Quello che è importante per il cristianesimo – dichiara mons. Dario Edoardo Viganò, in questa seconda parte dell’intervista – è fornire attrezzi d’analisi per decodificare la manipolazione a cui vengono sottoposti i segni religiosi immessi dai media in questo pluralismo di linguaggi e pseudo-culture.
– Mons. Viganò, l’ormai tradizionale doppio registro del magistero fra incoraggiamento e ammonimento come si declina nel nuovo contesto comunicativo mediale?
Innanzitutto occorre prendere coscienza dei profondi mutamenti intervenuti negli ultimi anni nello scenario dei media. Quella in cui viviamo è l’epoca dell’informazione in tempo reale, della sovranità dell’immagine e dell’interconnessione: pensiamo alla trasformazione di Internet che ha permesso il moltiplicarsi degli strumenti creando il vero passaggio dal paradigma one to many a quello many to one.
Il processo di convergenza tra i vari media ha dischiuso nuovi orizzonti comunicativi e la massiccia diffusione dei digital media ha trasformato la Rete da semplice luogo di scambio di informazioni a spazio di interattività e anche, in alcuni casi, di partecipazione.
Il doppio registro
L’attuale sistema crossmediale ci colloca così in uno spazio interstiziale tra la vecchia comunicazione di massa, la logica di radiodiffusione, lo scambio comunicativo bidirezionale e le relazioni interpersonali.
Anche il caso del cinema mi pare emblematico delle trasformazioni in corso: la settima arte si trova oggi a “sconfinare” in altri ambienti mediali (televisione, Internet, social network, videogame ecc.), confondendosi con essi e generando prodotti culturali sempre più crossmediali.
E qui si colloca l’urgenza della riflessione reclamata soprattutto in ambito educativo. Infatti, oggi un film, nel contesto dei media digitali, si presenta sempre meno come testo definito trasformandosi in testo disperso, frammentato, segmentato.
Inoltre, la situazione fruitiva è mutata per cui la sala non è più luogo privilegiato ed esclusivo di esperienza cinematografica a favore di una fruizione che rende sempre meno percepibile l’esperienza fortemente ritualizzata della visione.
In questi scenari, urgente sembra, allora, la necessità di inventare nuove forme di ascolto e di socializzazione volte alla valorizzazione delle possibilità che i nuovi media offrono.
Papa Francesco – come ho accennato – ci indica una via precisa nella declinazione del potere della comunicazione come “prossimità”. Comunicazione non come manipolazione, ma come comprensione e abbraccio dell’altro, in grado di superare gli scogli della diversità e le secche dell’esclusione. La parola che salva, la parola dialogica, che “vede” l’altro e gli va incontro, la parola che incarna il dono supremo della misericordia, è la forma che papa Francesco non si stanca di propugnare e di praticare. Una parola autenticamente “cattolica”, che, nella complessità dei nuovi orizzonti crossmediali, indica una strada per non lasciare indietro né fuori alcun interlocutore.
Wenders e Sorrentino
– Fra il racconto su papa Francesco di Wim Wenders e la serie televisiva “The Young Pope” di Paolo Sorrentino che rapporti ci sono?
Si tratta di due prodotti molto diversi: l’unica relazione che li può legare mi pare stia nel fatto che entrambe le esperienze cinematografiche evidenziano l’attenzione dei grandi registi contemporanei nello scandagliare, con la profondità di cui l’occhio cinematografico è capace, una figura complessa come quella del pontefice, la quale, evidentemente, intercetta e coagula molte delle domande di senso rispetto a un presente che appare sempre più difficile da decifrare.
Si pensi, in tempi recenti, anche ad un film come Habemus papam di Nanni Moretti, un’opera matura, stratificata e aperta a una pluralità di letture e di temi: insieme, una riflessione sul potere, sulla religione, sulla responsabilità: sull’uomo.
In questa scia si inserisce la serie televisiva diretta da Sorrentino, un prodotto interessante e visionario che presenta, nel contempo, alcuni tratti di tenerezza e un riverbero psicanalitico.
