1. In uno dei suoi bellissimi sermoni, quello per il Natale del 1618, il vescovo inglese Lancelot Andrewes (1555-1626) costruisce il discorso a partire da un’osservazione importante:
«Nel messaggio dell’angelo ci sono due parti: 1. la nascita, 2. il ritrovamento. Perché questa è una festa doppia: non solo la festa della sua nascita, ma anche la festa del suo ritrovamento. Per questo l’angelo non conclude l’annuncio con è nato per voi, ma dice altro: lo troverete. Non basta dire Cristo è nato, ma, per trarre beneficio da questa nascita, noi dobbiamo trovarlo. È nato è la parte che fa lui: lo troverete è la nostra. Se non lo troviamo è come se non fosse nato: è la stessa cosa. Può anche essere nato prima, ma per noi egli è nato quando da noi egli è conosciuto, quando da noi è trovato, e non prima. Cristo trovato è più che Cristo nato» (Dio è diventato uomo, Qiqajon 2012, p. 203-204).
E, per il vero, i racconti evangelici dell’infanzia sono più preoccupati di farci sapere non come e dove Gesù è nato, ma come e da chi viene trovato. E questo spiega ancora una volta perché i vangeli non sono soltanto storia, ma anche una testimonianza di fede o, se vogliamo, sono la storia di chi, come, e perché ha creduto che nel bambino di Betlemme, così come nel condannato morto in croce, risplendeva la gloria di Dio.
Tra le figure che popolano il Natale ne emergono tre che rappresentano diverse situazioni e diversi modi di rispondere alla bella notizia che è il vangelo: sono i pastori di Betlemme, i magi venuti dall’oriente, e i vecchi Simeone e Anna.
Sono tre figure di poveri: i pastori per statuto sociale, i Magi per la loro non appartenenza al popolo di Israele, i vecchi per ragione anagrafica come persone che non hanno più niente da dire né da dare.
Per rimanere nel tema che abbiamo scelto come quadro di fondo di queste riflessioni, sono tre deserti! Mostrano tre atteggiamenti che sono alla base di ogni cammino di fede: lo sconcerto o smarrimento di fronte all’imprevedibile, la fatica di trovare la strada, la pazienza dell’attesa del traguardo.
2. Cominciamo dai pastori. Dimentichiamo per un momento le belle statuine del presepio, e cerchiamo di ricordare che quella dei pastori era, ed è, una vita dura, e che al tempo di Gesù la loro categoria era collocata sull’ultimo gradino della scala sociale. Questo a partire dal fatto che lo stesso lavoro che praticavano impediva loro di fatto di frequentare la sinagoga, e ancor più di partecipare anche solo qualche volta alle solenni liturgie del tempio di Gerusalemme. Non erano, per dirla con parole nostre, “gente di chiesa”, erano i più poveri dei poveri, poveri di cultura, poveri di stima, certo, e, si pensava, di riflesso, anche di fede. Ma come la parola di Dio al tempo di Giovanni Battista girerà al largo dei potenti e dei sapienti per andare a farsi sentire nel nulla del deserto, così la nascita del Bambino carico di promesse, in cui appare la Parola fatta carne, sarà annunciata nel buio della notte agli unici che erano svegli, i pastori!
Cosa significava “vegliare nella notte”? Sicuramente a livello letterale questo era richiesto dalla necessità di “fare la guardia al gregge”. Ma c’è dell’altro. Perché questi racconti non sono semplicemente una cronaca di ciò che è accaduto, queste sono narrazioni di un’esperienza, e chi racconta parla non solo di ciò che ha visto, ma anche e soprattutto di ciò che ha capito! Il narratore – e questo vale per tutto il vangelo – è un testimone, che ha visto e creduto, e che narra la cosa agli altri perché anche loro credano. E allora lo stato di veglia non è solo una necessità dovuta al lavoro, ma è un requisito per accogliere la rivelazione di Dio: la veglia è l’atteggiamento di attenzione, di vigilanza, appunto, richiesto al credente.
