«Percorsi di teologia urbana» è il titolo che le Edizioni Messaggero di Padova hanno dato ad una nuova collana diretta da Armando Matteo, docente di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana e autore di saggi particolarmente pertinenti e incisivi nell’analizzare la complessità delle attuali condizioni del credere.
La collana è stata ideata per ripensare l’annuncio del cristianesimo nelle città, a partire dalle provocazioni di papa Francesco in tema di «sfide delle culture urbane» contenute nei paragrafi 71/75 della Evangelii gaudium[1] e che, sotto certi aspetti, possono essere considerate come punto di partenza e di arrivo di molte delle sfide del mondo attuale.
La città, come tema su cui riflettere sotto il profilo teologico e pastorale, si direbbe essere non molto comune. Di «teologia della città» o di «teologia urbana» non sono rinvenibili molte pubblicazioni, almeno in ambito cattolico. E anche nell’insieme dei documenti del magistero ecclesiale l’argomento sembra piuttosto povero. A detta di Andrea Riccardi.[2] Francesco è il primo papa che, venendo da una megalopoli come Buenos Aires e avendo fatto esperienza del cristianesimo nella città, ha elaborato una teologia della città.
Secondo Francesco, tra i compiti storici dell’attuale generazione di credenti vi è proprio quello di rapportarsi con la città contemporanea «a partire da uno sguardo contemplativo», ossia da uno sguardo di fede capace di scoprire Dio «che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze», che «non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero», ancorché a tentoni e in modo impreciso, che accompagna la ricerca sincera compiuta da persone e gruppi per «trovare appoggio e senso alla loro vita», che «vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità e di giustizia» (EG 71) .
Prima lezione di teologia urbana
Alla fine dello scorso anno sono usciti i primi due volumi:[3] uno di Armando Matteo e l’altro a firma di Domenico Cravero e Francesco Cosentino.
Fermamente convinto che in quest’ora della storia ai credenti «spetta in sorte il compito di tornare a pensare» (p. 5), Armando Matteo[4] si pone l’obiettivo, decisamente intrigante, di spiegare il postmoderno «ai cattolici e ai loro parroci», offrendo loro una «prima lezione di teologia urbana».
Secondo il docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana, oggi a riscrivere, dalla testa ai piedi, «le istruzioni del vivere da quelle del credere», in un contesto di progressiva estraniazione le une dalle altre, è proprio quel «cambiamento d’epoca»[5] costituito dalla postmodernità (p. 7) che caratterizza in modo spiccato le culture urbane, ma che – come scrive papa Francesco al n. 73 della Evangelii gaudium –non è estraneo, soprattutto a causa dell’influsso dei mezzi di comunicazione di massa, anche agli ambienti rurali.
Quale «avvento di una nuova descrizione e di un inedito apprezzamento del mondo delle cose e delle cose del mondo» (p. 37), la postmodernità ha «un impatto fortissimo sul cristianesimo vissuto, sul modo cioè in cui quest’ultimo ha, lungo due millenni, fissato le sue istruzioni per credere e soprattutto sul modo in cui le ha raccordate con quelle per vivere, ovvero sulla concreta azione pastorale, oggi semplicemente paralizzata e sempre meno capace di far sorgere nuovi credenti nel Vangelo» (p. 9).
Il postmoderno richiede ai credenti di ripensare profondamente il loro modo di essere cristiani: non per esserlo di meno, ma per esserlo con maggiore autenticità. Contrariamente a quanto succedeva fino a qualche decennio fa, oggi la fede non si trasmette più semplicemente per tradizione, familiare o sociale, quasi per osmosi ambientale di qualcosa di ovvio per tutti, ma è sempre più oggetto di scelta consapevole e criticamente avvertita, di fronte ad un pluralismo crescente di credenze e non credenze.
Oggi il cristianesimo sembra essere essenzialmente «una cosa per bambini e, tutt’al più, per i loro nonni» (p. 10). Ed è «sempre più condivisa l’idea che l’esperienza del credere non è per gli adulti e, di conseguenza, non è per i giovani, i quali, per l’inclinazione stessa della loro condizione di vita, si proiettano più verso il mondo degli adulti che verso quello dei bambini» (p. 94).
