23 dicembre: La pazienza dei vecchi

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1. Stiamo cercando di leggere, con realismo, le figurine del presepio, di dare loro, per così dire, carne e sangue.

Gli ultimi due personaggi che troviamo sono così sfortunati, così marginali che nel presepio non trovano neppure posto e forse sono ignorati dai più. Sono due vecchi, che rispondono al nome di Simeone e Anna, e che appaiono alla fine dei racconti di Luca, quando il bambino Gesù viene presentato al Tempio.

Eppure, per l’evangelista la loro presenza è importante, e la loro esemplarità è segnalata anche dalla scelta costante di Luca di affiancare, nei casi più rilevanti e significativi, una figura maschile e una femminile, a indicare il complesso dell’intera umanità.

E il significato della loro presenza è accentuato dal fatto che – come Zaccaria e Maria – Simeone pronuncerà un cantico che è entrato nella quotidiana preghiera delle Ore, il Nunc dimittis, collocato comprensibilmente nell’orazione che chiude la giornata, la Compieta. Ma la cosa sorprendente è che tale cantico non è una malinconica preparazione alla morte, ma è un inno di grandiosa speranza, un canto proiettato verso il futuro!

Ricordiamolo subito: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo, / vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, / preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per illuminare le genti / e gloria del tuo popolo Israele». La chiara allusione alla morte vicina ha portato a pensare a Simeone come a un “vecchio”.

Dell’altra figura, la profetessa Anna, è dichiarata esplicitamente l’età: «aveva ottantaquattro anni».

Che funzione hanno queste figure nei vangeli dell’infanzia? E che insegnamento ci offrono per il nostro cammino di fede?

2. Più che nel passato, la nostra società occidentale tende a porre i vecchi nella categoria degli “scarti”, come ci ricorda spesso il papa. Potremmo dire che proprio la loro condizione di vita li rende emblemi del deserto in quanto espressione di marginalità, smarrimento, sterilità, è quasi un a priori

Ma, ancora una volta, il vangelo ci sorprende, perché, per uno strano paradosso, nell’ottica di Luca, Simeone e Anna sono presentati come figure di speranza. Sono due anziani che aspettano «la consolazione di Israele» (Simeone), «la liberazione di Gerusalemme» (Anna). Le parole in cui si condensa la loro attesa sono grandiose.

La consolazione (paràklesis) è un termine che si riferisce a qualcuno che “sta accanto, incoraggia, consola, difende”, e il termine che ne deriva, Paraclito, è detto di Gesù e dello Spirito Santo (cf. Gv 14,16-17: si veda la ricca nota della Bibbia di Gerusalemme)!

Altrettanto decisivo è il termine liberazione (lýtrosin), che ha pure una vasta gamma di significati, che va dalla liberazione fisica da una paralisi (in Luca il termine è usato per la guarigione di paralitici), per esempio, o anche politica, ma soprattutto la liberazione interiore, quella che, vincendo la “sclerosi cardiaca”, ci fa parlare di “cuore libero”, quello di chi ha superato ogni schiavitù e grettezza egoistica per allargarsi alle dimensioni del dono.

Questi due vecchi, dunque, sono tutto tranne che due rassegnati che non attendono più nulla dalla vita. Giunti all’età in cui si fanno i conti col passato che non torna, in cui il crescere della debolezza fisica porta a rinunciare ad ogni tipo di progettualità, in cui forse le tante disgrazie e sventure viste e sperimentate inducono a scoraggiamento e pessimismo, appaiono invece come persone che vivono i giorni come attesa di consolazione e di liberazione da ogni tipo di prigionia.

E anche qui, paradossalmente, in quel bambino debole e inerme, in una condizione che ha bisogno di tutto, vedono brillare la speranza di colui che esaudirà la loro attesa, tanto più significativa in quanto estesa su un lungo periodo di tempo dato dalla loro età veneranda.

 

3. La lettura allegorica, che i medievali amavano, ha visto in questi due “vecchi” la somma dei secoli che hanno preceduto l’incarnazione.

Non è però che con la nascita di Gesù il problema si sia chiuso. Tutt’altro. Ma occorre ricordare che la speranza non è di chi è sazio e sta bene, ma di chi avverte, a volte con dolore e persino angoscia, tutti i limiti suoi e del mondo, e che però, proprio per questo, diventa attento e sensibile a tutti i segni che possono offrire consolazione e almeno indizi di liberazione.

Il Padre nostro ci insegna che ciò che renderà bello il mondo non è la constatazione di una realtà, ma un desiderio che va coltivato: sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà! Noi crediamo che il Regno di Dio è presente nel mondo (vi è entrato materialmente con l’apparire di Gesù) e però continuiamo ad attenderne la piena realizzazione, il “giorno” in cui tutti i “nemici” saranno sconfitti, e per ultima a essere debellata sarà la morte (cf. 1Cor 15,26).