Diverso è invece il caso del film Papa Francesco. Un uomo di parola di Wenders. La poetica visiva di Wenders mi è sembrata da subito adatta a questo genere di impresa. Ho conosciuto il cinema del maestro tedesco da giovane seminarista e sono rimasto folgorato dagli angeli de Il cielo sopra Berlino (1987).
Quegli angeli, così lontani dal cascame devozionale, marcati dalla poesia di Dante, di Rilke, sono come battiti di luce, meglio luce e movimento, come il cinema. Gli angeli fanno la spola tra il cuore dell’uomo, segnato spesso da ferite e inquietudini, e l’orecchio di Dio, cui sussurrare implorazioni e intercessioni. E quello sguardo di Wenders, così profondo e lieve insieme, è rimasto radicato in me per anni. Per questo lo abbiamo voluto prima per la regia televisiva dell’apertura del Giubileo Straordinario della Misericordia e poi a lui abbiamo proposto di raccontare il dialogo tra papa Francesco e il mondo contemporaneo.
Quello che ne è scaturito è un’esperienza cinematografica intensa, una testimonianza raccolta attraverso la macchina da presa che diviene per il papa un ponte, un abbraccio con gli uomini e le donne di ogni fede, cultura, appartenenza sociale o politica. Un film che diventa occasione per riannodare i fili di un discorso mai interrotto oppure per iniziare un dialogo che possa essere fecondo, custode di speranza. Tutto questo è possibile anche perché la sensibilità di Wenders è riuscita a valorizzare le peculiarità dello stile comunicativo di Bergoglio.
Il film è composto essenzialmente da due momenti: anzitutto l’attenzione a gesti, parole e viaggi del papa; poi c’è un raccordo di parola e sguardo diretto del papa allo spettatore, che aiuta a ritessere cinque anni di pontificato. Qui il papa è perfettamente inserito nella situazione comunicativa: è come se Bergoglio traguardasse il mezzo tecnologico e raggiungesse direttamente lo spettatore.
La macchina da presa non è un ostacolo, ma non è neanche, diciamo così, l’obiettivo a cui si rivolge il papa. Il papa va direttamente negli occhi e alle orecchie di chi ascolta.
Reperti o pensiero religioso
– Le nuove piattaforme digitali, i nuovi sistemi produttivi e le nuove-innovative serie televisive, soprattutto americane e anglosassoni, giocano su riferimenti non estranei alla tradizione cristiana: male-bene, genesi-mito, visibile-invisibile, mente-corpo, umano-postumano ecc. Che cosa impedisce alle comunità cristiane di accorgersene?
Non credo manchi un’attenzione verso questi temi, semmai occorre andare a fondo nell’analisi delle dinamiche che stanno portando alla crescente presenza dell’elemento religioso nei contesti delle grandi narrazioni televisive contemporanee. Si assiste infatti ad una crescita quantitativa alla quale non corrisponde un processo di maturazione qualitativa.
Non è sufficiente rimarcare la presenza del religioso nei media, ma indagare lo stile, il ruolo e le funzioni che sottostanno a questa presenza, tanto più che ogni linguaggio e cultura, entrando nell’universo mediatico, si espone a una significativa trasformazione, se non al logoramento e alla corruzione.
Ma qual è il contesto culturale e sociale nel quale si inserisce il linguaggio religioso? Negli anni ’60 maestri del cinema come Pasolini, Bresson, Bergman, Buñuel si sono accostati al sacro in un clima di fermento che attraversava, da ogni latitudine, la società, e “a cascata” anche registi di minor valore si sono accostati ai grandi temi, sia pure nei limiti delle loro capacità di approccio e di analisi. La spinta verso l’Eterno era percepibile nel cinema come nella letteratura, non solo partendo da posizioni di fede, ma spesso coltivando e mettendo in discussione i propri dubbi.