La postmodernità, letta alla luce delle sfide delle culture urbane come ci esorta a fare papa Francesco, può essere una preziosa occasione di grazia (un kairòs) per affrontare di petto e in modo radicale la «questione di come dare al mondo adulti che credono» (p. 95) e che sanno testimoniare che il riconoscimento di Dio – come ci ricorda la Gaudium et spes al n. 21 – non si oppone in alcun modo alla dignità dell’essere umano, dato che questa dignità trova proprio in Dio il suo fondamento e la sua perfezione.
Per «dare vita ad un modo di dire e di fare cristianesimo sotto e alle condizioni che il postmoderno pone» (p. 62), è quanto mai urgente prendere sul serio quanto papa Francesco scrive al n. 35 della Evangelii gaudium: «Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e, allo stesso tempo, più necessario».
«E che cosa ci sarebbe – scrive Armando Matteo – oggi di più bello, di più attraente, di più necessario da annunciare alla popolazione urbana, così spesso inquieta, così spesso isolata, così spesso chiusa in se stessa e pur aperta a qualche spiritualità, se non proprio la gioia del Vangelo che riempie il cuore e la vita di coloro che si incontrano con Gesù?» (p. 128).
Sperimenta e testimonia la gioia del Vangelo solo una «comunità di festa», capace di purificare e vivacizzare una fede stanca e abitudinaria che soffre di «una certa depressività e monotonia»[6] (p. 131).
Per Matteo, la categoria della “festa”, associata ad uno stile di vita all’insegna della virtù della “mitezza”, permette di recuperare la dimensione sociale della fede cristiana (p. 143), fermo restando che la mitezza non è la virtù dei deboli ma la virtù di chi anticipa un mondo migliore. Essa è propriamente la virtù di chi «sa essere più forte della propria forza, più potente della propria potenza, più libero della propria libertà, più autonomo rispetto alla propria stessa autonomia» (pp. 144-145).
Un triangolo indisgiungibile: Gesù, i discepoli e la folla
Il secondo volume[7] è costituito da due saggi: il primo La compagnia evangelica delle folle, a firma di Domenico Cravero (parroco della diocesi di Torino, psicologo, psicoterapeuta, sociologo e scrittore); il secondo, Incontrare Dio nella città, di Francesco Cosentino (teologo e docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana di Roma), autore di numerosi libri di grande interesse[8] e, soprattutto, teologo che sa sintonizzarsi con le fatiche, le inquietudini e i dubbi che i cristiani postmoderni avvertono nel “dire Dio” alla maniera di Gesù di Nazaret.
Il titolo del saggio di Cravero – La compagnia evangelica delle folle – esprime bene il senso della sua riflessione.
Per essere all’altezza della sua missione e per abitare in modo creativo la condizione della postmodernità la «Chiesa in uscita missionaria» sognata da papa Francesco deve ritornare alla «via originaria del Vangelo» esprimibile «in un indisgiungibile triangolo: Gesù, i discepoli e la folla» (pp. 21-22).
In Gesù di Nazaret appare la verità di Dio che «non oppone il cielo alla terra, il materiale allo spirituale, il visibile all’invisibile» (p. 51). Gesù di Nazaret, che è la massima rivelazione di Dio (Gv 1,18), ci assicura che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2,4), che «non fa preferenza di persona» (At 10,34), che vuole misericordia e non sacrifici (Mt 9,13), che lascia le novantanove pecore per andare a cercare quella smarrita (Lc 15,1-7).
I discepoli, scelti a rappresentanza delle folle, fanno vita comune e itinerante con il Maestro e, pur tra esitazioni e timori, ne ascoltano la Parola e cercano di credere. Le folle, invece, sono un insieme di gente incuriosita e interessata all’insegnamento del Nazareno perché ne sperano un aiuto ma non necessariamente lo seguono. I discepoli, partecipando all’opera di Gesù, sono invitati a mettersi a servizio della folla. C’è stato un tempo in cui curiosità della folla e sequela del discepolo coincidevano nella «cristianità» (p. 22). Ma oggi, «venuto meno il costume cristiano», non è più così. Oggi, perdere la folla, destinataria del discepolato, potrebbe significare la fine della Chiesa (p. 60).
