciliarci tra noi, sulla riconciliazione, non è così difficile, ma non per una analogia nascosta al di sotto delle differenze, bensì proprio per la grande quantità di differenze di cui è ricca tutta la nostra comune e diversa tradizione. Ciò potrà avere lo scopo di far sì che la comunione rimanga sempre sorprendente, indominabile, sfuggente, trascendente, e sappia attestare la “maggiore dissomiglianza” e la “meravigliosa complicatezza” del mistero della misericordia, rispetto a tutte le nostre pur necessarie e felici analogie.
Pubblicato il 6 maggio 2016 nel blog: Come se non
[1] Cf. George A. Lindbeck,La natura della dottrina. Religione e teologia in un’epoca postliberale. Torino 2004 (Originalausg.: The nature of doctrine. Religion and theology in a postliberal age. London 1984; dt. Übers.: Christliche Lehre als Grammatik des Glaubens. Religion und Theologie im postliberalen Zeitalter. Gütersloh 1994), e Avery Dulles, Modelli di Chiesa. Padova 2004 (Studi religiosi) (ed. orig. Models of the Church. Garden City, N.Y. 1974).
[2] Cf. Ph. Stöllger, Passivitaet aus Passion. Zur Problemgeschichte einer “categoria non grata”, Tübingen, Mohr und Siebeck, 2010.