Via via, con rare eccezioni, mentre cresceva la presenza di segni e simboli religiosi, fuori dal loro contesto specifico, la riflessione è scemata, si è letteralmente svuotata, parallelamente a una crisi che investe ogni forma di cultura, sostituita da un puro consumo, per il quale non si può più nemmeno parlare di consumismo (gli “ismi” stessi hanno perso senso, come le ideologie che li sostenevano).
È questo il nuovo contesto di riferimento. Un universo in cui l’utente, lo spettatore, il consumatore viene corteggiato ricorrendo a riferimenti più o meno diretti, al patrimonio religioso collettivo.
L’universalità del linguaggio religioso viene utilizzata e piegata dai media sulla base dei propri obiettivi. D’altronde, nella polverizzazione (Appadurai) e nella liquefazione della società (Bauman), esiste un linguaggio e una cultura così fortemente radicati e “popolari” come quelli religiosi?
È evidente che, in questo modo, il linguaggio religioso non è in grado di comunicare in modo autonomo ma viene utilizzato dai media ai quali resta subordinato. Quello che conta non è la coerenza dei significati, ma la partecipazione emotiva degli spettatori: il linguaggio religioso viene stravolto e ridotto ad archeologia dei sentimenti!
Invece, un linguaggio autenticamente religioso ha la forza per sfuggire al dominio di ogni altro linguaggio, anche di quello dei media. Ma perché ciò accada, occorre, sulla scia di Dietrich Bonhoeffer, reimparare un linguaggio che sappia porre e dire «Dio-al-centro».
Comunicare il mistero
– Nei film e nelle narrazioni televisive c’è un esercizio del potere (legittimazione o delegittimazione). Qual è il compito del cristianesimo? Dopo l’egemonia americana è ipotizzabile un’egemonia confuciana?
Limitandoci al campo del cinema e delle serie televisive, credo sia difficile fare ipotesi così definite. Quello che mi pare importante per il cristianesimo è – come accennavo – fornire attrezzi d’analisi per decodificare la manipolazione a cui vengono sottoposti i segni religiosi immessi dai media in questo pluralismo di linguaggi e pseudo-culture.
A questo occorre unire, in una chiave propositiva, il recupero di un autentico linguaggio religioso nei media e l’individuazione di strumenti per riconoscerlo quando questo si manifesta. Se l’ecologia comunicativa di papa Francesco suggerisce alla comunità credente un generale approccio pragmatico fondato su una grande consapevolezza dei meccanismi della comunicazione – che non può essere bloccata ma solo “risanata” attingendo a una verità più grande –, credo sia anche fondamentale porre la questione della traducibilità del testo sacro in un testo audiovisivo, così come indicare vie per un punto di incontro tra esegesi biblica e analisi dei film.
Il cinema – che tra tutti i media è quello che più si presta a tradurre un testo sacro in modo aderente –, essendo costituito da fasci di luci, movimenti e parole, sembra espressione assolutamente connaturale alla Bibbia, anch’essa intreccio di immagini, parole e luce. Ma con una avvertenza: la stessa Bibbia afferma che tanto l’immagine quanto la parola – almeno quando questa è il Nome di Dio – sono difficili accessi al Mistero.
Come può, allora, il cinema essere capace di introdurre ad esso? Non è il cinema che ostenta la vicenda pubblica che ha garanzia di accostarsi al Mistero, ma quello che sa offrire allo spettatore spie che aprono soglie di accesso. È necessario coniugare specifiche competenze: da quelle semiotiche a quelle ermeneutiche, da quelle bibliche a quelle teologiche, con un ascolto serio e attento degli stimoli provenienti dall’opera cinematografica per evitare giudizi approssimativi o ideologici.
Assunta l’idea che il testo sia uno spazio di negoziazione, nel porsi in relazione ad esso la prospettiva maggiormente promettente, anche se complessa, è allora quella di tipo parabolico. Il cinema delle parabole è, per l’appunto, faticosa trasfigurazione di un senso, dato nella storia e da essa custodito, che diviene presente e attuale nel momento dell’interpretazione.
