Teologia della liberazione, gli scritti di Drewermann sul prete, mons. Battisti con la sua apertura ai laici a guida della comunità parrocchiale nella diocesi di Udine… casi concreti di una Chiesa che avrebbe potuto essere ma non è stata. Itinerari interrotti per cui oggi paghiamo anche un prezzo e davanti ai quali si pone un’esigenza di memoria e riflessione – per apprendere a costruire una Chiesa che non sia rispecchiamento delle nostre idee e concezioni.
Alla fine, dobbiamo riconoscerlo: come Chiesa non siamo arrivati pronti allo snodo che stiamo attraversando in questo momento, non siamo attrezzati al compito che si para davanti a noi. Dagli abusi alle forme della pastorale, dalla cultura alla politica, dalla vita spirituale al vivere insieme in società con altri.
Certo, non siamo soli nello spaesamento che si respira quotidianamente, anzi. L’agonia delle idee portanti della forma democratica è ben più drammatica di quella dei concetti base del catechismo parrocchiale, come lo è la paralisi di quelle anime illuminate e liberali che non si accorgono di essere state loro stesse una delle ragioni che ha portato all’estinzione dei paradigmi più luminosi e geniali dell’epoca moderna.
Non siamo all’altezza
Ma da noi stessi potevamo attenderci qualcosa di più di quello che si chiede ai rappresentanti delle istituzioni civili e della società umana. La radicalità del Vangelo pesa sulle nostre spalle e non su quelle del mondo, che ha i suoi pensieri e le sue misure. La differenza è compito nostro, ed essa (se mai ne fossimo capaci) dovrebbe essere di più alta qualità e umanamente apprezzabile.
È come se la Chiesa, e quindi tutti i discepoli e le discepole che la compongono, ad un certo punto si fosse persa per via: smarrendo la strada che il Signore le indicava per eccessiva preoccupazione di assicurarci previamente che fosse esattamente quella desiderata da lui.
Capisci che davanti a uno Spirito che soffia arioso (al ritmo dei tempi senza mai sottomettersi a essi) se procedi così non solo di strada ne fai poca, ma finisci anche per mancare quel viottolo un po’ nascosto che ti avrebbe riportato spedito sula via incerta che il Signore percorre spavaldo da secoli immemori.
Di molto dobbiamo chiedere scusa. Per l’innominabile del delitto dobbiamo espiare e riparare (e non solo chiedere perdono). Alle generazioni più giovani possiamo solo chiedere il favore di fare come se non ci fossimo – almeno per evitare di intralciarle ulteriormente, mostrando così che le riconosciamo all’altezza e mature della libertà e della fede.
Morte di pezzi di una Chiesa possibile
Tutto questo rimane; ma saremmo potuti arrivare a questo redde rationem con l’esigenza del Vangelo, da un lato, e la comunità degli esseri umani, dall’altro, con una grammatica dell’agire e uno stile della parola molto più signorili e degni.
Per convinzione di possedere un sapere superiore, saldo nella sua irrevocabilità e penetrante nel suo giudizio, abbiamo segato il tronco sul quale tutti stavamo. Al limite litigando tra noi su quale avrebbe dovuto essere il punto in cui tagliarlo, ma nessuno con l’idea che forse sarebbe stato meglio lasciarlo così come era con tutti quanti accoccolati sopra – un po’ traballanti e spauriti, certo, ma comunque insieme.
Di quelle potature paghiamo oggi un prezzo enorme.
L’istituzione stessa se ne accorge, ma non può porre alcun rimedio al «tempo perduto» inseguendo fantasmi a destra e a sinistra. Certo, può oggi forse allietare i cuori (di alcuni), e lasciar ben sperare per il futuro (si spera di tutti), la nomina di don Carlos Mattasoglio ad arcivescovo di Lima, ma la ricaduta ecclesiale di una teologia della liberazione non costretta a giustificarsi (e sfiancarsi) in ogni propria affermazione è qualcosa di irrevocabilmente perso. Può fare onore a mons. Wilmer il riconoscimento della pertinenza teologica ed ecclesiale dell’opera di Drewermann, ma questo non toglie nulla al fatto che per oltre trent’anni abbiamo formato preti quasi senza tenere minimamente conto delle cose che scriveva.
Di quale sapienza pastorale potremmo oggi disporre in Italia, non solo riguardo alla parrocchia come comunità cristiana che vive in un determinato spazio dell’umana quotidianità, ma anche come luogo dell’attiva partecipazione dei cristiani/e comuni alla formazione del prete, se il «coordinatore parrocchiale» immaginato da mons. Battisti per la sua diocesi di Udine nella seconda metà degli anni `90 non fosse stato sostanzialmente un bambino nato morto?
Il tallero della discordia
Di questi sentieri interrotti dovremmo coltivare oggi una fedele memoria; non però per dire altezzosamente che qualcuno decenni fa sbagliò tutto, né per celebrare una rancorosa vendetta postuma, ma semplicemente per essere tutti consapevoli di quello su cui nessuno oggi può più disporre nella Chiesa (né gli amici del cuore di Francesco, né quelli che lo vedono come il fumo negli occhi). Abbiamo fatto morire pezzi di Chiesa possibile – e a questo non c’è rimedio nella storia.
Negli ultimi quarant’anni ci siamo impoveriti di talenti evangelici, accumulando a dismisura talleri di una discordia irriconciliabile. Questo è l’esito che tutti ci accomuna – che ci piaccia o no.
Questa condizione della Chiesa non solo non rende onore all’Evangelo che tutti professiamo, ma non è neanche bella a vedersi. E francamente dovremmo vergognarci non poco se finiamo quotidianamente sui giornali solo perché garantiamo, oltre ogni più rosea aspettativa del demone comunicativo, il circo mediatico di fratelli e sorelle pronti a sgozzarsi tra loro in nome della più alta e onesta difesa di Dio. Invece, di questa condizione, francamente un po’ perversa, ci nutriamo ogni giorno per poter apparire legittimamente, e legittimati, sulla scena della comunicazione pubblica.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di tenere insieme i pezzi più disparati di una Chiesa possibile, anche nella loro apparente contraddittorietà e incompatibilità. Così facendo, mostreremmo di aver imparato qualcosa dal passato, perché neanche coloro che allora plaudivano la morte di un pezzo di Chiesa ne sono usciti vincitori o più sicuri nelle loro idee.
Concordo pienamente con l’analisi. Oggi sembra quasi di vivere un entusiasmo a metà: tra un Pontificato e un momento storico che “rivaluta” quanto fino a pochi anni fa era considerato eresia, e la consapevolezza, però, che un tempo perduto è andato e abbiamo perso preziose occasioni. Non ci resta che seminare ancora e sperare che domani qualcosa accada. Grazie per la lucida riflessione.
E quanto si sta perdendo con la semplice “rivalutazione” del passato?
Quasi un regolamento di conti più che un passo in avanti…