Sulla formazione liturgica, senza finzioni

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Nel discorso che papa Francesco ha tenuto alla Congregazione del culto (14 febbraio), si legge nelle prime righe questa importante “memoria”:

«Sono passati cinquant’anni da quando, l’8 maggio 1969, san Paolo VI volle istituire l’allora Congregatio pro Cultu Divino, al fine di dare forma al rinnovamento voluto dal Vaticano II. Si trattava di pubblicare i libri liturgici secondo i criteri e le decisioni dei padri conciliari, in vista di favorire, nel popolo di Dio, la partecipazione “attiva, consapevole e pia” ai misteri di Cristo (cf. Cost. Sacrosanctum Concilium, 48). La tradizione orante della Chiesa aveva bisogno di espressioni rinnovate, senza perdere nulla della sua millenaria ricchezza, anzi riscoprendo i tesori delle origini».

In queste ultime parole, che ho evidenziate, è contenuta una “evidenza dimenticata” da parte di molti liturgisti, e anche di molti teologi. Vi si ricorda, infatti, che dopo il Concilio, per attuare disposizioni del Concilio stesso e favorire la “partecipazione attiva” del popolo di Dio, “la tradizione orante della Chiesa aveva bisogno di espressioni rinnovate”, che non facevano perdere nulla, anzi restituivano tesori più antichi.

Se è vera questa premessa, il lavoro di “formazione” di cui oggi ha bisogno la recezione di questa “memoria conciliare” deve anzitutto mettere in chiaro questo elementare passaggio: la Congregazione del Culto accompagna autorevolmente quelle “espressioni rinnovate” di cui ha bisogno la tradizione orante della Chiesa.

La teologia dovrebbe aver acquisito da tempo questa evidenza. Il suo lavoro responsabile dovrebbe accompagnare la faticosa elaborazione di “espressioni rinnovate”, senza più “ripiegarsi in un passato che non è più”.

Per favorire un lavoro di formazione ad una liturgia che è “vita che forma, non idea da apprendere”, occorre mettere in chiaro, in modo deciso, un principio fondamentale. I nuovi riti, scaturiti dal serio lavoro successivo al Concilio Vaticano II, sono la correzione, l’emendamento, la riforma dei riti precedenti. In altri termini, il Novus Ordo ha avuto la intenzione di sostituire il Vetus Ordo. Non si dà alcuna possibilità di intendere vigenti contemporaneamente due riti, di cui il secondo è nato proprio per correggere il precedente. Poi saranno possibili eccezioni locali, ma la legge universale può essere solo questa.

Su questo, ripeto, anzitutto la teologia dovrebbe restare lucida e dare il suo contributo responsabile. Purtroppo, però, ci sono teologi che su questo punto spesso sono generici, poco lucidi, esitanti e ambigui. E possono anche ipotizzare che sia facile, logico e coerente pensare ad una “vigenza” parallela, di NO e di VO.

Vorrei citare, ad es., un testo contenuto in un recente manuale sulla eucaristia, scritto da H. Hoping, nel quale, addirittura con tono ironico, si dice quanto segue:

«Da parte di circoli sia tradizionalisti sia cattolico-liberali non di rado si afferma l’esistenza di una contrapposizione, in merito alla lex credendi e lex orandi, tra l’antica e la nuova messa – contro la decisione di Benedetto XVI nella Summorum pontificum. Qui si avvera il detto “gli estremi si toccano”» (H. Hoping, Il mio corpo dato per voi. Storia e teologia dell’eucaristia, Brescia, Queriniana, 2016, 321)

Qui è evidente come Hoping utilizzi solo il criterio di autorità e di ironia, rinunciando al criterio di ragione e a fornire argomenti convincenti per sostenere la “compatibilità” tra NO e VO. In questo modo anche la teologia diventa irresponsabile e non aiuta la Chiesa a discernere il proprio compito. Non a caso lo stesso Hoping, a mio modo di vedere del tutto irresponsabilmente, inserisce nel suo manuale una presentazione parallela di NO e di VO, non come modelli storicamente in divenire, ma come possibilità contemporanee. Addirittura come possibilità alle quali “formare” contemporaneamente lo stesso studente o seminarista. Qui sta un errore logico e teologico irrimediabile, che il teologo ha il dovere di segnalare, se vuole unire il rispetto della autorità con il rispetto della ragione. Perché, se si sostiene che il VO continua ad essere vigente, non si capisce perché mai la Chiesa, da 50 anni, si sia posta in gioco per “rinnovare la propria espressione liturgica”.

È evidente che tra VO e NO non vi è contraddizione, se li si considera diacronicamente: ciò significa che in tempi diversi non vi è contrasto tra il rito di Pio V e il rito di Paolo VI. Ma vi è contraddizione se si pretende di considerare sincronicamente l’uso contemporaneo dei due diversi ordines. Questo uso contemporaneo crea identità ecclesiali parallele, conflitti, incomprensioni, rotture e muri a non finire.

Su questo punto il lavoro liturgico di oggi e di domani non può più avere dubbi. E i teologi devono fare la loro parte, senza paura e con buoni argomenti. Se non si dice chiaramente questa verità, se si giustifica l’uso del VO non per ragioni eccezionali, ma magari solo per la “sciatteria delle nostre liturgie”, si contraddice la volontà del Concilio Vaticano II e il faticoso ma positivo lavoro di questi 50 anni di riforma liturgica. Perché la “formazione liturgica” diventi realmente “forma di vita”, occorre rimuovere definitivamente ogni possibile ambiguità. Si può lavorare comunitariamente e concordemente su un solo rito comune a tutti. Se si lascia universalmente aperta la “fuga nel passato”, si diventa irresponsabili, perché si lascerà sempre il dubbio che il Concilio Vaticano II sia stato solo una parentesi e che la partecipazione del popolo di Dio alla liturgia sia una illusione o addirittura un abuso.

«La tradizione orante della Chiesa aveva bisogno di espressioni rinnovate». Queste parole di papa Francesco sono decisive. Dobbiamo ricordare queste “nuove espressioni” come una necessità inaggirabile, senza consentire a qualcuno di potersene dispensare, per ideologia o per comodità. Potrà essere concesso eccezionalmente a qualcuno, solo per ragioni speciali e solo dalla autorità territoriale competente. Ma non potrà più essere concepibile un “duplex ordo” universale a livello liturgico, nel quale sopravviva in vigore, universalmente, proprio quel rito che la riforma ha voluto superare, arricchire e riformare. Se questo problema non viene risolto, parlare di formazione liturgica rischierà di diventare una espressione equivoca, come purtroppo già avviene non solo su qualche manuale, ma anche in qualche diocesi, per la irresponsabilità e di teologi e di pastori.

Pubblicato il 15 febbraio 2019 nel blog: Come se non.

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