Ora è il tempo della pazienza, quella di Dio (cf. Ez 33,11; Es 34,6; Sal 7,12; 144,8) e la nostra (Rm 7,25; 15,4; Eb 12,1; 2Pt 3,9.14-15). L’esempio dei due vecchi del tempio è incoraggiante, e ci ripete che la nostra attesa non andrà delusa. Ma, come ogni attesa, essa sarà un misto di speranza e di sofferenza. Non a caso Simeone parla a Maria di una «spada che la trafiggerà», e di Gesù come «segno di contraddizione» che chiede di prendere posizione, perché lui «svela i segreti dei cuori» (cf. Lc 2,34-35).

Non sono due vecchi rimbambiti, sono due saggi, ai quali le prove della vita hanno insegnato come far tesoro di tutto. Simeone può morire in pace perché ha visto la salvezza, preparata da Dio davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti.

È importante capire che l’arrivo di Gesù non ha ribaltato il mondo sistemandolo definitivamente. Tutto continua, ahimè, a restare come prima. Nessuno è tolto miracolosamente dal deserto, a nessuno, neanche al credente, è risparmiata la durezza del vivere con tutte le sue contraddizioni.

Quello che Simeone ha visto nel bambino non è un mondo rifatto e rimesso a nuovo: questo verrà nei tempi stabiliti da Dio. Ma quello che ha visto basta per cambiare molte cose: ha visto una luce che brilla nel deserto per illuminare le genti, tutte le genti, e questo basta, per chi vuole, a trovare una direzione, a non smarrirsi, a non perdere mai la speranza agganciati alla sicurezza che viene da questa luce. Il mondo è sempre quello, ma nel mondo è stato piantato il vangelo, e questo cambia radicalmente le cose. Anche se questa luce fosse ridotta a «una lampada che brilla in un luogo oscuro» (2Pt 1,19).

Virginia Woolf ebbe a dire: «A volte noi vorremmo vedere il sole, ma dobbiamo accontentarci della luce di un fiammifero».

 

4. E la speranza consiste nella possibilità di tradursi ogni giorno nell’atteggiamento pratico della pazienza, e questa si esercita nel non lasciarsi sommergere dalle difficoltà, anzi nel farne uno strumento per crescere nella costanza. San Paolo arriva a scrivere: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,3-5).

È questa la grande lezione che lo stesso Luca ci offre come l’uscita di saggezza dal quel coacervo magmatico di dolori e difficoltà di ogni genere che va sotto il nome di “discorso sulla fine” (21,5-19), che i vangeli collocano alle soglie della passione, ma che non intende informare su come finirà il mondo, ma indicare tutti quei segni che mostrano come questo mondo sia fragile e rischi continuamente di sfarinarsi.

Che fare? Fuggire spaventati? Buttarsi in ricerche di consolazioni effimere per dimenticare?

La risposta di Gesù è vivere l’attesa nella speranza, e nella pazienza che ne è la figlia naturale. Infatti, dopo aver descritto i tanti segni dello sbriciolarsi del mondo, Gesù conclude: «Nemmeno un capello del vostro capo perirà: con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Lc 21,19). Il termine qui reso con perseveranza, o altrove costanza, o pazienza, nel greco è sempre lo stesso: hypomonê, che significa “rimanere sotto”, restando saldi nel portare il peso dell’afflizione, delle contraddizioni, dei momenti in cui si fa buio e si perde il senso della direzione da prendere.

Simeone può dire di aver “visto” la salvezza, ma il vecchio profeta non abbandona per questo il linguaggio duro della “spada” che trafiggerà il cuore di Maria, e della “contraddizione” che diventerà suo figlio Gesù, realtà dolorose che egli sa benissimo si troveranno sulla strada di chi vecchio ancora non è, così come lui le ha trovate sulla sua.

Anna è spinta a «lodare Dio e a parlare del bambino a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme».

Simeone, come Anna, canta felice l’uscita dal tunnel, e questa è sicuramente una gioia caratteristica di chi, ormai vecchio, sente che è vicina la “pace” tanto desiderata. Essi dicono a tutti: «Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti, dite agli smarriti di cuore: Coraggio non temete, ecco il vostro Dio viene a salvarvi» (Is 35,3-4).

L’atto di fede prevede la ricerca, ma anche chiede di assumere fino in fondo la nostra realtà per vederne i limiti e le angustie senza soluzione: solo a quel punto avrà senso la resa, l’abbandono a Dio, come hanno fatto Maria, Giuseppe, i magi, i pastori, Simeone, solo a quel punto (ma è un punto che non è né fisso né conquistato per sempre) noi troveremo la salvezza e la pace.

L’atto di fede è uno spazio da attraversare continuamente per salvarci dall’inquietudine. E questo spazio è quello della preghiera.

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