È morto nella Casa del clero di Bologna, dopo una lunga e invalidante malattia che lo aveva portato a un sostanziale nascondimento, mons. Benito Cocchi, bolognese di nascita e vescovo prima a Parma e poi a Modena-Nonantola fino al 2010. Se ne va un pastore buono e timido, un vescovo sempre molto attento agli ultimi e capace di un dialogo attento e fecondo con la società civile.
Il vescovo Benito Cocchi era nato nel 1934 a San Giovanni in Triario, nel comune di Minerbio, ed era stato nominato sacerdote a Bologna il 14 marzo del 1959 dal cardinale Giacomo Lercaro. Il suo impegno, fin dai primi tempi, era stato molto legato ai poveri, in particolare con la frequentazione assidua della Casa della carità di Corticella. Vescovo ausiliare a Bologna (fu ordinato il 12 dicembre 1974 dal cardinal Antonio Poma), divenne vescovo di Parma il 22 maggio 1982 e per un periodo di circa un anno (tra il 1994 e il 1995) anche amministratore apostolico a Piacenza-Bobbio.
A Modena-Nonantola entrò il 12 aprile 1996, come successore di mons. Santo Quadri, e rimase in diocesi fino al compimento dei 75 anni e dell’ingresso di mons. Antonio Lanfranchi, il 13 marzo del 2010. Tra il 12 dicembre 1996 e il maggio del 2003 fu anche presidente di Caritas italiana.
A lui si deve la tradizione della Lettera alla città in occasione del patrono San Geminiano, una tradizione che prosegue tuttora e che per “don Benito” erano da una parte un’occasione importante per cercare e trovare “un’anima” alla città di Modena e dall’altra un modo, originale, per dialogare con la comunità civile. Il dialogo e l’attenzione ai poveri, agli ultimi, ai malati, agli emarginati, sono stati tratti essenziali del suo magistero, contraddistinto anche dal Convegno sulla montagna (2002/2003); dal Terzo convegno ecclesiale della Chiesa di Modena-Nonantola a seguito di Verona (2007); dalla visita pastorale alle parrocchie prima e alle unità pastorali poi; dal Congresso eucaristico del 2009, che rappresenta un po’ il testamento spirituale del vescovo Benito. Rimettere al centro l’eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana, far entrare la vita nella messa e la messa nella vita: questo l’intento di mons. Cocchi.
Non è possibile dimenticare il favore per i giovani (volle mantenere e potenziare l’esperienza dei «Martedì del vescovo» curati dalla Pastorale giovanile) e per i ragazzi (la festa dei cresimandi allora promossa da Ufficio catechistico e ACR al Palazzetto dello sport divenne un appuntamento sempre più importante per l’intera Chiesa diocesana).
Non ha potuto portare tutto a compimento; l’idea di un hospice per malati terminali è rimasta solo abbozzata; un progetto organico per i giovani studenti non ha trovato una formulazione efficace, ma l’impegno del vescovo si è diretto in modo specifico per una Chiesa che si mettesse in dialogo aperto col mondo e traesse la linfa vitale da una vita spirituale piena e feconda.
Se la Chiesa di Modena è in parte preparata alle parole di Francesco che spinge con insistenza a uscire, come ha avuto modo di dire in questi giorni il “suo” vicario generale mons. Paolo Losavio, forse è merito anche all’impegno speso in questa direzione da parte vescovo Benito Cocchi.
Omelia di mons. Claudio Stagni alla messa di esequie
nella cattedrale di Bologna
Svolgo questo intervento come l’ultimo servizio che posso prestare a mons. Benito, come suo antico segretario. È questo il momento della preghiera con la quale vogliamo anche noi accompagnare presso il Padre delle misericordie l’arcivescovo Benito, padre, fratello e amico, perché sia accolto nella pace eterna.
Noi sappiamo che la liturgia è la fonte e il culmine di tutta l’azione della Chiesa; ma la cosa diventa davvero impressionante quando la liturgia con i suoi segni entra nella vita e nella morte nostra. La Chiesa di Bologna era in festa ieri per la solennità della B.V. di San Luca, sua patrona principale, quando il vescovo Benito lasciava la terra per il cielo; e in questi giorni in cui anche nella sua Chiesa di Modena-Nonantola si celebrerà il commiato e l’ultimo saluto saremo nella vigilia della solennità dell’Ascensione di Gesù al cielo.