La parabola come metafora, similitudine tra due oggetti che implica un richiamo ad un’esperienza di vita, aprendosi a sensi nuovi e spesso imprevedibili.
La parabola come proverbio, con riferimento al sapere tradizionale e consolidato.
La parabola come enigma: ogni parabola indica ed evoca un mistero.
Esiste una prossimità straordinaria tra l’esegesi biblica e l’analisi del testo cinematografico: sia le parabole che le immagini cinematografiche trovano la loro ragion d’essere nella capacità di stabilire relazioni, aprire lo spazio per un’interpretazione, celare e rivelare un senso più profondo. Questa prospettiva è fertile e ricca di suggestioni di fronte a qualsiasi film religioso, anche quelli più destabilizzanti e problematici, perché presuppone un ascolto paziente e umile, scardinando l’illusione del cinema come conforto, nostalgia ed evasione.
Il mito e i legami
– Per quale ragione la produzione cinematografica del genere fantascientifico postula un mondo futuro di distruzione e disperazione? È definitivamente tramontato il mito del progresso?
Già nel 1973 il teologo Gustav Stählin sosteneva che vivevamo in un’epoca in cui si assisteva al passaggio «dal mito dell’onnipotenza dell’uomo costruttore della storia a un altro mito simmetrico e speculare, quello della sua totale impotenza di fronte alla complessità del mondo». Papa Francesco nell’enciclica Laudato si’ individua le ragioni di questi processi, indicando delle precise vie alternative. Nel documento viene sottolineato come sia necessario superare la «fiducia irrazionale nel progresso» a lungo dominante: la crescita economica e il progresso tecnologico degli ultimi due secoli non hanno significato «un vero progresso integrale e un miglioramento della qualità della vita», portando invece anche un «vero degrado sociale» e una «silenziosa rottura dei legami di integrazione e di comunione sociale». Occorre collocare la questione del progresso nell’orizzonte di un’ecologia integrale, evitando la riduzione al solo punto di vista economico e tecnologico, ma aprendo ad una prospettiva antropologica complessa articolata in molteplici punti di vista: «L’ecologia integrale – scrive Bergoglio – richiede apertura verso categorie che trascendono il linguaggio delle scienze esatte o della biologia e si collegano con l’essenza dell’umano». Tale sguardo complesso permette di superare le visioni estremistiche: sia l’esaltazione acritica del progresso («il mito del progresso»), sia la parimenti acritica condanna di ogni azione umana sul mondo. Da qui l’invito ad «allargare nuovamente lo sguardo» nel segno di una libertà umana «capace di limitare la tecnica, di orientarla, e di metterla al servizio di un altro tipo di progresso, più sano, più umano, più sociale e più integrale». Mi pare significativo che, per questa «coraggiosa rivoluzione culturale» verso una vera nozione di progresso, il papa indichi come fondamentale anche la ricerca della bellezza: «La liberazione del paradigma tecnocratico imperante avviene di fatto in alcune occasioni. […] Quando la ricerca creatrice del bello e la sua contemplazione riescono a superare il potere oggettivante in una sorta di salvezza che si realizza nel bello e nella persona che lo contempla». In questo disegno quale ruolo riservare alla produzione cinematografica? Come superare le visioni distopiche e apocalittiche?Ritornando ai concetti che ho accennato, occorre valorizzare e stimolare quel cinema che ha saputo sfidare l’assoluto cui, di volta in volta, si è trovato di fronte. Quel cinema che ha saputo dare immagine a ciò che non si vede, nel senso più ampio possibile. Quel cinema che ha saputo cercare Dio nelle pieghe del visibile, misurarsi con la sua presenza o con la sua assordante mancanza. Questo assoluto che ci circonda, e che il cinema più grande ha sempre cercato, è un altrove, un muovere fuori da sé, che l’immagine cinematografica porta iscritto nella sua stessa essenza, nel fuori campo che la delimita, e ce la restituisce come tale.