A forza di non tener conto, nella Chiesa, dei diritti della difesa e della presunzione d’innocenza, l’inevitabile è successo. Dei preti accusati di infrazioni sessuali si sono suicidati.
Questi drammi impongono alla Chiesa di fare un riforma giuridica profonda. Attualmente, quando un laico accusa un prete di aver commesso un’aggressione sessuale o anche semplicemente di aver avuto una relazione sessuale con un terzo consenziente, il vescovo, per timore di essere sospettato di favoreggiamento, prende subito dei provvedimenti sanzionatori, il che ha per effetto di rendere pubblica l’accusa. Interviene poi sui media ripetendo che aborre ogni forma di offesa alle persone, che la Chiesa è sempre dalla parte delle vittime e che ormai sa come reagire in questo tipo di situazioni.
Solo che, a volte, le accuse sono false, che il ruolo primario del vescovo non è premunirsi contro il sospetto di aver coperto dei reati e che, in realtà, la Chiesa non applica alcuna procedura penale coerente e uniforme di fronte a un sospetto di infrazione sessuale. Agendo così, la Chiesa, non solo non risponde al legittimo bisogno di giustizia reclamato dalle vittime ma fa sprofondare nell’angoscia i preti che, in qualsiasi momento, possono essere oggetto di calunnia.
A garanzia della libertà, della dignità, dei diritti
È urgente mettere in atto una vera procedura penale ecclesiale che esiste del resto già in parte, ma non è assolutamente applicata per ignoranza, per facilità o per orgoglio. Le regole di procedura non sono obblighi formali, abilmente usati dagli avvocati per permettere ai delinquenti di sfuggire alle sanzioni penali che si meritano. Sono le garanzie della libertà, della dignità e dei diritti fondamentali, in particolare della presunzione d’innocenza. Hanno lo scopo di permettere un dibattito equo e, quindi, di stabilire la verità.
Senza regole di procedura, domina l’arbitrarietà: o gli autori di infrazioni, se potenti, riescono a far insabbiare il caso che le mette in difficoltà (è ciò che è purtroppo successo per anni nella Chiesa), oppure degli individui sono colpiti da sanzioni senza aver potuto far sentire il loro punto di vista né aver avuto accesso ad una difesa. Questi due ostacoli sono intollerabili. Dopo aver causato danno a se stessa con il primo, sarebbe un peccato che la Chiesa si bloccasse nel secondo.
In primo luogo, le dichiarazioni della vittima presunta dovrebbero essere consegnate per iscritto, in un documento che in diritto si chiama verbale e che presenta il vantaggio di fissare le affermazioni del suo autore. Nel quadro dell’inchiesta, è indispensabile che il prete oggetto dell’accusa sia a conoscenza dei fatti che gli sono attribuiti e che possa essere ascoltato con l’assistenza di un avvocato ecclesiastico. Dovrebbero essere messe in atto delle misure di istruzione semplici ma efficaci, come confronti, audizioni di testimoni, perquisizioni, in modo che di tutto questo ci siano dei verbali allegati alla pratica e quindi conosciuti sia dalle presunte vittime che dal presunto colpevole.
Al termine dell’inchiesta, che dovrebbe durare un tempo ragionevole (ventiquattro mesi sembra un termine realistico), se ci sono elementi sufficienti a far pensare che la persona abbia effettivamente commesso un atto illecito, il caso dovrebbe essere inviato ad un’udienza in giudizio. I giudici ecclesiastici, con decisione collegiale, esprimerebbero una decisione pubblica, suscettibile, idealmente, di ricorso in appello.
Per quanto possa sembrare sorprendente, nulla di tutto questo è attualmente applicato. Vengono decise sanzioni infamanti e brutali, senza contraddittorio, sulla base delle semplici dichiarazioni di un fedele. La procedura diventa infinita, e lascia le vittime (di aggressioni sessuali o di calunnie) nella perplessità e nella sofferenza.
Per aiutare i vescovi nella loro difficile missione, ogni diocesi dovrebbe dotarsi di un «referente di procedura», specialista di diritto penale canonico, che indicherebbe quali regole siano da applicare. Così, portando avanti un’inchiesta efficace, il vescovo, se lo ritiene giustificato, potrebbe prendere dei provvedimenti, come la sospensione del prete in questione.
Sulla opportunità della denuncia
Un altro problema merita di essere approfondito: quello dell’opportunità di una denuncia al pubblico ministero dei fatti portati a conoscenza del vescovo. Su questo punto, è indispensabile fare una distinzione tra infrazione penale (nel senso civile del termine) e comportamento illecito (in senso unicamente canonico).
Costituisce infrazione al codice pensale un rapporto sessuale di un adulto con un minore di meno di 15 anni o un rapporto sessuale non consensuale con una persona di più di 15 anni (aggressione sessuale o stupro). La costrizione può assumere forme diverse: minaccia, violenza, influenza spirituale ecc.
Per i reati effettivi, in linea di principio il vescovo non deve sostituirsi alle vittime, salvo nel caso in cui siano particolarmente vulnerabili. Il suo ruolo è quindi di incitarle prontamente a fare denuncia. In caso di rifiuto, non può, prima di aver condotto la propria inchiesta, informare le autorità di fatti di cui non ha alcuna certezza. Se viene aperta un’inchiesta civile, la procedura ecclesiale dovrà lasciare che la giustizia possa condurre il suo lavoro di investigazione.
Per le altre relazioni, che sono le più numerose, in particolare i rapporti tra maggiorenni consenzienti, non è necessario avvertire le autorità. Il prete, per la giustizia civile, è un uomo come un altro.
Claire Quétand-Finet è avvocato specialista in diritto di famiglia (https://cqf-avocat.com/). Il suo articolo è apparso su La Croix il 14 gennaio 2019. La traduzione è del sito Fine Settimana.