Cosa ha voluto dirci il Signore, parlandoci attraverso la vita, la sofferenza e la morte di mons. Benito? Una risposta ci è stata data oggi nell’ora di lettura dell’ufficio divino da s. Agostino: «La Chiesa conosce due vite che le sono state divinamente predicate ed affidate: una è nella fede, l’altra nella visione; una nel tempo del pellegrinaggio, l’altra nell’eternità della dimora; una nella fatica, l’altra nel riposo; una lungo la via, l’altra nella patria; una nell’attività, l’altra nel premio della contemplazione».
La Chiesa di Bologna, celebrando il passaggio dalla vita mortale a quella eterna di questo suo figlio, nella preghiera intende cogliere il senso e il valore di quanto è avvenuto; per chi guarda all’apparenza, è morto un uomo; per chi vuole vedere nella verità della fede si è compiuto un grande evento di misericordia divina per il vescovo Benito, che deve essere di conforto per i parenti, gli amici e quanti lo hanno conosciuto e amato nel suo ministero apostolico.
Mons. Cocchi è nato, battezzato e cresciuto nella fede con l’aiuto della sua famiglia di agricoltori e della parrocchia di San Giovanni in Triario in questa Chiesa diocesana; poi è diventato presbitero e a 40 anni vescovo, prima ausiliare a Bologna, poi vescovo residenziale a Parma, e da ultimo a Modena-Nonantola. Gli ultimi anni li ha offerto nel sacrificio della malattia, che lo aveva già sottratto dal contatto con questo mondo, quasi a prepararlo ai cieli nuovi e alla terra nuova dove non ci sarà né morte né sofferenza alcuna. Dobbiamo essere grati alla Casa del clero, ai confratelli, alle suore e al personale per averlo assistito e seguito con vera carità.
Nell’eucaristia che stiamo celebrando offriamo, insieme al sacrificio di Gesù, la sua vita e la sua morte, il suo ministero nelle chiese dove è stato mandato, le consolazioni e le delusioni, il bene fatto e le sofferenze patite e soprattutto le messe e i sacramenti celebrati e la parola di Dio annunciata anche con la vita.
Nell’eucaristia ringraziamo il Padre del cielo per i doni di natura e di grazia che ha fatto a don Benito, (così tutti lo chiamavano), e per l’esempio che ha lasciato dovunque è passato. Una vita semplice, nella povertà evangelica della sua cinquecento e dell’alloggio in Via del Terrapieno, nel servizio ogni mattina agli ospiti della Casa della carità di Corticella, nell’ascolto intelligente di quanti lo cercavano come guida spirituale e confessore, nel coltivare l’amicizia soprattutto verso coloro che pensavano di essere non credenti, nella competenza e nella pazienza dell’aiuto ai parroci. Fu lui a chiedere e a ottenere che nelle celebrazioni solenni in cattedrale le persone disabili fossero poste davanti a tutti.
Il suo amore per i poveri lo viveva nell’aiutare chi era in difficoltà, ma anche nella denuncia delle ingiustizie. Una volta mi passò una scatola di cioccolatini dicendo: «Non posso mangiarli, perché mi sono dimenticato di fare una telefonata, ma la pratica che mi era stata segnalata è andata a buon fine lo stesso». L’attenzione ai poveri era nota anche ai confratelli, tanto che nel 1997 fu nominato presidente nazionale della Caritas.
Chi lo ascoltava nella sua predicazione non trovava un oratore forbito, ma dopo un po’ si accorgeva che venivano dette delle cose vere, con convinzione, perché prima di tutto erano vissute. Con rispetto ma con forza metteva in evidenza le pecche nella società come nella Chiesa; e chi lo conosceva sapeva che la forza della sua denuncia veniva dall’esempio di vita.
Mons. Cocchi è entrato anche nella vicenda della canonizzazione di s. Clelia. Fu lui infatti a suggerire alle persone che assistevano la giovane Liana Stefanutto al Sant’Orsola, colpita da un male incurabile: «Fate una novena alla beata Clelia». E al termine di questa ci fu il miracolo della guarigione istantanea, che aprì la strada alla canonizzazione.
Fede e carità, apparentemente nascoste da un carattere gioviale, cordiale e portato sempre al sorriso. Poteva apparire superficialità, mentre era un modo per essere aperto all’incontro e a volte per evitare di essere frainteso in una eventuale durezza.
Ho detto che questo è il momento della preghiera, non della commemorazione. Le poche cose ricordate vogliono soltanto stimolare la nostra preghiera, che non deve esaurirsi in questo momento, ma deve continuare. Dobbiamo evitare l’errore di pensare di fare un torto a ritenere che il nostro defunto abbia bisogno del nostro aiuto spirituale per entrare nella misericordia di Dio. Per noi è un dovere di gratitudine e di carità; se gli vogliamo bene continuiamo a pregare e, in questo anno giubilare, ad offrire anche il dono dell’indulgenza a suo favore.