Ne consegue che, in primo luogo, è da mettere al bando la logica del “piccolo è bello” e dei “pochi ma buoni”. Tale logica è destinata inevitabilmente a sfociare in una sorta di «agorafobia pastorale» (p. 24). La parrocchia non è e non può essere sinonimo di campanilismo o di mentalità chiusa (p. 22).
Al contrario, la parrocchia, in quanto comunità «vicina alle case» (appunto, para-oikia, paroikia), ha il compito «di realizzare la prossimità con le folle», diffidando dei «duri e puri» (p. 60), abbattendo muri e confini, costruendo ponti, cercando di essere lievito nella pasta (Lc 13,21), relazionandosi con credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, critici e perplessi, agnostici e indifferenti e intercettando – come ci ricorda l’incipit della Gaudium et spes – le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono.
L’aggettivo “cattolica”, che qualifica la fede, sta a indicare che la missione della Chiesa è quella di rivolgersi, con stile dialogante, alla “totalità” di persone che vivono in un determinato contesto urbano: non solo, quindi, ai membri della comunità ecclesiale, ma anche a chi nella comunità dei credenti immediatamente non si riconosce.
Per Domenico Cravero «il modello della Chiesa missionaria non è la propaganda, ma l’inculturazione, cioè la testimonianza cristiana negli ambienti di vita e nella cultura» (p. 85). Esige una buona capacità di incontro e di dialogo e implica l’esplicitazione rispettosa e mite della propria identità cristiana che si fa carico della fede altrui nelle più variegate forme. La caratteristica testimoniale, per rendere ogni fede cristiana contagiosa e irradiante verso l’esterno, va curata con sistematicità e continuità mediante idonee ed efficaci offerte formative. Si deve essere consapevoli, infatti, che oggi «si rimane credenti solo se convinti, e si resta convinti solo se in formazione continua» (p. 15).
Una Chiesa che fa brillare bellezza, stile e libertà dell’Uomo di Nazaret
Con il secondo saggio – Incontrare Dio nella città – Francesco Cosentino, nell’intento di aiutare il lettore ad acquisire uno «sguardo contemplativo», ossia uno «sguardo di fede» che gli permette di scoprire il Dio della rivelazione cristiana che abita nelle case, che cammina nelle strade e che è presente nelle piazze delle città dove vivono gli uomini e le donne di oggi (cap. 1), indica alcuni «criteri per l’elaborazione di una teologia della città» (cap. 2) e traccia «una mappa di suggestioni per una spiritualità possibile nella città» (cap. 3).
Il Dio rivelatosi da Gesù di Nazaret non se ne sta in chissà quali lontani cieli, ma irrompe là dove vivono le donne e gli uomini oggi, fra le case, nelle piazze, nei luoghi di lavoro, di studio e di divertimento. E vi irrompe non con il rumore assordante del tuono o del terremoto, ma come un fascio di luce che inonda ogni cosa o – come dice la Bibbia – come «un soffio di vento leggero», ovvero come «una sottile voce di silenzio» (1Re 19,12), che impregna della sua presenza il tempo e lo spazio. Il cristiano crede «che Dio ha piantato la sua tenda in mezzo a noi» e che «Gesù Cristo è la tenda di Dio in mezzo all’umanità, la tenerezza e la compassione divina che prende carne, colui che rivela il volto di Dio come Padre e, nella morte e nella risurrezione, squarcia le tenebre della nostra vita e delle nostre città, per aprirle alla gioia senza fine della vita eterna» (pp. 103-104).
Per Cosentino, come trovare Dio che vive con noi in mezzo allo smog delle nostre città è uno dei più grandi interrogativi per la fede cristiana e una delle più attuali sfide della nuova evangelizzazione (p. 102). Nella sfera mondana e umana giungono in continuazione spifferi di trascendenza e riflessi d’infinito che sta a noi cogliere per poter riempire di senso e di bellezza la vita.
