Non avevo in programma un viaggio a Istanbul. È arrivato. L’ho vissuto in buona compagnia, insieme a una delegazione dell’Istituto universitario Sophia invitata a Costantinopoli dal Patriarca Bartolomeo (cf. qui su Settimana News).
L’accoglienza premurosa dei pellegrini (un gruppo di docenti, studenti, ex studenti, personale e amici impegnati nel dialogo ecumenico) era in carico alle comunità del Movimento dei Focolari di Istanbul. Curata nei dettagli, grazie all’appoggio di un convento di francescani, nel quartiere che fu dei mercanti italiani. A due passi da piazza Taksim. Il convento è mimetizzato tra le facciate di Istiklal Caddesi, lungo viale di negozi, ristoranti, ambasciate, bancarelle di caldarroste e un fiume di gente.
Istanbul disorienta e toglie il fiato. Per la sua storia straordinaria, che rievoca ovunque nomi di luoghi, eventi, personaggi incontrati sui banchi di scuola. Per il fascino di una metropoli che appartiene a due continenti. Per la sua densità: meno di un milione di abitanti nel 1950 (la metà cristiani); diciotto milioni oggi, con i cristiani ridotti al lumicino (meno dell’1%).
Un incontro di carismi
La nostra visita è iniziata nel passato. Dalla memoria dell’incontro tra l’allora Patriarca di Costantinopoli, Athenagoras, e la giovane fondatrice del Movimento dei Focolari, Chiara Lubich. Era il 13 giugno 1967. A quella data seguirono altri otto viaggi e molti altri incontri. Segno di un’amicizia vera, di una sintonia profonda tra due carismi che preparò la riconciliazione tra Paolo VI e Athenagoras, che nel 1967 si scambiarono la visita nelle reciproche sedi.
Da allora il rapporto cordiale tra cristiani delle due Chiese non si è più interrotto; in questo «dialogo della carità» continuano a essere coinvolte le comunità dei Focolari di Istanbul. La loro presenza mantiene un tratto discreto, ma ha la sostanza di una vivace «diplomazia informale» capace di aprire tante porte. Di tessere, nel tempo (senza «occupare spazi»!), una rete di relazioni cordiali tra i cristiani di diverse confessioni. Abitando con fede anche divisioni dolorose.
«Athenagoras e Chiara Lubich hanno aperto la porta del dialogo e nessuno può più chiuderla». Gennadios Zervos, metropolita greco-ortodosso di Italia e Malta, ne è convinto. Si deve a lui e al preside dell’Istituto, Piero Coda, l’idea di istituire una cattedra ecumenica internazionale a Sophia, dopo che la giovane università di Loppiano aveva conferito il primo dottorato honoris causa della sua storia proprio al Patriarca Bartolomeo (nell’ottobre del 2015).
La sosta del gruppo presso la tomba di Athenagoras ha espresso riconoscenza; ha onoranto la sua figura e rinnovato una adesione cordiale allo spirito ecumenico di cui fu convinto pioniere. Alla Theotokos della Fonte vivificante (venerata nel luogo), sono affidati i passi di un cammino fragile e profetico – minacciato ora dalle tensioni tra Mosca e Costantinopoli.
La pazienza di Halki
Il secondo giorno si apre in barca, direzione Halki (Heybeliada, in turco), un’isola di fronte alla città nel mare di Marmara. Il monastero della Santa Trinità di Halki è antichissimo. La fondazione risale al Patriarca Fozio, nel IX secolo, anche se l’edificio attuale è della fine del XIX. Al nostro arrivo siamo ricevuti nell’aula magna della scuola teologica dal metropolita di Bursa, Elpidophoros, abate del monastero e teologo. Insegna a Salonicco; lo si ritiene l’erede del grande Zizioulas.
Halki è stata per oltre un secolo la scuola teologica di «alta formazione» del Patriarcato. Vivaio di teologi e letterati, ma soprattutto di vescovi, metropoliti e patriarchi. Anche Bartolomeo ha studiato e si è laureato qui. Nel 1971 il governo turco ha soppresso la scuola che rimane tuttora chiusa. A nulla sono valsi i ripetuti appelli pubblici del Patriarcato Ecumenico e le pressioni esercitate su Erdogan da figure del gotha politico internazionale, come Barack Obama e Joe Biden.