Quando fece il saluto a Bologna perché chiamato a guidare la diocesi di Parma, concludeva dicendo che non aveva rimpianti, eccetto uno: il suono delle campane. La settimana della Madonna di San Luca è riempita dai doppi del campanile di San Pietro, e a noi piace pensare che anche questo sia un segno della festa che avviene in Cielo per accogliere don Benito.
Chiediamo allora alla Madre di misericordia, che mostri dopo questo esilio il suo Figlio Gesù anche a don Benito, lei, clemente, pia e dolce Vergine Maria.
Omelia del vescovo Erio Castellucci
alle esequie di mons. Benito Cocchi
Nel giorno in cui la Chiesa universale celebrava l’Ascensione del Signore, il vescovo Benito è salito al Padre. Don Paolo Losavio, che lo ha conosciuto bene e gli è stato vicario generale per tanti anni, lo ricorderà in modo adeguato al termine della Messa. Ma due piccole foto del vescovo Cocchi vorrei scattarle anch’io, che ho potuto frequentarlo molto meno di tanti tra voi.
La prima risale al 1980, quando don Benito, come tutti lo chiamavano nella sua Bologna, era vescovo da soli cinque anni. Noi seminaristi del Regionale lo vedevamo solo nelle funzioni in Cattedrale; sapevamo che era stato professore di diritto canonico nel corso di teologia, che appena quarantenne era stato auspicato come vescovo ausiliare del card. Antonio Poma dal presbiterio bolognese, poi nominato e ordinato, e che abitava in una comunità sacerdotale. Decidemmo quindi di andarlo a trovare e ci trovammo a pranzo con un uomo dalla fede profonda e concreta, di grande spirito e intelligenza, vivace ed arguto, colto e umilissimo, innamorato di Cristo e della Chiesa, che serviva con grande energia.
L’altra foto è di pochi giorni fa. La vigilia della sua morte ho potuto pregare per mezz’ora al suo capezzale, insieme ad alcuni parenti ed altre persone amiche. Guardando il suo viso sofferente ma disteso, ho pensato a quante persone, in quindici anni di ministero presbiterale e oltre quaranta di ministero episcopale, avevano incrociato quel volto, ricevuto una parola e un sorriso, raccolto un’attenzione da parte sua. Don Benito non è salito al cielo da solo, ma atteso e scortato da una schiera di amici che gli sono riconoscenti per la sua bontà. Scortato, soprattutto, dai tanti poveri ed emarginati da lui assistiti anche personalmente: sapeva vedere la ricchezza del Signore là dove molti scorgevano solo problemi e miserie. Credo che uno dei servizi a lui più congeniali sia stato quello di guidare, come presidente, la Caritas italiana per sei anni. La sua attenzione alla dimensione sociale si è espressa, in quegli anni, anche avviando qui a Modena la tradizione della Lettera alla città, in occasione della festa di San Geminiano. E la città gli è riconoscente e lo sente molto vicino.
Non solo la vita terrena del vescovo Cocchi, ma la vita di ciascuno di noi si snoda tra queste due foto: tra le esperienze in cui siamo padroni di noi stessi, siamo pieni di energie e ci dedichiamo attivamente ai nostri compiti, e le esperienze in cui siamo consegnati ad altri e viviamo il tempo della quiete e del silenzio. Anche Gesù ha provato queste esperienze: come ricordano la prima lettura e il Vangelo appena proclamati, quelli della solennità dell’Ascensione, ha attraversato la passione e la risurrezione, la vita e la morte, prima di salire al cielo. Anche lui ha sperimentato la gioia di una vita attiva e la mestizia della consegna ad altri e del silenzio. E ha portato tutto con sé salendo al Padre.