Nella città secolarizzata che sembra «aver smarrito il senso della trascendenza» la domanda che i cristiani devono porsi è fondamentalmente una: come riscoprire le tracce della presenza di Dio e come contribuire a far sì che gli uomini e le donne di oggi ne facciano esperienza e si appassionino al Vangelo di Gesù «in modo semplice, personale e autentico» (p. 105), così da «far germogliare, con il lievito della fede, una nuova qualità del vivere, una rinnovata fiducia nelle relazioni umane e nuove occasioni per la crescita umana e spirituale» (p. 116)?
Tre i criteri suggeriti dal prof. Cosentino per elaborare una teologia della città in grado di aiutare i credenti a rispondere in modo convincente a dette domande:
- tornare al Vangelo e alla prassi di Gesù (pp. 133-138), nella consapevolezza che oggi come non mai abbiamo essenzialmente bisogno di una Chiesa che sa spalancare sui progetti umani l’orizzonte includente e non escludente del regno di Dio in quanto è segnata dall’esperienza e dal contatto con Gesù, l’Uomo di Nazaret la cui bellezza, stile e libertà possono brillare ed affascinare le persone anche oggi (p. 176);
- interpretare in chiave missionaria la relazione tra fede cristiana e storia in modo da offrire messaggi e paradigmi che, partendo dal Vangelo, siano generatori di senso e di speranza (pp. 138-144), nella convinzione che la fede cristiana può convivere con la razionalità e la mobilità culturale delle persone adulte della città secolare e prospettare loro una salvezza dal di dentro della storia e delle vicende umane «senza doversi porre in modo saccente dall’alto, scavando la distanza con il mondo e proclamando leggi esterne» (p. 144);
- scegliere lo stile della compagnia e della profezia, mediante un coinvolgimento empatico nella pasta del mondo portandovi il lievito del regno di Dio (pp. 144-154) e mettendo alla porta tre tentazioni che minano come un male sottile la trasmissione della fede:
– la tentazione del fariseismo che consiste nell’atteggiamento di chi presume di essere il solo giusto salvando «l’esterno di una religiosità impeccabile, senza penetrare a fondo il mistero dell’amore di Dio e del prossimo, fino ad innalzare muri di separazione con il mondo – dopo che in Cristo Gesù sono stati definitivamente abbattuti (cf. Ef 2,14) – per paura di contaminarsi (p. 147);
– la tentazione del paganesimo che consiste nell’assumere acriticamente, da parte della comunità dei credenti, una mentalità mondana incapace di individuare e contrastare il male in tutte le sue forme personali e strutturali e le molte forme di idolatria presenti nel mondo (p. 149);
– la tentazione della consolazione che consiste in progetti e linguaggi pastorali che si nutrono di devozionismi emotivi tesi ad alimentare forme di spiritualità evasiva dal sapore oppiaceo incapaci di «stimolare all’approfondimento critico della Parola, all’azione caritativa, all’impegno nella storia» (p. 151).
Quanto all’individuazione dei contenuti di una possibile spiritualità nella città, la prima cosa da fare – secondo l’autore – è superare ogni «atteggiamento difensivo, chiuso, anestetizzante e pessimista» (p. 156) che impedisce ai soggetti dell’agire pastorale della Chiesa di restare responsabili di fronte al tempo presente e di sognare in grande, come grandi sono i pensieri di Dio.
Nell’attuale contesto culturale urbano non possono essere trascurati importanti segnali che, alla stregua di «grano biondeggiante in mezzo alla zizzania» (p. 157), rappresentano una grande sfida per testimoniare ed annunciare il Vangelo: l’apertura al sacro e al trascendente, la sete di una spiritualità capace di introdurre maggiormente nello spirito del Vangelo, il bisogno di scoprire o riscoprire l’immagine di un Dio che si propone e non si impone, la riscoperta dell’importanza della coscienza e della libertà della persona, l’atteggiamento critico nei confronti di tutte le ideologie assolutizzanti…
In sostanza, si tratta di «continuare a inventare il cristianesimo»[9] (p. 173) venendo incontro a quella sete di Dio presente anche oggi nei contesti urbani, ma per lo più non soddisfatta dalle proposte organizzative provenienti dal modello di parrocchia rigidamente ancorato al concilio tridentino (p. 171).