Lo schema del percorso è semplice.
a. La grande luce che li avvolge è un’incredibile sorpresa che attira la loro attenzione;
b. la reazione è lo spavento;
c. La risposta è un messaggio che è sconvolgente per due aspetti: primo, l’enormità della notizia che annuncia “una gioia grande per tutto il popolo, un salvatore che è nato oggi!”, e secondo, la miseria del segno offerto per provare la verità dell’annuncio: “un bambino in una stalla”! Il presepio e le immaginette hanno narcotizzato la stalla, che non ha più né odore né sporcizia, la culla è paglia lucente come fili d’oro! E però, a pensarci bene, per dei pastori ambedue le cose possono solo accendere lo stupore, l’incanto, la felicità folle di avere un Dio calato nelle proprie misure. Ma è un incanto non automatico, e deve passare per lo sconcerto. Scrive ancora Andrewes:
«Normalmente ci deve essere una proporzione tra il segno è la cosa indicata dal segno. In una stalla andiamo per cercare un cavallo, il bue o l’asino, mai per cercare, in quel luogo, il Salvatore del mondo! Questo messaggio era così alto che nessun uomo poteva indicarlo, ma solo un angelo. I pastori erano certo grati per la sua nascita, ma non per il segno. Che ci fosse un segno, bene, ma non quel segno! Se Egli non avesse dato alcun segno, questo li avrebbe turbati. Ora, il segno che viene dato loro li turba ancora di più» (p. 208-209).
Perché? Ritroviamo qui un problema sempre aperto: come poter pensare che Dio si nasconda nella fragilità di un bambino, incontri il rifiuto del suo messaggio, venga addirittura messo a morte? Eppure questo è e rimane il cuore della rivelazione cristiana. Ancora Andrewes osserva:
«Considerate la natura di un segno. Se Cristo fosse venuto in gloria, questo non sarebbe stato un segno, non più di quanto lo sia il sole che splende nel firmamento in tutta la sua forza. Il sole eclissato, questo è un vero segno. E questo è il segno qui: il sole di giustizia che entra nella sua eclisse, incomincia a essere oscurato, nel suo punto di partenza, quello della sua nascita (p. 211). Ma questo non è solo un segno, è, dice, “un segno per voi”. Consideriamo attentamente. Se fosse nato in modo glorioso, non si sarebbe permesso a gente come i pastori di avvicinarsi a lui. Ma questo è un segno, dice, per voi. Voi che custodite le pecore, e tutta la gente povera come voi. Anche voi avete un Salvatore. Non è solo il Salvatore della gente importante, ma anche dei poveri pastori. I più poveri della terra possono trovare rifugio in lui, non essendoci altro rifugio che il suo (p. 211). […] C’è una proporzione tra il segno e la cosa segnata? Certo che c’è. La proporzione si trova in quello che segue, nella sua vita e morte. E, a ben vedere, si tratta di un segno adeguato. Possiamo cominciare con Cristo (Christ) nella greppia (cratch); dobbiamo finire con Cristo sulla croce (Cross). Lo scandalo della greppia è una buona preparazione allo scandalo della croce» (p. 211-212).
3. Così lo smarrimento del primo momento si muta in un felice stupore. I due sentimenti rimangono e si fanno guerra. Il coro di angeli che trasforma il cielo in una grande sinfonia al canto di Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini che egli ama, all’improvviso si spegne: ritorna il silenzio, ritorna il buio. E i pastori si interrogano: è stata l’illusione di un momento o forse quanto abbiamo visto e sentito è vero? A nessuno che fa un cammino di fede è risparmiato questo momento, questo ricorrente trovarsi in bilico tra la paura e la fiducia. Qui i pastori sono ancora un modello: appena la visione si spegne, «i pastori dicevano fra loro: Andiamo fino a Betlemme a vedere questo avvenimento (parola) che il Signore ci ha fatto conoscere».
Aelredo di Rievaulx sottolinea come i pastori si esortino a vicenda (Serm. 93,1): è quanto avviene tra noi nello scambio di fede, quando ci aiutiamo gli uni gli altri a credere, a riprendere fiducia. E vanno, con una decisione per così dire “alla cieca”, e vanno in fretta, una modalità tipica di Luca, a indicare un entusiasmo che si traduce in una felice curiosità, e trovano. Ma quello strano e povero segno non li sconcerta più, anche se – diciamolo ancora una volta – torneranno nella vita a provare smarrimento davanti alle parole e alle azioni di Gesù. Ora parlano, raccontano del bambino e soprattutto quello che di lui aveva detto l’angelo, la grande speranza che ora è offerta al mondo intero. Il loro stupore gioioso non può che produrre altro stupore in chi li ascolta.
Ma qui Luca riporta l’attenzione sulla figura di Maria, che diventa il modello di come elaborare quello stupore, perché «Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore». Nessuno stupore è veramente efficace fino a che non scende lentamente nel cuore così da diventare una convinzione che sorregge le nostre scelte morali. C’è un’ultima annotazione: «I pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto come era stato detto loro». Anche questo è tipico di Luca: il canto degli angeli diventa il canto dei pastori, ed è nel canto e nella lode che teniamo vivo lo stupore. Questo lo facciamo nella liturgia, soprattutto nella messa e nella preghiera dei salmi: qui la fede trova il necessario nutrimento, stimolo e sostegno per la nostra vita.