Dice Luca che «una nube lo sottrasse ai loro occhi». La nube è segno del mistero di Dio che avvolge, è il simbolo di un avvenimento impenetrabile allo sguardo umano, di un evento che Dio protegge dalla curiosità degli uomini. Gli ultimi anni della vita del vescovo Benito sono stati velati da una specie di nube che impediva una piena comunicazione con lui, una nube sempre più spessa che lo ha avvolto e come custodito nel silenzio, una nube che gli ha tolto gradualmente la capacità di esprimersi con quella logica che prima padroneggiava così bene, lo ha privato a poco a poco della stessa parola, ma non ha potuto spegnere quello sguardo così luminoso che si trasmetteva dai suoi occhi ed era incorniciato da un largo sorriso. La nube ha avvolto l’intelligenza, la volontà, i movimenti e la parola; ma non è riuscita ad avvolgere gli affetti, che si esprimevano attraverso la vivacità dei suoi occhi, conservata fino quasi agli ultimi giorni. Quella nube, forse, dava fastidio più a noi che a lui, perché colpiva il nostro desiderio di intenderci con le parole e la logica e soprattutto perché interrogava i nostri ritmi frenetici, il mito dell’efficienza e in definitiva il senso stesso della nostra vita.
Gesù è salito al Padre, dice ancora Luca, benedicendo i suoi discepoli. Il vescovo Cocchi, come molti dicono, era «troppo buono»: non era capace di maledire, cioè di dire male del prossimo. Non era incline alla critica: quando dissentiva da qualcuno, una volta espresso chiaramente il proprio pensiero, piuttosto taceva. Capiva molto di più di quello che lasciava intendere. Il suo interesse per i gufi – ne ha raccolto una collezione impressionante, di ogni fattura e grandezza – deriva dal fatto che questo animale è uno dei simboli della saggezza; don Benito spiegava il suo hobby, un po’ strano per un vescovo, ripetendo questo detto: «Il vecchio gufo più sapeva e più taceva, più taceva e più sapeva». E lui spesso taceva, perché era saggio. Alla fine la parola gli è stata tolta, forse perché aveva raggiunto una misura alta di saggezza.
Non era portato ad esprimere rabbia e a sgridare: usava invece l’arma intelligente dell’ironia e della battuta, più rispettosa e spesso più efficace del rimprovero, anche se poteva essere scambiata per un segno di debolezza. Sono certo che l’altro ieri, salendo al Padre, ha raccolto di nuovo tutti in una grande benedizione: anche quelli che lo hanno fatto soffrire. Per questo chiediamo al Signore di imitare i suoi discepoli che, una volta asceso lui al cielo, non si sono rattristati ma sono stati investiti di grande gioia ed hanno iniziato a lodare Dio. Lodiamolo per questo pastore così buono che ha arricchito la nostra Chiesa con la sua testimonianza, con il suo ministero instancabile, con la sua predicazione e il suo sorriso e con il suo silenzio avvolto dalla nube del mistero; silenzio che ha parlato più di tante parole.
Il ricordo di mons. Paolo Losavio
al funerale di mons. Benito Cocchi
Mons. Paolo Losavio, vicario generale della diocesi negli anni dell’episcopato di mons. Cocchi, lo ha così ricordato al termine della liturgia funebre.
È con profonda commozione che abbiamo vissuto questa eucarestia, raccolti in preghiera intorno a mons. Cocchi, ritornato in mezzo a noi dopo 7 anni vissuti presso la Casa del Clero di Bologna, 7 anni di sofferenza e di silenzio, avvolti nel misterioso disegno della volontà di Dio. Sono certo di interpretare i sentimenti di tutta la comunità ecclesiale di Modena, esprimendo la nostra riconoscenza per gli anni in cui è stato per noi guida illuminata e paterna, pastore buono; per i 14 anni di servizio episcopale a Modena, durante i quali si sono fatti sempre più profondi e significativi i rapporti che hanno legato la nostra Chiesa a mons. Cocchi e mons. Cocchi a Modena, diventato autentico punto di riferimento per tutti: la sua presenza e la sua azione sono state una ricchezza per tutti noi.
Ricordiamo con immensa gratitudine la sua grande umanità, la sua paternità; il suo rispetto per ogni persona, la sua capacità di porsi in relazione con tutti e di creare sempre contatti, mai formali, sempre autentici ed immediati. Sono stati anni densi, in cui mons. Cocchi ci ha dato una preziosa testimonianza di dedizione e disponibilità. Vogliamo dirgli grazie: difficilmente quegli anni si potrebbero pensare più pieni.
Egli ha guidato la nostra Chiesa con sapienza e bontà. Ci ha indicato, soprattutto attraverso le sue 14 lettere pastorali, un preciso cammino. C’è un filo rosso molto evidente che percorre tutta l’opera e l’insegnamento di mons. Cocchi, a cui ci ha richiamati continuamente: l’impegno per la missione, per una chiesa sempre più “comunità missionaria”. Non possiamo dimenticare certe sue espressioni forti, in sorprendente sintonia con il magistero di papa Francesco.