Vi è un compito storico «a cui una Chiesa che intende evangelizzare la città e il domani non può sottrarsi». È quello di «uscire sulla soglia e iniziare a portare la gioia del Vangelo anche fuori dai recinti di sicurezza della pastorale ordinaria e dagli schemi e linguaggio precostituiti». «Continuare a occuparsi di mantenere in vita – cosa peraltro neanche sempre scontata – coloro che sono già dentro, significa destinare il cristianesimo a una lenta inesorabile morte da invecchiamento e logoramento» (pp. 172-173).
[1] Il cui contenuto è sostanzialmente rinvenibile nei punti da 509 a 518 del Documento conclusivo della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano, svoltasi ad Aparecida, in Brasile, dal 13 al 31 maggio 2007, redatto da una Commissione presieduta dall’allora arcivescovo di Buenos Aires Jorge Bergoglio.
[2] In www.Famigliacristiana.it del 16 marzo 2018, Il Papa? Altro che ignorante, ha elaborato la teologia della città, di Laura Bellomi.
[3] Il piano editoriale della collana prevede l’uscita di altri volumi nel 2019, tra cui: A misura d’uomo, la salvezza per la città di Duilio Albarello (teologo e docente di teologia fondamentale all’Istituto superiore di scienze religiose di Fossano (Cn) e alla sezione torinese e milanese della Facoltà di teologia dell’Italia settentrionale) e Metamorfosi del centro. Cultura, fede e urbanizzazione di Vincenzo Rosito (filosofo e docente di filosofia teoretica alla Pontificia facoltà teologica San Bonaventura – Seraphicum di Roma).
[4] Armando Matteo, Il postmoderno spiegato ai cattolici e ai loro parroci. Prima lezione di teologia urbana, Edizioni Messaggero, Padova 2018.
[5] «Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli» (papa Francesco, Discorso del 10 novembre 2015 ai rappresentanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana).
[6] Scrive icasticamente Armando Matteo a pagina 79 di “Tutti giovani, nessun giovane” (Edizioni Piemme, Milano 2018): «Chiunque abbia anche un minimo di confidenzialità con la vita delle parrocchie, soprattutto nei contesti occidentali, sa quanto sia ancora attuale l’accusa che il filosofo Friedrich Nietzsche, con un mirabile gioco di parole, lanciò, già un secolo e mezzo fa, ai cristiani: quella di confessare un vero e proprio “monotonoteismo”, l’accusa di puzzare letteralmente di tristezza, di noia, di ripetitività fino allo svenimento». Di “monotonoteismo cristiano” Friedrich Nietzsche scrive al n. 19 de “L’Anticristo”.
[7] Domenico Cravero-Francesco Cosentino, Lievito nella pasta. Evangelizzare la città postmoderna, Edizioni Messaggero, Padova 2018.
[8] Francesco Cosentino, Un Dio possibile. Cristianesimo, immaginazione e “morte di Dio”, Cittadella Editrice, Assisi 2009; Immaginare Dio. Provocazioni postmoderne al cristianesimo, Cittadella Editrice, Assisi 2010; Il Dio in cammino. La rivelazione di Dio tra dono e chiamata, Tau Editrice, Todi 2011; Sui sentieri di Dio. Mappe della nuova evangelizzazione, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi 2012; Dalla fine del mondo, Tau Editrice, Todi 2016; Incredulità, Cittadella Editrice, Assisi 2017; Cf. Settimana n. 18 del 5 maggio 2013, Un Dio che sa danzare di Andrea Lebra e SettimanaNews.it n. 36/2017, Vorrei imparare a credere di Andrea Lebra.
[9] L’espressione “continuare a inventare il cristianesimo” è di Jean Delumeau, studioso francese della storia del cristianesimo (in Scrutando l’aurora. Un cristianesimo per domani, EMP, Padova 2003, 176).