Un grande peccato, chiosa Elpidophoros, soprattutto in una stagione nella quale la nostra società avrebbe bisogno di clero ben preparato alla missione pastorale. Al monastero rimane una piccola fraternità: cinque monaci e il loro abate. Portano avanti la vita di preghiera e lo studio, curano il grande giardino e la biblioteca storica. Un finanziamento importante dalla Grecia consente di classificare e digitalizzare l’enorme patrimonio librario, ricevendo anche studenti europei nel quadro dell’Erasmus. È pronto un progetto di ristrutturazione degli ambienti e un nuovo programma accademico, che prevede anche corsi in lingua inglese per accogliere studenti stranieri (se il governo vorrà…). Si intuisce che anche Sophia potrebbe collaborare con Halki nella preparazione di una Summer School per giovani cattolici, ortodossi e musulmani.
In mancanza di una propria scuola, il Patriarcato deve oggi importare in Turchia personale formato all’estero, nelle rispettive scuole nazionali – dalla Grecia in modo particolare. Ma in queste scuole, dove l’impronta identitaria è più forte, è difficile formare un clero capace poi di vivere in una condizione di minoranza come quella dei cristiani in Turchia. Difficile educarsi al dialogo e alla convivenza pacifica con l’islam se ci si forma lontano dal contesto sociale e religioso turco.
Addolora non ricevere risposte dal governo; ma anche il fatto che ad Ankara non si comprenda il bene che ne avrebbe il paese permettendo di formare in Turchia il clero a servizio delle comunità autoctone. Un grande peccato e un’ingiustizia.
Tramonto al Fanar
Fanar. Sede del Patriarcato ecumenico. Dalla caduta di Costantinopoli (1453), e dopo la decisione del sultano Murad III di trasformare in moschea l’allora chiesa patriarcale (1591), questo piccolo quartiere e la sua chiesa di San Giorgio sono divenuti il simbolo dell’autorità spirituale per migliaia di fedeli, eredi di quella che fu la Chiesa dell’Impero bizantino.
Anche durante la dominazione ottomana, il Patriarca della «Nuova Roma» godeva ancora del primato di giurisdizione su quasi tutta l’Ortodossia. Oggi i fedeli greco-ortodossi in terra turca sono rimasti poco meno di tremila. La loro età media supera i 50 anni. Alla firma del Trattato di Losanna, nel 1923, erano centotrentamila; e tanti dovevano rimanere, in equilibrio con la minoranza turca in Grecia. «Se le leggi, le tendenze demografiche e i comportamenti delle autorità di Ankara non cambieranno, dopo Bartolomeo potrebbe non esserci futuro», scriveva pochi anni fa un giornalista americano.
La Chiesa greco-cattolica di Costantinopoli vive oggi soprattutto nella diaspora. La maggior parte delle sue 72 diocesi si trovano tra gli Stati Uniti e l’Australia. L’incessante attività pubblica di Bartolomeo esprime il desiderio di comunicare (al governo turco, ma non solo) la sua convinzione incrollabile: «Siamo sopravvissuti alla storia e crediamo nei miracoli».
La nostra delegazione raggiunge il Fanar nei giorni in cui è riunito il Santo Sinodo. Pochi giorni prima, il 6 gennaio, nella Chiesa patriarcale di San Giorgio il Primate della nuova Chiesa ortodossa in Ucraina, Epifanio, aveva ricevuto da Bartolomeo il tomo dell’autocefalia per la sua Chiesa nazionale. Decisione complessa e gravosa, che ha portato i rapporti col Patriarcato di Mosca sul filo della rottura. Alla ferita ecclesiale che si profila nel mondo ortodosso potrebbero aggiungersi conseguenze difficili da pevedere, anche in Occidente. La storia transita ancora da questo piccolo quartiere.
Siamo ricevuti nella Sala del Trono. In un silenzio quasi religioso, ascoltiamo il saluto del Patriarca Ecumenico, che contiene un cenno alla stretta attualità: «Il Patriarcato Ecumenico, come è nei suoi diritti e doveri da tutti riconosciuti, ha concluso nel giorno della Santa Teofania del Signore il processo che ha portato ad accogliere e a riconoscere la quindicesima tra le Sante Chiese ortodosse autocefale locali, la Chiesa ortodossa in Ucraina, sanando in questo modo una divisione tra i propri fedeli di quel Paese, ma anche dando giustizia ad un processo storico lungo di secoli». Segue uno scambio di saluti e doni. Il Patriarca riceve la prima tesi della cattedra ecumenica e un libro a lui dedicato di recente traduzione italiana.
In pochi giorni è apparso evidente come l’ecumenismo esiste solo se diventa anzitutto una realtà della vita e del cuore. Niente lascia il segno quanto i luoghi, i volti e le storie. Al ritorno la necessità di pregare per l’unità dei cristiani si avverte come preciso dovere. Per quei volti e quelle storie. Perché il cammino intrapreso 50 anni fa non s’interrompa.