Il nome della pastorale del 2000 è «missione». È la natura stessa della Chiesa che lo vuole. È la situazione culturale in cui il Signore ci ha chiamati ad esistere. essere cristiani ed essere in atteggiamento di missione è la stessa cosa. La missione non è un’attività episodica, ma è il modo di essere del cristiano. La missione non è un fatto straordinario, ma si inserisce in un contesto ordinario di missionarietà permanente. Se pur ferventi, noi restiamo chiusi nei nostri gruppi, nelle nostre sedi, non saremo la Chiesa del Signore Gesù, ma una chiesuola su nostra misura. La Chiesa non è autocentrata, non è per sé, ma per il mondo. Fare missione non è solo mettere in piedi una serie di iniziative: è riscoprire ciò che il cristiano è, ciò che la Chiesa è. La missione appartiene al suo codice genetico. Occorre dare alle nostre parrocchie un respiro più missionario, che le faccia sentire non tanto parrocchia di chi viene, ma comunità per chi non viene.
Questo è il cuore del magistero di mons. Cocchi. La missione è il modo di essere cristiani, una costante essenziale della Chiesa. No è impegno di qualcuno soltanto, ma di ogni credente. La missione appartiene all’intero popolo di Dio. Non «missione al popolo», ma «un popolo in missione». Tre i verbi della Chiesa in missione indicati da mons. Cocchi, da coniugare in stretta connessione e contiguità: ascoltare, condividere, annunciare. Non c’è annuncio efficace se non è preceduto e accompagnato dall’ascolto e dalla condivisione. Sono i tre verbi da coniugare continuamente, da ogni credente e dalla comunità.
Due altri obiettivi vorrei ricordare del suo magistero ricchissimo. L’eucaristia cuore della vita di una comunità: indicata fin dall’inizio del suo ministero episcopale a Modena tra gli obiettivi del Progetto di riferimento, da perseguire sempre oltre i programmi annuali. È l’eucarestia che forma la Chiesa e che la fa missionaria. Non possiamo dimenticare a questo proposito lo slogan da lui a noi offerto: «Bisogna portare la vita nella messa e portare la messa nella vita». Prezioso! Non è senza significato che il suo episcopato a Modena si chiuda con il Congresso eucaristico diocesano del 2009.
Il terzo tema: la parrocchia, chiamata a farsi luogo in mezzo alle case degli uomini, radicata nel territorio, espressione della volontà di presenza della Chiesa all’interno del vissuto umano, solidale con la vita della gente, soprattutto con ogni uomo che soffre. La lettera pastorale del 2003, nel cuore del suo episcopato, «Ho un popolo numeroso in questa città», è la più bella, oserei dire un vero capolavoro.
Voglio anche ricordare la sua sensibilità per gli ultimi. Gli incontri con gli ammalati nelle case e negli ospedali, la promozione delle Caritas parrocchiali e dei Centri d’ascolto in ogni parrocchia. E non possiamo dimenticare gli impegnativi anni di presidenza nazionale della Caritas dal 1997 al 2003.
Ricordo ancora le sue omelie, mai ovvie e scontate, sempre originali e stimolanti, sempre capaci di rendere la Parola penetrate, cioè tale da farla scendere in ogni piega del cuore umano, di ogni situazione concreta della vita umana.
Così non possiamo dimenticare le 12 lettere alla città: fu lui ad inaugurare questa tradizione. Ogni anno esprimevano, in occasione della festa di San Geminiano, attenzione ai problemi della città, al mondo modenese, tutte orientate a dare un’anima, un supplemento di spiritualità alla città, a stimolare il valore del dialogo, l’accoglienza vicendevole, il rispetto di tutte le componenti della vita cittadina, l’accoglienza dei nuovi modenesi, la corresponsabilità per il bene comune e a riconoscere l’altro sempre come dono. Esprimevano sempre attenzione ai segni del tempo e ai mutamenti profondi della società, cogliendone aspirazioni ed inquietudini. Rivelano un pastore attento, partecipe, profondo nell’analisi in una società sempre nuova.
Voglio ricordare infine il Convegno della montagna (2002-2003): «Occorre guardare alla montagna con stima e con affetto, rispettarla e amarla: in un mondo assordante, pieno di rumori sgraziati, abbiamo bisogno dell’eco, della risonanza di pace, di umanità di spiritualità che le montagne sanno ancora rimandarci».
Mons. Cocchi ha lasciato un ricordo indelebile a Modena, nella comunità cristiana e in quella civile. Grazie, monsignore, Dio Padre la ricompensi e la accolga nella sua dimora di luce e di pace.